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I consigli di lettura #2023 della redazione Poetarum

Anche quest’anno, la redazione di Poetarum Silva, nell’augurare a tutte e tutti voi serene feste, ha selezionato una lista di suggestivi titoli usciti nel 2023: agili e variegati consigli di lettura per questi giorni di riposo (si spera!) e incontro.
Entreranno nella vostra #wishlist?

 

 


Giulia Bocchio

Gabriella Parca, Le italiane si confessano (nottetempo)

Quando ero piccola, mia nonna e mia madre compravano moltissime riviste e dentro queste riviste c’era sempre la sezione dedicata alle lettere: dalla posta del cuore, passando per ‘il sessuologo risponde’. Le mie preferite erano quelle indirizzate a Barbara Alberti su A, settimanale del 2006 guidato da Maria Latella, perché rispondeva sempre mettendoci in mezzo una citazione letteraria o cinematografica. Erano le pagine più interessanti perché le persone raccontavano problemi, tradimenti, delusioni amorose, esperienze sessuali, difficoltà sul lavoro, nonché aneddoti veri e inconfessabili, se non in forma anonima su giornali che gli uomini non avrebbero mai comprato. Quelle parole erano un vaso di Pandora, uno scorcio esistenziale e culturale. Gabriella Parca è stata la prima giornalista a indagare il rapporto fra i sessi nell’Italia del dopoguerra, tanto che nel ’59 pubblicò Le italiane si confessano, un testo che raccoglieva tutte le lettere considerate (secondo un bias patriarcale) più scabrose, compromettenti e quindi impossibili da pubblicare sui settimanali femminili ai quali erano indirizzate. Testimonianze ancora pulsanti, storie di vita autentiche, specchio di un’intera società troppo spesso escludente. Il libro, oggi considerato un manifesto femminista, è ritornato in libreria dopo anni di oblio.

Federico Campagna, Cultura profetica  (Tlon, trad. di Francesco Strocchi)

Leggetelo, poi scavate una buca (azione difficile, lo ammetto, in mezzo a tutto questo cemento) e lasciatelo lì. Servirà in un prossimo futuro, questo manuale profetico e mistico per un dopo, un oltre, che non ci comprenderà, perché la modernità occidentalizzata all’interno della quale ci muoviamo sta per implodere. Non è la prima volta che succede, non è la prima volta che una certa maniera (metafisica e cosmologica) di narrare il mondo, muore. Tuttavia, morte è un termine improprio, perché ciò che sta per finire non finisce in senso biologico, non esiste una totale non-esistenza di ciò che è stato, purché sia pensabile, in un senso tanto ontologico quanto antropologico. Se la filosofia, da Agostino a Kant e da Husserl a Heidegger aveva ricondotto la storia dentro il tempo, è ora il tempo storico ad essere considerato alla luce dei fenomeni che caratterizzano tutte le fratture di questa occidentalizzazione che si sta trasformando nel crepuscolo della nostra era…

Francesco D’Isa, Sunyata (Eris Edizioni)

Ho passato (e passo) molte ore insieme a Midjourney, nei giorni di bile nera, mi aiuta ad allontanare l’ansia, anche se non ha ancora superato l’efficacia della lettura di certi saggi medievali (che comunque qui non consiglierò), mio rimedio classico preferito. Le immagini mentali oggi possono trasformarsi in un prompt, che è una rivisitazione continua di termini e formule, e bias anche. Non è semplice come sembra, dal momento che anche una sola  virgola, inserita in una certa posizione, può fare tutta la differenza all’interno del processo.
Sunyata è qualcosa che ricorda un sogno, ma il confine con l’incubo è, in fondo, labile. Al di là di ogni giudizio, al di là di ogni lacerante polarizzazione e di quell’urlo di spavento che sembra dire le intelligenze artificiali ci supereranno, ci annienteranno (spoiler: ci affidiamo a strumenti complessi già da molto tempo e siamo molto bravi ad annientarci da soli) a me non interessa se questo fumetto non è stato realizzato con matite e chine, non depaupera, né svilisce gli artisti e le artiste che le usano: è la profondità (anche estetica) che esprime il nocciolo della questione. Chi è interessato all’esplorazione filosofica, artistica, visiva e narrativa, chi cerca l’enigma, chi decostruisce il reale sarà sempre attratto da opere/esperimenti di questo tipo e non smetterà di scavare nell’ombra del possibile, a prescindere dallo strumento. Che resta tale.


Alice Pisu 

Guadalupe Nettel, La vita altrove (La Nuova Frontiera, trad. di Federica Niola)

Con La vita altrove, Guadalupe Nettel ispeziona gli esiti di disperate evasioni dall’ordinario. Lo spazio famigliare è il luogo d’elezione nello studio dello smarrimento generato dalle paure e dai desideri, dalle attese e dal dolore. Otto racconti sulla labilità delle relazioni, sul delirio in un immediato futuro dagli scenari catastrofici, sull’imprinting materno nella percezione dell’altro, sulla necessità dell’illusione per sopravvivere. Nettel studia il rapporto tra l’insoddisfazione esistenziale e l’alienazione. Sfilano sulla pagina una studentessa affascinata da uno zio moribondo allontanato dalla famiglia, un orfano che si pente di aver favorito il ricongiungimento di uno scomparso, un sessantenne che si illude di rinascere tornando indietro nel tempo attraverso una porta rosa, una madre frustrata dall’inconoscibilità dei figli, una ragazza che interpreta la morte dell’araucaria secolare (rifugio e nascondiglio della sua infanzia) come il segnale di una minaccia al suo nucleo domestico, un uomo ossessionato dalle possibilità di una vita diversa nell’appartamento mai preso in affitto, una giovane che riconosce nel volo degli albatri un’affinità nello smarrimento, una donna che fantastica di scomparire per divenire agli occhi della propria famiglia un’immagine apparsa in sogno. La vita altrove è una riflessione sulle conseguenze di un’oppressione radicata in chi si sente ai margini della propria esistenza e trova nel miraggio fantastico una vana illusione di cambiamento.

Eugenia Prado Bassi, (D)istruzioni d’uso per una macchina da cucire. Femminismi, comunità e altre trame, (Edicola ediciones, trad. e cura di Laura Scarabelli)

Eugenia Prado Bassi si interroga sui femminismi e l’emancipazione femminile attraverso un racconto lirico, drammatico e lieve sulle conquiste raggiunte attraverso la macchina da cucire, emblema di uno stereotipo del femminile e al contempo simbolo di liberazione nel sancire l’ingresso nel mondo del lavoro. L’autrice compie un’indagine linguistica nell’interrogarsi sui conflitti interiori per rendere le voci singole portatrici di istanze condivise, preservando attenzione per le voci emblematiche nell’attestare storture sociali e visioni precostituite. “Parlare, come se il nostro privato non ci appartenesse, come se ognuna di noi potesse diluirsi nel paesaggio delle altre. Come se fossimo tutte una sola voce con un solo ritmo e una sola modulazione”. In un continuo dialogo tra passato e presente, l’autrice compone un intenso mosaico in prosa che esalta le contraddizioni della natura umana, attraverso dettagli che annunciano l’esigenza di una ribellione necessaria e il desiderio di frantumare convenzioni e preconcetti. Un manifesto sul valore salvifico della parola che riconosce nei frammenti generatori di scene, nelle definizioni formali, nelle didascalie sul buon utilizzo di una macchina, nei racconti di un quotidiano degradato, l’urgenza di un cambiamento a partire da un interrogativo: “E se unissimo i testi come trame e distruggessimo le serrature per evadere dalle celle?”.

Alice Urciolo, La verità che ci riguarda, (66thand2nd)

Dopo il successo del romanzo d’esordio Adorazione, entrato nella dozzina dello Strega nel 2020, Alice Urciolo torna in libreria con un romanzo che riflette la complessità delle relazioni e lo smarrimento nel mancato riconoscimento reciproco di fronte a un trauma che impone una ridefinizione. Ne La verità che ci riguarda l’autrice studia gli esiti di una dipendenza che annulla la volontà e produce estraneità al presente. Al centro della narrazione la vicenda di due donne,
madre e figlia, che finiscono per lambire un abisso nel subire meccanismi simili di sottomissione, risucchiate da un vortice tossico di violenza. La madre è succube di un santone a capo di una setta, la figlia patisce le conseguenze di una relazione sentimentale insana che amplifica il suo disagio esistenziale. L’opera indaga le ripercussioni di un abbandono di sé attraverso un’indagine narrativa sull’eredità della violenza, sulla sorprendente serialità di pratiche che inducono dipendenza e generano nella vittima la percezione d’impotenza, tra fugaci euforie e cocente disperazione. Le descrizioni fisiche traducono la peculiare visione del tempo, la relazione con la fine, attraverso una prosa ricca, con insistenze descrittive che si posano su un dramma oscuro e irrisolvibile. La verità che ci riguarda è un’esplorazione sensibile sulle opportunità celate in ogni fine, evocate dal sottile richiamo insito in un distacco necessario per immaginare una salvezza nel riscatto.


Annachiara Atzei

Alberto Capitta,  La tesina di S.V., (Il Maestrale)

E se, durante una partita di calcio fra amici, la palla va oltre la rete di un campetto di periferia?
Capace affabulatore, Alberto Capitta ci regala la cronaca immaginifica di una ricerca senza resa
tra luoghi fuori dal tempo. Una discesa obbligata nelle più austere vicende umane.

 

Fabio Stassi, E d’ogni male mi guarisce un bel verso. Breve discorso su Dante, la poesia e il dolore, (Sellerio)

Spaziando tra le opere del Sommo Poeta – che curava sé stesso attraverso una insistente
autoanalisi poetica –  e attraverso le voci di altri grandi autori, Stassi ci illustra il potere
taumaturgico dei versi danteschi e ci invita all’attenzione e all’ascolto di tutta la poesia.

 

Alfonso Guida, L’acqua al cervello è una foglia,  (Edizioni dello straniero)

Immagini nitide, suoni, profumi. Ma anche un lirismo equilibrato, nel tentativo di riconnettersi
alla propria origine. I versi di Guida traggono la loro linfa dal vissuto dell’autore e dai luoghi a lui
cari e proiettano il lettore in una fulgida visione.


Giulia Oglialoro

Francesca Matteoni, Tundra e Peive, (Nottetempo)

Per Cristina Campo, la fiaba non significava mera semplificazione, ma anzi la capacità di
scorgere i misteri più impenetrabili al di sotto della realtà quotidiana. Lo sa bene Francesca Matteoni, che le fiabe le ha studiate, riscritte, mescolate in racconti e raccolte di poesie. Per il suo ultimo e selvatico romanzo, l’autrice ha attinto all’immaginario folklorico di tradizioni diverse: Tundra e Peive, rispettivamente un folletto e un gatto, accompagnano l’adolescente Talia in un viaggio fantastico, attraverso tempi e luoghi remoti, nel tentativo di riparare una natura corrotta e ammalata della cattiveria umana. Come in ogni fiaba che si rispetti, la magia non è un’entità astratta ma vive nelle cose, negli animali che mutano continuamente forma, negli alberi che sono stati uomini in un’altra vita, nella polvere che “scendeva nei tronchi dove dormivano gli umani e si fermava nei loro occhi come la sabbia del sonno”. Con una lingua incantata e mai ingenua, Francesca Matteoni ci conduce in un mondo di confini permeabili, di vita e morte avviluppate insieme, con la grazia e la bellezza di quel “gioco di assoluta importanza” che è la letteratura.

Anna Maria Ortese, Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, (Adelphi)

«Coltiva te stessa: non ti parlo della mente, non del cuore: ti parlo della parte più segreta,
la parte immortale di te». Così scrive Anna Maria Ortese all’amica bolognese Marta Maria
Pezzoli, soprannominata “Mattia”, in una lettera del 1940. A ventisette anni l’autrice di Angelici dolori mostrava una voce già matura, e guardava il mondo con un’intensità tale che ogni cosa su cui posava lo sguardo sfuocava in allucinazione. Leggiamo questo breve epistolario avvolti nella stessa estasi con cui leggiamo i suoi romanzi, perché per Ortese non esisteva differenza tra vita e letteratura: la noia, le letture, i concerti, le difficoltà familiari ed economiche, le dolorose oscillazioni d’umore, tutto alimentava quella «parte immortale» da cui sarebbero scaturite tutte le sue opere. Tra le pagine non ci imbattiamo in segreti biografici, ma nell’ennesima prova di un’autrice di cui ancora oggi non abbiamo intuito del tutto la grandezza, che ogni giorno tornava alla pagina come a una casa «sospesa su un abisso, dalle cui terrazze si ascolti l’urlo del mare e si seguano le apparizioni della luna e del sole».

Antonella Anedda, Tutte le poesie, (Garzanti)

I versi di Antonella Anedda accolgono ogni materia vivente: gli «sciami d’api pronti a fendere l’estate» convivono insieme ai «gas che collidono, tempeste, scontro di comete», un dolore personale si mescola ai silenziosi mutamenti naturali («è solo un altro lutto – mi dicevo – inosservato / nel mondo che s’intreccia al gelo»), e persino i naufragi nel Mediterraneo sono visti attraverso un tempo più vasto («mi chiedo se sulla ossa crescerà il corallo / e cosa ne sarà del sangue dentro il sale»). La ripubblicazione della sua intera opera poetica, inaugurata con Residenze invernali nel 1992, ci permette di cogliere ogni variazione di quel battito collettivo che da sempre muove la sua scrittura. Quella di Anedda è una poesia che si radica nel presente senza mai farsi cronaca, anzi: poeti come lei, avrebbe detto Josef Brodskij, rendono tollerabile la Storia.

 


Maria Oppo

Alexis Pauline Gumbs, Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini ,(Timeo)

Ma in che senso? Esattamente il senso che si intuisce dal titolo. Scritto nel 2020 e uscito in Italia
soltanto ora, tre anni dopo, Undrowned è il risultato di una lunga ricerca militante che non ha
trovato esempi sufficientemente positivi tra gli esseri umani e ha finito per cercarli in mezzo ai flutti oceanici. Questo strampalato saggio poetico riesce a sublimare in atti di resistenza le abitudini e i percorsi evolutivi di delfini e capodogli, parallelismo che convince sempre di più man mano che si va avanti con la lettura. Gumbs porta avanti questo viaggio con grazia e con forza, tra suggestioni indimenticabili e veri e propri compiti per casa ispirati ai comportamenti dei cetacei. Ascolta. Respira. Ricorda. Poni fine al capitalismo. Vai a fondo. Resta nera. Non un testo risolutivo, forse, ma un interessante diversivo rispetto allo sguardo pragmatico e accademico della letteratura femminista classica. Un elogio al sapersi fermare per prendere fiato. Anche nel mezzo della rivoluzione.

Lorenzo Maragoni, Poesie, però non troppo, (Interno Poesia)

Il primo libro di poesie di Lorenzo Maragoni è facile da recensire positivamente. Basterebbe
limitarsi a elencarne le caratteristiche che più saltano all’occhio. Si potrebbe dire, per esempio, che è un libro di poesie con il quale si ride, e si ride ad alta voce. Insolito, no? Si potrebbe dire che nel 2022 l’autore è stato eletto campione mondiale di poetry slam. Si potrebbe dire che la raccolta è andata in ristampa solo quattro mesi dopo la prima edizione. Eppure, in fin dei conti, il valore Poesie, però non troppo non va ricercato negli aspetti che lo rendono una rarità; questo perché – tolti quelli – rimarrebbe comunque un testo di altissimo livello e una scrittura che trasuda talento ed esperienza. Non solo: rimarrebbe un libro di poesia che finalmente toglie dal centro dell’opera l’io lirico e ci mette le persone, la società, e insomma tutti e tutte noi. E anche Damiano dei Maneskin, ma questa è un’altra storia.

Dario Ferrari  La ricreazione è finita, (Sellerio)

La ricreazione è finita è solo il secondo romanzo di Dario Ferrari, eppure ha già le sembianze del libro della vita. Cinquecento pagine che scorrono come se fossero cinquanta, a raccontare le surreali vicende del protagonista; quest’ultimo, Marcello, è un trentenne sbandato che vince un prestigioso dottorato di ricerca in Lettere e si ritrova scaraventato nel mondo accademico, con le sue logiche settarie e algoritmi gerarchici che egli non riesce a comprendere. La prosa di Ferrari è esilarante, diretta senza mai risultare spocchiosa; frutto di uno sguardo lucidissimo sul mondo che tuttavia sa vederne ancora l’incanto e se ne sa stupire. Nel romanzo ricorre spesso questa citazione, forse la più famosa, di Italo Calvino: “A volte uno si crede incompleto, e invece è soltanto giovane”. Un libro sull’incompletezza, dunque, e anche per questo un libro da leggere, anche più volte, e da regalare. Chi, del resto, può affermare che il tema dell’incompletezza non lo riguardi per nulla?

 


Giorgio Castriota Skanderbegh

Marta Cai, Centomilioni, (Einaudi)

E se non ci fosse niente di interessante, nemmeno nelle tragedie? Se neanche quelle contenessero scene epocali, tradimenti, morti ammazzati? L’indagine di Marta Cai nel mondo delle mezze misure, il nostro mondo, passa per il personaggio di Teresa, una giovane vecchia che vede il futuro passarle davanti nella sua piccola vita, mentre bada ai genitori e insegna in una scuola per recupero anni scolastici. È proprio qui che incontra il giovanissimo Alessandro, il diciottenne a cui Teresa intesta l’inizio di tutto quello che in lei non era iniziato. Centomilioni indaga dove di solito non si guarda, con una lingua che entra ed esce dalle teste e dai corpi, che si materializza davanti al lettore e cela e spiega, lottando contro la vita statica che si trova a descrivere.

Enrico Terrinoni, La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale, (Bompiani)

Ormai da due decenni Enrico Terrinoni porta avanti un titanico lavoro filologico, e potremmo dire archeologico, sull’opera di James Joyce. In questo volume, l’irlandese non è solo; a condividere le pagine con lui c’è Italo Svevo. L’amicizia che legava i due viene ricostruita minuziosamente, seguendo lettere, testimonianze, e una ricca bibliografia, senza dimenticare i testi; tante sono infatti le corrispondenze, gli inside joke, i reciproci riferimenti, le mutue ispirazioni, che si trovano nei due autori. Terrinoni indaga con tenacia ma anche con affetto, e il lettore prova con lui il gusto della speculazione sui punti più oscuri. A volte, infatti, si crede di rintracciare rimandi anche semplicemente in un paio di iniziali. Sarà davvero così? E con due autori come Joyce e Svevo, più larghi della vita, che scrivevano di tutto e di tutti e soprattutto di sé stessi, si può mai escluderlo con certezza?

Matteo Grilli, Muori romantica. La meravigliosa fine dell’eterno amante, (effequ)

Celeste vive da sola in un condominio sperduto che guarda la A14, dove vengono portate le persone che fuori si perdono. Celeste in realtà non è sola. Chi la controlla le assicura una guarigione, se solo si attiene all’unica regola che le impongono: deve scrivere, deve infondere tutto nel suo gesto lenitivo, altrimenti non sopravviverà. Celeste ha segni sulle braccia, ferite che si perdono nelle nebbie che la accompagnano, una nebbia che si impegna a mantenere consumando media di ogni genere. La sua sofferenza, tuttavia, ha poteri che nessuno si aspetta. Matteo Grilli scrive un romanzo generazionale, rinfrescante nel suo rappresentare annullando la distanza, restituendo un ritratto autentico della crisi del millennio, che segue con una prosa reale l’andamento di sogni e ossessioni.


Elena Cirioni

Per i consigli di fine anno ho scelto dei testi di tre scrittrici che con la narrativa e i loro studi hanno tentato e tentano di scardinare quello che ci costringe a non essere pienamente coscienti della nostra libertà. Ostinate, preparate un po’ folli, attraverso i loro scritti ci indicano nuove strade, nuovi punti di vista e ci svelano la verità. Grazie alle loro parole in questo anno ho trovato nuove vie per ripensare a me stessa al mio rapporto con la società.

Alessia Dulbecco, Si è sempre fatto così, (Tlon)

“Stai composta.”
“Non fare la femminuccia!”
Tutti più di una volta abbiamo sentito o pronunciato una di queste frasi davanti a una bambina o un bambino. Frasi che sembrano innocenti, formule standardizzate che si ripetono da generazioni perché: “Si è sempre fatto così.”
Alessia Dulbecco, pedagogista, formatrice e counsellor specializzata nel contrasto alla violenza di genere, parte proprio da questa frase per analizzare e riflettere su stereotipi, “gabbie di genere” e comportamenti che limitano le nostre possibilità di scelta.
Si è sempre fatto così è un manuale per sfuggire alle logiche di genere non solo per gli addetti ai lavori, ma per chiunque sia in grado di comprendere l’urgenza sociale di un cambiamento radicale.
“Riflettere sugli abiti che proponiamo a bambini e bambine, sui giocattoli che regaliamo, sul modo in cui ci prendiamo cura delle loro emozioni significa interrogarci sul posto che immaginiamo possano occupare in società una volta cresciuti, a seconda del genere cui appartengono. Le riflessioni che i gender studies e la pedagogia di genere cercano di stimolare hanno a che fare prima di tutto con la lotta alle disparità.” 

Alessandra Saugo, Come una santa nuda, (Wojtek)

Un testo sincero che vivisezione le vite di tutti, comprese quelle di lettrici e lettori.
Un lungo monologo interiore che diventa accusa, confessione e redenzione. Tra attori, scrittori, personaggi televisivi, psicologi dinamici, Alessandra Saugo con una scrittura a tratti sperimentale e poetica, ritrae il panorama spesso grottesco e squallido del mondo contemporaneo culturale.
Come una santa nuda è un libro postumo, contro la pornografia del nostro ego.
“Non siamo le disgraziate scafate del porno, siamo quelle delicate, anatomicamente
formate tali e quali a quelle scompisciate del porno, e a quelle che vi scompisciate voi
in generale, quelle che vi fate. Solo che noi siamo delicate.”

Mariana Enriquez, I pericoli di fumare a letto,  (Marsilio, trad. di Fabio Cremonesi)
Dodici racconti scritti da quella che molti hanno definito la regina del perturbante.
Mariana Enriquez, dopo il romanzo La nostra parte di notte torna con una raccolta di racconti che è difficile definire gotici. Ci sono fantasmi, strane presenze, riti ancestrali, ossicini di bambina trovati nel giardino di casa, statue di vergini nere pronte a maledire, ragazzi e ragazze redivivi. E c’è la scrittura di Mariana Enriquez con la sua particolare miscela di realismo radicale e fantastico. Un fantastico religioso inquietante come un disturbo sociale che spinge a fumare a letto e a rimanere disgustati dal degrado del mondo. Come ne La nostra parte di notte, anche qui a mettere veramente paura sono i vivi, non i morti.
“… la città ormai aveva smesso di piacerle: Le stradine strette, che un tempo le erano
sembrate romantiche adesso le facevano paura: i bar avevano perso fascino e le
ricordavano quelli di Buenos Aires, pieni di ubriachi che urlavano o volevano
attaccare discorso su argomenti cretini.”


Mauro Massari

Paul Auster, Baumgartner, (Einaudi, trad. di Cristiana Mennella)

Paul Auster, perché è… Paul Auster. E chiunque non sia mai entrato nel suo universo farebbe bene a sbrigarsi, saltandoci dentro a piedi uniti. Perché è trovarsi volta per volta, pagina dopo pagina, davanti allo specchio. Di fronte ad una sana perversione per le coincidenze, per quei piccoli fatterelli quotidiani che nel grande ingranaggio dell’esistenza ti lasciano senza fiato quando arrivi all’ultima rampa di scale. Auster è l’amico di sempre, quello che ti conosce meglio di chiunque altro, a cui sussurri l’inconfessabile fissando un posacenere stracolmo e una bottiglia quasi vuota in mezzo alla notte. Scritta durante un ricovero in ospedale, Baumgartner è la storia di un uomo di settant’anni vissuto nell’amore, dell’amore, per la moglie Anna che adesso non c’è più.

Maurice Blanchot, Thomas L’Oscuro, (Il Saggiatore, trad. di Francesco Fogliotti)

Il viaggio interminabile di un “essere” con una assenza di organismo in un’assenza di mare.
Eppure la sensazione tutt’intorno è di essere perennemente sott’acqua, una apnea sofferente. Thomas è un abile nuotatore, la sua dimensione è la solitudine, ama Anne, una donna in fin di vita, e sembra richiamare all’infinito una morte di prossimità, inevitabile. Avete mai amato qualcuno di cui poter disporre senza pericolo, le cui parole sono indifferentemente nella vostra o nella sua bocca? Leggere Blanchot disorienta. Un po’ come guardare giù dal dodicesimo piano di un palazzo. Se soffrite di vertigini, chiudete gli occhi.

Julio Cortazar, L’altra sponda, (Einaudi, trad. di Stefania Fabri)

Se non hai mai letto Cortazar, non hai mai letto niente. Tredici racconti (già inseriti all’interno del volume I racconti) in cui il gioco è saltellare sul confine tra realtà e immaginazione. La realtà è la sezione ritmica e la penna di Julio il sax contralto che rompe le regole per poi ricomporle, un continuo dentro e fuori, improvvisazione jazz su carta. Come distruggere, mani in tasca, facendo spallucce, un corso di scrittura creativa.


Maria Teresa Rovitto

Demetrio Paolin, Il bisogno e la necessità, (Tetra Edizioni, 2023)

Il bisogno ci rende umani, insieme alla costante necessità di fare una scelta. La scelta, si sa, non può mai essere assolutamente giusta o assolutamente sbagliata. Dietro c’è lo scollamento tra l’ordine reale e quello ideale, le imprevedibili, caotiche varianti a cui ci costringe l’esistenza terrena.  Tra questi due poli, il protagonista, un cinquantenne metalmeccanico sindacalista, padre di famiglia, pretende dal lettore un’identificazione. È un uomo comune colto nel momento in cui si rompe l’argine della quotidianità con le sue effimere certezze facendo emergere un disfacimento morale, già in corso, con l’arrivo di cartelle esattoriali.  La colpa e la vergogna si materializzano in un debito fiscale che accelera le sue condizioni di miseria, causando anche l’allontanamento della moglie e dei figli che gli chiedono di ristabilire un ordine. A quello morale corrisponde un disfacimento fisico che apre la scena: il cedere della vescica che annuncia l’avvicinarsi di una vecchiaia, un’età in cui, provati dalla vita, si rischia di perdere ogni senso etico e ogni speranza di salvezza.  La situazione narrativa presenta i tratti e i temi essenziali della poetica di Paolin caratterizzata da una profonda matrice esegetica con cui riplasma rimandi biblici, mitologici, letterari, attraverso una coraggiosa indagine sull’origine e sulla natura del male, come avviene in uno dei suoi lavori, capolavoro prossimo all’abisso, Anatomia di un profeta.  Qui lo fa alternando la voce di un narratore onnisciente con monologhi in cui si condensa il senso tragico di questo personaggio che, se da un lato chiede perdono, dall’altro cadrà nel drammatico meccanismo di ribaltamento tra vittima e carnefice; là, dove si apre forse la vera faglia del non ritorno. Se per certi aspetti, infatti, Antonio Silieri, può considerarsi vittima di un sistema economico-sociale che schiaccia la persona distorcendo e accrescendo i suoi bisogni, dall’altro sarà egli stesso a usare i bisogni degli altri per far fronte alle sue necessità, annientando finanche quello che dovrebbe essere uno degli ultimi baluardi della solidarietà sociale, quella tra lavoratori.  Sembra non esserci spazio per un noi in questa tragedia moderna, la cui azione di necessità prescinde da un fine comunitario, ma è tutta schiacciata su un singolo individuo e sul suo interesse personale; solitudine che esaspera la condizione esistenziale di infelicità. Se è vero che questo racconto lungo ha il respiro di un romanzo sia per la visione del mondo che contiene che per la costruzione delle relazioni tra i personaggi, è vero anche che a volte è bene condensare lavori di tale ambizione e portata letteraria, cosicché nella brevità e nel vuoto creato dai nodi fondamentali chi legge può continuare a porsi domande e, dunque, a muoversi nello spazio senza risposte della letteratura. Consigliato perché, come insiste Kundera in uno dei suoi romanzi più noti, abbiamo una sola vita (Einmal ist keinmal). Abbiamo paura di rovinarla e la roviniamo. Una sola vita non è abbastanza per sapere cosa fare.

 

Jacques Roubaud, Qualche cosa nero, (Ibis-Finis Terrae,  trad. di Domenico Brancale e Tommaso Santi)

Quelque chose noir è l’elegia che il poeta francese Jacques Roubaud dedica alla moglie Alix Cleo Roubaud, fotografa e scrittrice candese, deceduta all’età di trentuno anni. La raccolta poetica, uscita originariamente nel 1986, è un discorso su ciò che non-è più e che, tuttavia, continua a essere realtà grazie a chi prende la parola. Nonostante il dolore. Il titolo è una variazione a partire dalla sequenza fotografica realizzata da Alix nel 1981, esposta post-mortem: Si quelque chose noir. Una serie in cui l’artista apre in vita un dialogo con la propria morte, ritraendo il suo corpo in diverse posizioni nello spazio, inciso tra buio e fasci di luce. Roubaud riprende con il suo mezzo espressivo, la parola poetica, il lavoro dell’amata, in un momento in cui quella rappresentazione è diventata realtà e si trova gettato nel tempo del lutto. Se le foto di lei hanno agito come presagio e autocontemplazione della fine della propria condizione terrena, molti componimenti sono ecfrasi di quei lavori e somigliano a un tentativo di affermare ciò che è esistito e che permane in altra forma. A volte la pagina sembra funzionare come un buco nero che assorbe ogni respiro, ogni possibilità di presente, altre volte sembra rilasciare invece una luce, la sola materia che può catturare le ombre, se è vero che il «tempo di ogni mondo possibile è il presente».
Consigliato a chi, per sua natura, cerca di resuscitare sul precipizio delle parole accettando il rischio del vuoto. 

Riccardo Romagnoli, Cuore in esploso, (Polidoro editore)

Cuore in esploso è un romanzo che contiene già nel titolo la natura contraddittoria e in potenza del suo personaggio principale, Enrico Fra, un pittore di umili origini contadine approdato nella Firenze degli anni ’50 del Novecento, dove il paesaggio umano di intellettuali, rivoluzionari, aristocratici, donne amate, prostituite e fragili, nutrirà la sua arte rappresa in un’oscurità insondabile che sarà forse causa della sua stessa decadenza spirituale.

«Fu una penosa decadenza che io osservai da lontano […] La parte in ombra, o sbagliata, di Enrico prese il sopravvento e lo distrusse. C’erano stati sintomi, anticipazioni e avvertimenti e, per ognuno di essi, c’erano state nevrosi, narrazioni e minacce.
Enrico era tutto questo anche se, conoscendolo bambino e giovane, forse nessuno avrebbe potuto capire cosa avesse e cosa preparasse».

La sua vita è raccontata da un io narrante che ha conosciuto Enrico e che, quasi nel tentativo di comprendere la parabola dell’artista e di salvarlo dall’oblio, ci parla di lui sin dall’infanzia. Un’infanzia trascorsa in compagnia delle mondine con le quali viene precocemente a contatto, nelle risaie e nei dormitori, con gli umori e i fluidi del corpo, con una crudezza e una volgarità che lo segneranno per sempre, forse all’origine della sua sessualità vorace e distruttiva, tanto violenta quanto il processo alla base della sua creazione artistica.  Dimensione verbale e dimensione immaginale si fondono in una scrittura plastica in grado di vivificare ogni corpo in scena al pari di ogni opera d’arte, evocata spesso per mezzo di raffinate ecfrasi. L’autore mostra con abilità l’inquietudine dell’artista e la sua trasformazione erosiva nelle relazioni con gli altri personaggi che si muovono come maschere drammaturgiche all’interno di una storia ricostruita attraverso intenzioni che richiamano la grande tradizione letteraria italiana del Novecento, reggendone con cura il confronto stilistico.  Se poi la struttura è lineare, pur nei suoi salti temporali, è la lingua che preme e fuoriesce per deformare i lineamenti della narrazione a favore di un campo pulsionale e visionario che fa di questo romanzo un’opera sulla furiosa e disperata consunzione a cui può condurre la ripetizione del gesto artistico. 


Paola Deplano

Alessandro Ardigò, Tre mesi, (Il ragazzo innocuo)

Ultimamente la poesia corre libera – ma non sempre bella – negli spazi immateriali del web,
disdegnando spesso di apparire su carta, come le fate, che ci sono e non ci sono. A me però la
poesia su carta piace, perché mi rassicura. Il libro va guardato, toccato, sfogliato, annusato. Amo il libro che appaga quanti più sensi possibili e Tre mesi, di Alessandro Ardigò, uscito quest’anno per i tipi de “Il ragazzo innocuo”, è uno di questi miracoli editoriali. Sono 44 copie su carta tirata a mano, una carta spessa, color avorio, con un bel profumo intenso. Sono tutte numerate, tutte
firmate, come si conviene a una plaquette d’arte. La copertina è d’un elegante carta da zucchero, poi all’interno c’è un’acquaforte originale dello stesso Ardigò, che ha il doppio dono di essere forte poeta e lieve illustratore. E poi, ovviamente, ci sono i versi, dei bei versi, in cui la musicalità si fonde col ricordo.

Umberto Piersanti, Memoria, (Vallecchi)

Sul binario del ricordo – un binario a lui congeniale – viaggia Memoria, di Umberto Piersanti.
Isabella Leardini dirige per Vallecchi una collana di volumetti piccoli come formato ma grandi
come riuscita letteraria, in cui nomi d’indiscusso valore della poesia contemporanea scelgono una
parola che li rappresenta e ne parlano con il lettore. Memoria è uno di questi volumi e Piersanti
ripercorre pensieri, parole opere e omissioni della sua importante vita poetica. C’è tutto: dai ricordi giovanili, ai poeti amati, all’imprescindibile natura, alla paternità ferita.

Ada D’Adamo, Come d’aria, (Elliot)

Di genitorialità ferita parla anche Come d’aria, di Ada D’Adamo. Confesso che all’inizio ero diffidente – e molto. Il fatto che avesse vinto il Premio Strega narrativa dopo la prematura
scomparsa dell’autrice me lo faceva guardare con malevolo sospetto. Poi ho deciso di dargli una
possibilità – e non me ne sono pentita. Ho pianto tanto.


Simone Beretta

Brigitte Vasallo, Linguaggio esclusivo ed esclusione di classe, (Tamu Edizioni, trad. e postfazione di Giusi Palomba)

Al netto della d eufonica nel titolo (si scherza), il libro è davvero interessante per chi vuole
addentrarsi nella questione del linguaggio inclusivo senza lasciare fuori tutto il resto, ovvero, ad
esempio (viva la d eufonica) l’intero sistema in cui il linguaggio stesso diventa merce, chiamato
semiocapitalismo. Un libro che invita a chiedersi chi includere e dove, senza abbandonarsi a facili
risposte e tracciando i confini di una questione che va al di là delle semplici parole. Piccola nota
finale: potreste trovarvi a sottolineare pagine intere. Munitevi di matita doppia.

Cormac McCarthy, Il passeggero, (Einaudi, trad. di Maurizia Balmelli)

McCarthy, che non ha certo bisogno di presentazioni, scrive forse uno dei suoi romanzi più
personali. Ne Il passeggero non c’è autofiction, né autobiografismo. C’è una delle migliori penne
degli ultimi anni a confronto con le questioni di una vita. C’è uno scrittore disarmato che infila in
un libro di 400 pagine temi come l’amore incestuoso, la fuga, la sparizione, lo squilibrio mentale
del genio, la solitudine e il rapporto fra inconscio e linguaggio. Tutto, senza allontanarsi mai dal
cuore di una storia che infesta chiunque la legga. Il passeggero è il fantasma di verità che non
sappiamo nominare?

Tommaso Giagni , Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe,  (Minimum Fax)

Un po’ come Bruno de Il persecutore di Cortàzar, Giagni si mette sulle tracce di un personaggio-
ombra, di un fantasma inafferrabile sui campi sportivi così come al di fuori. Appartenente alla
nazione indiana Sac e Fox, Jim Thorpe è uno dei più grandi atleti di sempre, e la sua storia getta
luce sui grandi eventi e le questioni irrisolte della Storia americana di inizio del secolo scorso. Su
questo, l’autore non fa sconti, ma senza divagare. Restando sempre alle calcagna di Thorpe,
grazie a una minuziosa raccolta di frammenti, Giagni riesce a mosaicare una biografia rara,
facendone qualcosa di più.

 


In copertina: artwork by Julia Soboleva


 

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