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Hirudo medicinalis – Un racconto di Francesca Gentile

“Mi segua” dice alla donna. Le fa strada in un corridoio in polivinilcloruro, le stanze sono chiuse con chiavistello e lucchetto. Ne apre una accessibile. Al centro ci sono un lettino, una poltrona e una pianta. Nell’angolo: un tavolino con bacinelle reniformi, aghi, siringhe, ampolle e provette; accanto, una cassettiera. Lungo una parete c’è uno strumento ignoto.
“Si accomodi” ordina l’uomo e dalle tasche del camice estrae un paio di guanti in nitrile e delle pinze in acciaio. “Quello che le serve”, aggiunge e si china su una delle anfore in maiolica presenti in un altro angolo della stanza, “è Hirudo medicinalis”. Le afferra il piede, le sfila la scarpa e le poggia l’anellide sul dorso: la donna sente le ventose ancorarsi per suggere.
“Cosa le viene in mente adesso?”
“Che mi piace molto la sua Ampelopsis”.
“È esperta di rampicanti?”
“Mia madre ne aveva una in giardino. Era la sua preferita”.
Un sussulto e l’hirudo si immobilizza.
“Bene”, dice l’uomo “è morta”. Si alza e recupera il bisturi da una bacinella.
Stacca i lembi della pelle dalla bocca del parassita e con le pinze la pone in una provetta che sistema nella cella frigo. Imbeve un batuffolo di cotone idrofilo con dell’antisettico e tampona il piccolo taglio, mette un cerotto e congeda la donna.

Potrebbe rivelarsi una buona cura, si dice la donna l’indomani.
L’uomo le scopre un braccio, le applica l’hirudo e nuovamente le chiede a cosa pensa.
“A niente” risponde la donna.
“È curioso” dice l’uomo, “questo suo niente a me fa pensare al passato”.
“Il passato è un tempo morto”, dice la donna.
“Bene”, dice l’uomo che ripone il parassita insieme all’altro. Medica la piccola ferita sulla cute della donna e le dà appuntamento al giorno dopo.

Questo posto è un sollievo, pensa la donna mentre scopre il ventre e lascia che pochi millilitri del suo sangue defluiscano nel corpo dell’hirudo.
“Lei dormirebbe con un cadavere?” chiede l’uomo.
“No di certo”.
“Eppure lo sta facendo”.
L’invertebrato sugge l’ultima goccia di sangue e muore. L’uomo, diligente, lo depone nella provetta e disinfetta il taglio.

Mi fa bene, così sto bene, pensa la donna comodamente distesa sul lettino.
Sposta i capelli da un lato e offre il collo all’uomo e a un’altra hirudo. “Lo sente anche lei quest’odore dolciastro, come di zucchero filato e miele?”
“No”.
“Qui vicino c’è per caso un luna park?”
“Il suo sangue è infetto” si limita a dire l’uomo, “ma la contaminazione non è di natura microbica. Piuttosto è come se la sua mente avesse riparato un’infinità di lesioni traumatiche dovute a dolore, rimorsi e rimossi, non potendo però impedire che il tutto stagni nel suo sangue.”
“È per questo che muoiono?” chiede la donna.
L’uomo non risponde ma osserva il parassita deglutire un’ultima volta e poi spirare. Lo mette in provetta. Accende lo strumento, poi riversa tutti i parassiti morti in un oblò trasparente. Una pressa si aziona e comincia a segmentare e comprimere i piccoli corpi che si disfano in una poltiglia densa. Quel succo rossastro in cui galleggiano residui di tessuto frammentato, vengono trasferiti tramite aghi e bracci meccanici in una seconda provetta e l’oblò trasparente prende a vorticare a elevata velocità.
“Cosa succede?” domanda la donna.
“È una centrifuga: separa la parte liquida da quella particellare” risponde l’uomo e aggiunge: “il supernatante viene sottoposto a un’ultrafiltrazione”.
“Non capisco” dice la donna. “L’odore di zucchero filato adesso è più forte. È sicuro che qui non ci sia una fabbrica di biscotti? Mi piacerebbe poterne mangiare un po’”.
L’ultrafiltrato rosso ora gocciola in una piccola ampolla posta sotto l’oblò trasparente dello strumento ignoto.
Uno scampanellio fa sussultare l’uomo.
“Mi dia qualche minuto” dice “le spiegherò tutto” e si allontana lasciando la donna sola.

Quando l’uomo torna, l’ampolla è ridotta in frantumi. L’ultrafiltrato forma una pozza sul pavimento e i rami dell’Ampelopsis hanno sconfinato invadendo l’intera stanza, fracassando le anfore in maiolica. Le sanguisughe strisciano, si accalcano in direzione del corpo della donna distesa sul lettino. Dorme, forse.
L’uomo sospira. Un’altra, pensa. Chiude la porta con chiavistello e lucchetto e percorre il corridoio verso l’ingresso.
“Mi segua” dice alla donna che lo aspetta. “Quello che le serve è Hirudo medicinalis”.

 


Francesca Gentile nasce a Taranto nel 1986. All’età di 19 anni si trasferisce a Firenze dove intraprende studi scientifici.  Si laurea in Biologia nel 2014. Attualmente si occupa di controllo qualità microbiologico in un’azienda farmaceutica nel parmense. Nel 2019 fonda la rivista letteraria illustrata online biró. Suoi racconti sono apparsi su altre riviste online: Nazione Indiana, Micorrize , L’Eco del Nulla , Salmace , Clean Rivista , Quaerere, Waste Rivista .


In copertina: artwork by Nazar Strelyaev-Nazarko


 

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