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La dimensione ulteriore di Goliarda Sapienza nell’ultimo libro di Anna Toscano (di Annachiara Atzei)

Di Annachiara Atzei

 

Tutto era già qui e noi non ce ne siamo accorti. Tutto era negli appunti scritti con la biro dalla punta sottile, nei manoscritti chiusi nella cassapanca, nei libri in cerca di editore. Tutto, di Goliarda Sapienza, diceva di una autrice fuori dal tempo e da panorami culturali predefiniti, ma già dentro la Letteratura. Sapienza scriveva, nient’altro. La sua fiducia nella scrittura era totale, l’unica ragione dell’esistenza.
Ne Il calendario non mi segue – Goliarda Sapienza, volume appena pubblicato per Electa all’interno della collana Oilà interamente dedicata a importanti nomi femminili della cultura, dell’arte e della scienza, Anna Toscano rende alla scrittrice catanese l’omaggio più grande: lascia che a parlare sia la sua figlia di carta più amata dai lettori, Modesta, indomita protagonista de L’arte della gioia. Toscano, che si occupa da oltre quindici anni di Goliarda Sapienza, stavolta lo fa in un modo nuovo spostando il punto di vista e affidando il racconto al suo alter ego che, come lei, si mostra sempre pronta alla libertà e all’autodeterminazione.
La vicenda letteraria e umana di Goliarda Sapienza giunge all’attenzione del pubblico solo in anni
recenti. Prima del 2008, infatti, quando – a trentadue anni dalla stesura del romanzo e dopo dodici anni dalla morte dell’autrice – Einaudi decide di pubblicare L’arte della gioia facendolo diventare un caso letterario, in pochi avevano intuito la forza dirompente della sua penna e la motivazione che la muoveva: diventare qualsiasi cosa, reinventarsi, entrare e uscire a piacimento dalla realtà. E non poteva essere diversamente per una persona schiva, tutta concentrata nella sua anima e che ignorava mode e correnti.
Staccarsi dal contesto e collocarsi oltre confini noti e fin troppo stretti è stato lo strumento che
Sapienza ha usato per dedicarsi unicamente – pur non più giovanissima – al piacere dello scrivere anche se ciò ha significato per lei povertà, isolamento e abbandono. Sono tante, infatti, le vicissitudini che hanno attraversato la sua vita: un’educazione familiare rigida, un’istruzione ricevuta da insegnanti privati, poi il teatro e la scrittura per il cinema, gli amori, la morte della madre che la fece piombare nel buio del lutto, e ancora l’elettroshock, il tentativo di suicidio e gli anni di analisi, i problemi economici e il carcere.
Proprio per elaborare la perdita della figura di una madre importante e ingombrante allo stesso tempo, Sapienza scrive Ancestrale, la raccolta di poesie pubblicata postuma (La Vita Felice, 2013) e definita da Angelo Pellegrino, il suo ultimo compagno di vita e di scrittura, “il segreto del tempo del suo lutto” e il suo pudore più grande. Scriverà, invece, Lettera aperta (Einaudi, 2018) – altro notissimo romanzo tra i suoi numerosi lavori – per tentare di mettere ordine a una vita lacerata. Non a caso, Toscano fa dire di lei a Modesta: “La scrittura sta divenendo in lei un modo di vivere, di stare nel mondo, la strada per ricostruirsi dopo la frantumazione della guerra, degli ideali, la depressione, i trattamenti, la via per comporre una identità risistemando tutte quelle parti di sé già morte”.

Viene da chiedersi cosa sia l’identità per Sapienza. Significa bisogno vitale di ritrovare la propria
ancestralità, che non è solo origine, ma eternità della passione. Dice, ancora, Modesta: “Ancestrale è quella forza che ha tramandato anche a me, quel ‘discernere nel cadere’, capire dagli eventi, guardare alle cose, studiare i fatti per afferrare la vita, coltivare l’arte della gioia”.
Tentare di afferrare la vita non è cosa da poco per una donna con il vissuto di Sapienza e per una intellettuale della sua epoca. Misurarsi costantemente con sé stessa, con il mondo e con la letteratura, custodire tutto come fatto privato, incapace per natura di superare certi scogli, l’hanno relegata a lungo in un angolo salvo poi garantirle il meritato fulgore. La scrittura si è insinuata negli spazi vuoti e il senso della mancanza ha fatto venire ad esistenza le parole. La vita – come la sua opera – è stata per lei tutta a togliere e mai ricerca di affermazione, ma, semmai, di indipendenza. Dice Modesta: “Cosa vi devo dire di mia madre, Goliarda Sapienza? Non è mai caduta nella trappola d’essere qualcuno”. No, non è diventata “qualcuno”, ma addirittura si è trasformata in un simbolo: con il lavoro, con l’azione e con l’intera persona.
Nell’episodio n. 41 del podcast Morgana dedicato all’autrice de L’arte della gioia, Michela Murgia e Chiara Tagliaferri affermano: “È considerata uno dei massimi esempi di come una donna possa vivere il proprio corpo come strumento di lavoro, mezzo di libertà ed espressione di un sé capace di essere ultradimensionale, tra il vero e il verosimile”. Nel volume curato da Anna Toscano succede lo stesso: Goliarda Sapienza – attraverso il personaggio di Modesta – si appropria di un’ulteriore dimensione e di un tempo oltre il tempo che non conosce le regole del calendario, ma lo precede e lo ripensa, così come ripensa sé stessa e la vita: “Lei abita tutte le sue opere – dice Modesta – essendosi trasferita per intero nelle sue pagine, e soprattutto in me, sua figlia”. È così che supera l’idea di passato, presente e futuro per incarnare quella di atemporalità. È sotto questa lente che, finalmente, la scopriamo.
Abbiamo bisogno di tanti sguardi per riconoscere ciò che non sempre siamo capaci di percepire e, in fondo, per riconoscerci. Abbiamo bisogno del racconto di intellettuali coraggiose. Ma, soprattutto, la letteratura ci consente – attraverso la storia di altre donne – di confrontarci anche col concetto di determinazione di sé, responsabilità e di imputabilità di ogni nostra volontà e azione. Goliarda Sapienza ne è un esempio. E di esempi come questo non dobbiamo più fare a meno.

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