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Portiamo nel nostro sangue il sale marino: Una favola per il futuro, Rachel Carson (di Giulia Oglialoro)

Ci sono molti modi per tentare di evadere dai limiti corporei: Rachel Carson ne scelse uno piuttosto inusuale, ovvero lo studio della biologia.  Nelle minuziose descrizioni del mondo naturale, i suoi scritti raggiungono una vividezza e una musicalità tali da non sembrare affatto contributi scientifici, piuttosto formule che propiziano una metamorfosi, snocciolate a bassa voce dall’autrice un attimo prima di mutare in altre forme. Una favola per il futuro, pubblicato da Aboca edizioni nell’elegante traduzione di Isabella C. Blum, raccoglie gli scritti meno noti della ricercatrice americana, permettendoci di assistere all’evoluzione del suo stile.
Nata nel 1907 a Springdale, nella Pennsylvania rurale, al primo anno di college Carson lasciò la facoltà di letteratura per quella di biologia marina – una scelta del tutto istintiva, dato che ancora non aveva mai messo piede su una spiaggia, ma chissà che non sia stato questo innamoramento ideale per l’acqua a scolpire la sua scrittura, come se gli oceani fossero luoghi da esplorare con l’immaginazione, prima ancora che con lo studio.
Undersea, il saggio che apre la raccolta, nasce in realtà da un fallimento lavorativo: il suo capo alla “U.S. Bureau of Fisheries”, il Dipartimento Statunitense per la Pesca, glielo riconsegnò scuotendo la testa e con gli occhi lucidi; come report governativo non andava bene, ma le suggerì di inviarlo all’“Atlantic”. Pubblicato sulla prestigiosa rivista nel 1941, Undersea si legge con lo stesso piacere di un racconto narrativo, e rivela già la maturità stilistica di Carson, uno speciale connubio fra precisione e ricchezza espressiva: le profondità dell’oceano sono luoghi in cui regnano «silenzio assoluto, gelo costante e una notte eterna», attraversati da sciami di minuscoli pesci che «scintillano nella penombra come una pioggia argentea di meteore». Per immergerci negli abissi, dobbiamo liberarci «dalle nostre percezioni umane di lunghezza e larghezza, di tempo e di spazio, ed entrare per immedesimazione in un universo dove l’acqua tutto pervade». E così i movimenti soffusi delle alghe o delle stelle marine, le migrazioni notturne dei bivalvi che con la bassa marea scavano la sabbia, o le colonie di gamberi che trovano rifugio «sotto i filamenti gocciolanti di vegetazione bruna, della consistenza del cuoio», ogni più piccola variazione della vita marina viene innanzitutto evocata dalla sinuosità della scrittura, da una lingua inventiva e sinestetica.

 

 

Altrettanto acuti sono i saggi dedicati alle anguille – animali per cui la maggior parte delle persone nutre un’istintiva avversione, ma dai quali Carson era invece profondamente affascinata: «L’anguilla scivola a valle, accingendosi a un viaggio che per lei non avrà ritorno. Nascondendosi di giorno e lasciandosi portare dalle correnti di notte, si trova in un fiume sempre più ampio, in canali sempre più profondi, mentre l’acqua porta ai suoi sensi acuti sapori sconosciuti». L’istinto di homing, secondo il quale le anguille compiono un viaggio di oltre mille e cinquecento chilometri per fare ritorno nel luogo di provenienza dei loro genitori, sfuggendo alle rilevazioni degli scienziati così come ai pescherecci più agguerriti, rappresenta ancora oggi uno degli inscalfibili misteri della biologia. Solo giunte a destinazione, in luoghi diversi eppure simili a quelli in cui sono nate, penetrati solo da una debole foschia azzurra, queste creature instancabili depongono le uova. «Evidentemente, dopo averle deposte, le vecchie anguille muoiono, giacché non fanno più ritorno sulla costa. La loro vita ha principio e fine nella profondità degli abissi».
Ma la curiosità che spinse Carson a immergersi negli oceani si accompagnò a una curiosità di verso opposto: Una favola per il futuro è infatti punteggiata da appassionate descrizioni di uccelli, che spesso suonano come grida d’allarme per esemplari sempre più minacciati dall’attività umana. Il saggio Mondi perduti: il problema delle isole, per esempio, descrive a tutti gli effetti l’uomo come una specie invasiva, che stravolge l’avifauna delle isole dell’oceano Indiano, importando uccelli di altri ecosistemi e dando la caccia a quelli nativi. È uno dei testi più dolenti dell’intera raccolta, perché ci mostra che la violenza può assumere forme subdole e complesse, e che cantare di un’armonia perduta con la natura non ha alcun senso finché il nostro rapporto con i luoghi resta di mera sopraffazione.
Se con il libro Primavera silenziosa, edito nel 1962, Carson denunciò al mondo gli effetti nefasti degli insetticidi usati in agricoltura, ispirando così la nascita del movimento ambientalista, Under the Sea-Wind è un libro altrettanto politico, anche se sono state più le circostanze storiche a renderlo tale. Mai tradotto in italiano, si tratta del primo libro di Carson sulla vita negli oceani, e c’è qualcosa di straziante nel fatto che sia stato pubblicato appena un mese prima dell’attacco di Pearl Harbor, e che l’autrice abbia dedicato così tanto studio, impegno e accuratezza a quelle stesse acque che poco dopo sarebbero state sconvolte dai bombardamenti. Una favola per il futuro ne riporta l’introduzione: «Cosa più difficile di tutte,» ammette Carson «ho dovuto acquisire la percezione di un mondo interamente acquatico». Voleva trasmettere, per esempio, che il tempo umano non significa niente per le creature marine, e luce e buio indicano solamente i momenti in cui si è più o meno esposti agli attacchi dei predatori. Ma la sensibilità dell’autrice si spinge persino oltre, quando confida di aver passato «ore tra le dune o sulla spiaggia, saturandomi con i suoni dell’acqua e con la sensazione del sole caldo e della sabbia sollevata dal vento». Ecco allora la grande di Carson, il salto di specie che la distingue da tante altre voci competenti nel campo della scienza e della divulgazione – il momento in cui la scrittura finisce per acclimatarsi a ciò che si vuole raccontare, e non c’è più alcuno scarto tra forma e contenuto, tra ritmo e materia, solo una prosa che ha l’andamento seducente delle maree. «Forse il mistero del mare è il mistero della vita stessa» scrive ancora Carson, «Noi umani, d’altra parte, portiamo nel nostro sangue il sale marino, abbiamo nel nostro corpo tracce del nostro retaggio acquatico, e forse dentro di noi riposa qualcosa di simile a una memoria di specie di quel passato indistinto».
Le opere di Rachel Carson hanno ispirato The Sea Around Us, documentario vincitore del premio Oscar nel 1953, così come molte narrazioni televisive che fanno leva su una meraviglia recondita verso gli oceani, mostrandoci branchi lenti e ipnotici ed enormi cetacei che sfumano tra i verdi e gli azzurri crepuscolari. Leggendo Una favola per il futuro, viene però il dubbio che il film più adatto per raccontare Carson dovrebbe essere all’altezza delle sue stesse intuizioni, avere un gusto fantastico o da fiaba nordica, narrando di una creatura che è stata capace di addentrarsi nei luoghi più ostili, ed è tornata in forma umana solo per raccontarceli. Perché a cos’altro somigliano i poeti se non a quei pesci abissali che tanto affascinavano Carson e che lei stessa, nei momenti più alti della sua scrittura, è stata capace di incarnare, esemplari che hanno sviluppato sensi e corpi speciali per sopravvivere all’oscurità e solo alcune volte, nelle notti più cupe, risalgono in superficie, incantandoci con la loro fredda fosforescenza, così vicini che ci sembra quasi di poterli toccare.

 

 

Di Giulia Oglialoro

 

 


In copertina: Mosaico pompeiano


 

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