Le Lettere è una casa editrice che ho scoperto ai tempi dell’università, in quel periodo studiavo a Genova e in biblioteca prendevo spesso in prestito alcuni titoli non proprio necessari agli esami, erano testi consigliati e/o citati dai professori e che in qualche modo trovavo sempre più interessanti dei volumi messi in lista per l’esame stesso. Associo questa e alcune altre realtà editoriali a quelle giornate, in cui l’inverno era cadenzato dalle lezioni che finivano col buio, dalle code alle macchinette per il caffè chimico gusto nocciola o vaniglia, anni immensi di letture infinite, in cui decostruivo e mettevo in discussione tutto. Erano anche gli anni della poesia, dello scrivere e del cancellare, del cancellare e dello scrivere, in un eterno ritorno che forse non salva dalla finitudine, ma di sicuro ti aiuta a interagire con il tempo. Oggi ritrovo Le Lettere e la poesia con questa intervista che coinvolge i curatori della preziosa collana novecento/duemila, Diego Bertelli e Raoul Bruni, e qualcosa di comune comincia a emergere dai dialoghi di Just dropped in: l’importanza abissale dell’autenticità e la necessità di cercare instancabilmente ciò che non si trova in giro, in questa enorme cisterna esistenziale in cui quasi tutto si mescola all’autonarrazione, perché liberarsi dall’invadenza dell’ego è un labirinto senza filo d’Arianna. Ma si può tentare.
Diego, Raoul bentrovati. Qual è il primo ricordo che vi lega alla poesia?
Diego Bertelli: Dipende. Il primo in ordine di tempo è sicuramente legato alle scuole elementari, quando la mia maestra dettò in classe La bestia di Manuel Bandeira e dopo ci fece imparare a memoria e illustrare la poesia. La pagina di quaderno dove scrissi quei versi e disegnai “la bestia” è ancora viva nella mia memoria. Non so perché mi sia rimasta in mente quella poesia e non un’altra, ma pensandoci bene si trattava di un testo bello potente per un bambino. Il ricordo più importante, invece, risale inevitabilmente al liceo e ha a che fare con le svariate suggestioni di allora. Erano anni pieni di letture che devono tantissimo all’incontro con il mio professore di italiano, Luciano Luciani, che ricordo sempre con affetto. Avevo sedici anni, ero uscito da scuola e all’ultima ora avevo avuto letteratura. Non credo che ci sia stata una concreta relazione di causa-effetto, ma più un’urgenza. Invece di andarmene diretto a casa corsi in una libreria di Lido di Camaiore e mi diressi verso lo scaffale dove stava la poesia (era uno scaffale grande e alto, di legno e in posizione di assoluto rilievo). Presi I fiori del male nella versione di Gesualdo Bufalino. Era l’edizione «Oscar leggere i classici». Bellissima. Leggevo e confrontavo italiano e francese, passavo le ore così, mi perdevo fra due lingue e infinite possibilità. Forse è per questo che poesia e traduzione sono per me legate in maniera indissolubile. Ho iniziato a scrivere poesie mie e a tradurre testi di altri nello stesso momento, con i pochi mezzi che avevo a disposizione, all’inizio utilizzando il libro di letteratura inglese e usando i booklet dei CD che ascoltavo.
Raoul Bruni: Credo che il mio primo approccio alla poesia risalga a quando avevo undici-dodici anni. Allora avevo una malsana passione per i film horror e quindi mi ero indirizzato verso la lettura, tra gli altri, di Edgar Allan Poe. Dopo avere divorato i racconti e Gordon Pym, avevo letto l’oscar Mondadori che raccoglieva Il corvo e altre poesie. Credo che questo sia stato il primo libro di poesia che abbia cercato e letto.
La preziosa collana che curate per Le Lettere, novecento/duemila, racconta e raccoglie, attraverso una ricerca squisitamente poetica, le tracce di un tipo di scrittura che è rappresentazione sottile di un certo svelamento, che è quasi sempre parziale. È come se la poesia aggirasse la narrazione diretta di un fatto o di un immaginario, evocando qualcosa che c’è, anche se sulla soglia dell’imprendibile. Qual è la vostra idea a riguardo?
D.B. Grazie dell’aggettivo preziosa. I libri che abbiamo fatto sono prima di tutto quelli che avremmo voluto avere e leggere. E sono libri che formano inevitabilmente anche una nostra idea di canone. Insomma, la collana novecento/duemila è l’esatta proiezione di quello che siamo io e Raoul, e di ciò che ci interessa. Sicuramente ogni volta che seguiamo un libro dobbiamo ritrovare l’intreccio particolare tra lavoro sulla lingua (che non vuol dire necessariamente sperimentazione) e spinta conoscitiva di cui la poesia deve farsi veicolo. La collana rappresenta perciò un punto privilegiato di osservazione sulla contemporaneità, che lega (e deve legare) presente e passato.
R.B. Credo che l’unico vero principio a cui ci atteniamo sia questo: pubblicare libri che vorremmo comprare, ma che non riusciamo a trovare in libreria. Però è vero che tra i titoli si sono create, spesso, connessioni inaspettate, sicché sembra emergere una certa idea di poesia pur attraverso scelte molto diverse. La poesia come racconto, come epica quotidiana (se ho compreso bene la domanda) è certamente una componente che accomuna vari nostri autori.
Pubblicare poesia, scegliere quelle poesie: non vi chiedo qual è la vostra linea, quant’è tentacolare la vostra volontà di trovare qualcosa che possa avere un valore tale da poter essere condiviso. No. Vorrei sapere qual è l’aspetto più misterioso nel trovarsi di fronte a potenziali sconosciuti che, attraverso poche righe, tentano di raccontarvi un personale abisso…
D.B.: È una bella responsabilità, dico davvero, perché un giudizio deve comprendere non solo la valutazione di determinati elementi formali e di contenuto irrinunciabili, ma essere in grado di esprimere soprattutto una qualità imponderabile, che è la sensibilità per il testo. Sicuramente abbiamo fatto scelte che reputiamo soddisfacenti, come anche errori. Per motivi contingenti e limiti materiali spesso non abbiamo potuto pubblicare tutti i libri che volevamo, dovendo rinunciare a malincuore ad alcuni titoli che ci convincevano. Ma al di là di questo, crediamo sempre fortemente in quello che facciamo. E facciamo sempre quello che stimiamo valido. E i fatti, mi pare, lo dimostrano, tanto che in poco tempo la collana ha assunto una sua fisionomia precisa, self-evident.
R.B.: Valutare le proposte sempre più numerose che ci arrivano richiede molto tempo. Leggere le autopresentazioni che accompagnano i testi può essere però, talvolta, piacevole. Alcune autopresentazioni sono piccoli gioielli di comicità involontaria, tessere di uno sconcertante quadro sociologico.
Una filosofa molto cara a Nabokov, Vivian Bloodmark, diceva che mentre lo scienziato vede tutto ciò che accade in un punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un punto del tempo. In effetti il tempo è un costrutto con il quale è impossibile non confrontarsi. Ma è davvero così, in una società come la nostra? All’interno della quale anche il verso può trasformarsi in un puro esercizio dell’ego?
D.B.: La citazione è bella, ma come tutte le citazioni rimane una suggestione e non la verità, e vale al pari di molte altre. La considerazione sul verso come puro esercizio dell’ego contiene certamente una parte condivisibile. Allora faccio anch’io due citazioni: qualcuno — era un pittore — ha detto una cosa del genere: ogni colpo che do alla tela è una ferita in meno e una cicatrice in più. Qualcun altro — era un poeta — ha scritto: «e quando / chino sulla mia vita scrivo / l’atto di presenza / mi effondo mi circondo di parole / copro colmo comando / parole / l’assenza certifico / attesto la finzione». Ci scriviamo inevitabilmente troppo addosso oppure scriviamo per non colpirci troppo forte? Io quando scrivo penso che qualcuno potrebbe concretamente impiegare del tempo a leggermi, e dunque per me è importante proporre cose che possano far pensare, o almeno emozionare, sulla base però di un valore irrinunciabile: non fare mai del proprio pensiero qualcosa di inautentico, che significa non farsi condizionare dal vento che tira, non cedere all’autocompiacimento e non affermare mai quello che gli altri vogliono sentirsi dire (che è spesso la sola cosa ammessa).
R.B.: Non lo so; per rispondere dovrei capire meglio il contesto di questa citazione, che non conoscevo.
Quanto, secondo la vostra esperienza, gli scrittori scrivono per gli scrittori, come una sorta di pubblico che si autoalimenta? È un rischio che esiste nell’era dei social, dove tutto è (auto)narrazione di sé?
D.B.: La cosa riguarda forse un certo tipo di scrittori, che non hanno un’idea forte di letteratura o, peggio ancora, soffrono del fatto di non avere un pubblico. Che sui social esista una “bolla” che si autoalimenta è normale. I social determinano e selezionano — e dunque “condizionano” — il pubblico di chi legge, segue e interagisce. Poi, di fatto, i social sono tutto e niente, e rappresentano in molti casi la versione amplificata — a tratti schizofrenica e con tratti schizofrenici — delle nostre interazioni tipiche: dalla telefonata alla chiacchiera da bar o in mensa, allo spogliatoio, al comizio, all’assemblea condominiale, alla festa di compleanno, agli annunci mortuari, alla seduta dallo psicologo, al gruppo di ascolto, al diario, all’album fotografico, al concerto e al dopoconcerto, allo sfogo sul muro del cesso. Per cui sì, certo che è presente moltissima autonarrazione. È una cascata di autonarrazioni. “Ce n’è di ogni”, come si dice, e il discorso non vale solo per chi scrive. Ogni narrazione, anche le autonarrazioni, si somigliano allora un po’ tutte e finiscono spesso per essere meno interessanti di quelle reali, obbligate a passare per il filtro di come, secondo uno standard preordinato, si ritiene accettabile che le persone debbano essere e apparire, e quindi interagire, anche solo per far salire il numero dei “mi piace”. È probabile che ci ridurremo sempre più a scrivere/parlare di noi e delle nostre cose con le stesse, identiche persone, per divenire vicendevolmente i loro lettori/ascoltatori. Avanti così fino all’esplosione (auspicata, come in Fight Club).
R.B.: Difficile fare un bilancio generale sulle intenzioni degli scrittori con tutto quello che esce; nel caso dei poeti, e di quelli italiani specialmente, però, penso che questa tendenza sia presente da molto prima dell’avvento dei social, e abbia contribuito a marginalizzare la poesia.
Just dropped in
Intervista a cura di Giulia Bocchio

