, ,

Vuoto – Un racconto di Mauro Massari

Di Mauro Massari

 

Hai chiuso il rubinetto con la mano sinistra, mentre con la destra afferri l’asciugamano di colore blu, il tuo preferito, quello che pieghi sempre con più cura degli altri e lo passi piano sul viso.
Spegni la luce del bagno appena in tempo per un ultimo sguardo allo specchio, la tua immagine riflessa e il buio, tutto nel gesto di premere un interruttore.
Il corridoio è illuminato timidamente dalla piccola abat jour, no, non hai bisogno di guardare le tue pantofole nuove di velluto a coste strisciare sul pavimento di marmo della casa che conosci così bene, come non hai bisogno di guardare le ombre scure delle fotografie alle pareti per riconoscerne i volti, quello di tua madre nel suo giorno più importante che guarda il profilo di un uomo in elegante doppio petto di cui scorgi il sorriso disteso, quel tipo di sorriso che non sapevi potesse esistere sul volto di tuo padre.
Poiché la finestra in salotto è leggermente socchiusa e ti sfiora la guancia un filo d’aria fredda ti avvicini alla vecchia maniglia in ottone, la spingi tanto che quella cede sotto il tuo peso e un rumore di ferro e legno riempie la stanza nello stesso momento in cui un lampo divide il cielo a metà e le nuvole scure come agitate da una musica invisibile sembrano pronte a mantenere le loro promesse.
Allora prendi dalla tasca della giacca il pacchetto di Lucky Stricke che hai aperto solo da poche ore, tieni per qualche secondo il filtro tra le labbra, aspetti, ecco la pioggia, la cui venuta era prevista stanotte, eccola che inizia dolcemente a disegnare piccoli cerchi sul vetro, mentre tu accendi la sigaretta e il fumo ti offende un po’ gli occhi, costringendoti a strizzarli due o tre volte, poi guardando l’orologio, quello con il cinturino in cuoio marrone, ti accorgi che è mezzanotte e un quarto, che sei rientrato presto, che quindi hai ancora molte ore di buio davanti a te per lavorare al libro che stai scrivendo.
Sono giorni che rimandi il gesto universale, quel sederti davanti alla tua vecchia macchina da scrivere che ancora preferisci al computer, che trovi calda, viva sotto le dita, come avesse respiro e sangue, come avesse un cuore di metallo da qualche parte a pompare linfa vitale ai vecchi tasti consumati e alle lettere scolorite, sui quali ti riscopri ogni volta in una sorprendente familiarità con il fantastico perché sembra tanto reale e decifrabile ai tuoi occhi quanto il fatto di mangiare una brioche con crema la mattina alle nove al bar vicino casa, realismo nel fantastico, così smisurato da accettare qualsiasi cosa che possa entrare nell’immaginazione, trascendenza dilatata ed elevata all’infinito.

Mercoledì. Mercoledì ne avevi tutte le intenzioni, o forse era martedì, subito dopo la piscina, dopo aver ripiegato sulle Gauloises blu perché la tua solita marca non è facile da trovare, dopo aver fatto il bucato che hai con pigrizia accumulato per un’intera settimana, aver comprato pesce fresco e datteri al mercato della piazza, ed esserti fermato alla tua enoteca di fiducia, quella che vende i vini importati dalla Francia, e aver speso quasi tutto quello che ti restava per due bottiglie del tuo vizio preferito.
Avevi appuntamento con una ragazza la stessa sera, quella ragazza che conoscevi da poche settimane, con i capelli corti, le labbra grandi e gli occhi di miele di cui non riuscivi mai a ricordare il nome, magari un paio d’ore dopo cena ti sei detto, ma l’hai capito quasi subito che lavorare era fuori discussione, l’hai capito già quando strofinavi i piatti sporchi sotto l’acqua calda e lei continuava a girare il suo calice vuoto e a guardarti senza dire niente, e mentre Miles Davis sputava lacrime malinconiche dalla tromba, lei non smetteva di spogliarsi, prima gli orecchini, lentamente, parte sempre di lì è il suo segnale, il vostro giovane cenno d’intesa, poi la gonna, la maglia di lana soffice, la pelle e tu l’hai accompagnata in camera da letto, senza spegnere la luce avete fatto l’amore e per le due ore successive, non una parola, solo labbra, e corpi, corpi che si muovono, mani su mani, mani sul collo, bocche su bocche, bocche sulle spalle, sulle orecchie, sul tuo petto, sul suo petto, e dopo eri sfinito e così vuoto, tanto da lasciare che la sigaretta si consumasse tra le dita e con lo sguardo al soffitto e i pensieri altrove, ti sei addormentato.

La pioggia è diventata violenta adesso, batte contro la finestra con grosse gocce che scendono veloci, tracciando sentieri tortuosi. Guardi fuori e sembra non esserci nessuno, tutte le strade sembrano dormire solo per lasciarsi guardare dai tuoi occhi che adesso inizi a sentire stanchi.

D’altra parte, avresti potuto lavorare alle tue poesie giovedì. Ne eri così certo, dopo averlo promesso a te stesso nel momento esatto in cui nel piccolo vagone del treno regionale che prendi sempre malvolentieri, stavi osservando la campagna sfilare veloce sfuggendo a ogni forma certa, ulivi dondolanti nella luce riflessa dal finestrino, e un placido orizzonte che aveva poco altro da aggiungere.
E te lo ripetevi ancora una volta durante il viaggio di ritorno, trentadue minuti durante i quali si sono alternati, sui sedili in consunta similpelle blu davanti a te, due giovani imbranati studenti universitari che lamentavano delusione per le scarse attenzioni amorose delle rispettive colleghe di corso, un militare a fine turno che dopo una rapida ispezione della sua seduta e di quelle intorno ha preferito cambiare vagone e una donna sui quaranta, sensuale nel suo abito scuro con le mani nervose, il trucco scombinato e lo sguardo liquido di chi ha da poco finito di piangere. Così passavi i dodici minuti scarsi che mancavano alla tua fermata investigando discretamente la sconosciuta di fronte a te, attratto dalla sua languida tristezza, ma no, tu ci vedevi dell’altro in quello sguardo, rancore? Disprezzo? Non smetteva di mordersi il labbro inferiore e di tenere gli occhi incollati al pavimento sporco del treno, come a fissare un qualcosa a te invisibile, un segreto antico, la risposta nascosta a tutti i tormenti umani.

Quasi le due, la pioggia fuori è una cantilena incessante, sembra che tutto il mondo sia finito sott’acqua, gli oceani interi riversati sull’asfalto, e tu ti accorgi di essere finito sul fondo, sei sul fondo di ogni pagina che non scrivi.

Succedeva poco più tardi, mentre attraversavi distrattamente i dodici isolati che separano la stazione dalla porta di casa, spostando indolente i pensieri dal mistero della donna attraente sul treno alla cena che avresti consumato quella sera, ma non hai realizzato subito cosa avesse fatto tremare gli ingranaggi malmessi del tuo subconscio, come sai bene, sarebbe potuto essere qualsiasi cosa, l’angolo di una strada, la marca di un dentifricio, le schegge di un sogno, l’insegna di una pizzeria, una fetta di pane imburrato, il tavolino di un bar, il bottone sul fondo di un cassetto.
“In a sentimental mood”, Duke Ellington al piano, nella devastante incisione con John Coltrane.
Inquieto Ellington, infinita la dolcezza nel suono serio di Coltrane, Do La Do La Si Fa, le note lontane ma ben distinte che provenivano da una finestra aperta sopra la tua testa ti riportavano a Lei. Ancora Lei, sempre Lei.
Ti frugavi la tasca destra dove restavano solo quattro Gauloises, un accendino, il biglietto del treno e i resti di quello che era stato un pacchetto di fiammiferi, la frugavi senza sapere esattamente cosa cercare, il vezzo di un bugiardo, il tic di un disonesto, solo per non ammettere a te stesso che continuavi a rimandare il momento in cui lavorare al tuo libro perché questo significava sederti al tavolo con Lei e tutti i suoi ricordi come commensali, un’immensa tavolata in bianco e nero, tutti che gridano, piangono, brindano e fanno un gran casino mentre tu rimani in piedi a cercare nella tasca destra della tua giacca di pelle scamosciata, cercare, cosa?
Hai bluffato una volta di troppo ed hai perso, ripetendo ossessivamente, come fosse la tua nenia funebre, di continuare a giocare, qualunque carta ti fosse capitata.
Iniziavi così a rovistare il collage di ricordi con mano leggera, ti ricordavi di quando ti sentisti dire che era finita, che sì, lei ti aveva amato così tanto fin dal vostro primo bacio, quella sera di metà ottobre quando vi siete sorpresi a scoprire le vostre labbra perfette insieme, ma che il vostro rapporto si era consumato, consumato lentamente, queste le parole che usò, aveva brillato ed era finito, e ti chiedeva di fermarti lì, nel punto esatto del cuore dove aveva scelto di metterti, e tu così facesti, andandotene all’alba dal suo appartamento dopo l’ultima notte, una notte senza sonno perché sapevate entrambi, come fosse il fotogramma del vostro film, bellissimo e triste, e non potendone cambiare il finale avete passato le ore avvinghiati ai vostri corpi, alle paure di un domani oscuro, alle lacrime mute, e tu te ne asciugasti una di fronte al porto guardando le barche oscillare nella luce fioca, mentre lei, ancora a letto, singhiozzava tra le lenzuola che avevano il vostro odore, Do La Do La Si Fa gemeva Ellington al piano, l’inizio della fine, Do La Do La Si Fa ancora, sfumando, l’inizio come la fine, l’inizio nella fine.

Le tre e zero sei, un bambino piange nell’appartamento accanto, sul pavimento cade la penna che tenevi tra le dita e un uomo urla “Cazzo, di nuovo” sbattendo un pugno contro il muro.

 


In copertina: Atelierwand by Adolph Von Metzel


 

2 risposte a “Vuoto – Un racconto di Mauro Massari”

  1. Il racconto è molto bello, pieno di tristezza e ritratti di un uomo di una donna del loro amore. C’è solo un incongruenza “””D’altra parte, avresti potuto lavorare alle tue poesie giovedì. lavorare al tuo libro perché questo significava sederti al tavolo con Lei .””” È questa l’incongruenza: un poeta ha sempre desiderio di lavorare alle proprie poesie, perché ama sempre sedersi al tavolo con Lei, sempre, qualunque cosa sia accaduta, anche ferito, anche omicida.

    "Mi piace"

  2. “Nulla mi obbliga a scrivere” per citare La Rochelle, nel suo “Diario di un delicato”.
    Ogni lutto ha una sua elaborazione e fare poesia è vivere due volte quella perdita.
    In alcuni momenti ci si riesce, in altri si rimanda. Altre volte ancora non lo si fa e basta.

    "Mi piace"

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.