, ,

Reliquiario personale – Un racconto di Giulia Bocchio

Di Giulia Bocchio

 

C’era una festa molto sudata ai piedi del castello di Caen, era una notte di luglio umida, lo si percepiva dall’erba e dal fatto che eravamo sostanzialmente nudi, sensibili a tutto. Parlavamo lingue ibride, ma nella nostra memoria c’era qualcosa di distorto e medievale, ricordi che appartenevano a un’epoca diversa, lontanissima, ben più fredda di questa, quando quelle mura erano abitate da chi indossava qualcosa di lungo, da chi credeva ancora nel potere, c’erano le tracce di certi veleni sul fondo di un boccale, i resti di un letto a baldacchino, un vecchio drappo macchiato di un sangue ormai simile alla ruggine, sigillato in una teca, forse un sudario.
D’altra parte, la stanza più preziosa era dedicata a un reliquiario, contenente i resti di un merlo che si diceva essere nato color panna, l’unico al mondo, un prodigio che attendeva una rinascita, una nuova venuta. La sua apparizione, uno spartiacque temporale. Si narrava fosse venuto al mondo in una notte in cui piovvero spine e tutti, per celebrarlo, s’erano messi a ballare in maniera così intensa e isterica da esserne poi morti. Queste, almeno, erano state le parole di una guida non spirituale.
Ricordo che brindammo al passato, in nome della cenere, e si trattava di un distillato strano, molto forte, a base di ribes nero e calvados, ricordo la mia lingua striata d’un rosso melassa, la ricordo serpentesca e ci ricordo tutti in cerchio sopra un grande specchio ovale, sempre lì, ai piedi del castello. I resti delle antiche mura ci dividevano dal mondo, dalla percezione del reale, una cinta che aveva resistito all’impeto dei secoli per proteggere noi, quella notte, per assicurarsi che tutto ciò avvenisse.
Il castello, la torre, potrebbero crollare anche domani, ma non importerebbe più a nessuno, avevo sentito dire da una voce che sembrava appartenere solo all’aria e a nessuna bocca.

Mentre la musica sovrastava le risate, ho cominciato a fissare il nostro il riflesso e le mie orecchie si sono come riempite d’acqua, l’isolamento era simile a un’immersione e l’immersione era lo sprofondamento in una domanda: chi eravamo davvero? Quelli sullo specchio. O quelli imprigionati nel riflesso? Maledetta esistenza corporea.
Io mi somigliavo, ma c’erano tratti che potevano non essere miei. Vene varicose mi avvolgevano le gambe, qualcosa sembrava colarmi giù dall’ombelico. C’eri tu che mi sorridevi, ma non avevi più denti, né sopracciglia. C’erano gli altri, ballavano incessantemente, ma come a rallentatore, erano gli stessi, ne ero sicura, erano i figli e le figlie di quella danza che certe cronache, dal 1518 in poi, non riuscirono mai a spiegare. Provavamo a toccarci ma come in un sogno i movimenti erano pesanti, scoordinati. Mi sono inginocchiata per avvicinarmi al riflesso, con la volontà di tirarlo fuori da lì, come un corpo gemello, ma non poteva succedere niente, non c’era profondità oltre quella superficie, era un’illusione.
Nel momento in cui hai cominciato a leccarmi il collo e poi a scendere, quella sensazione liquida alle orecchie è improvvisamente svanita. Non c’era niente sulle mie gambe, forse non erano vene, quelle che avevo visto. Lo specchio era pieno di impronte di piedi e la musica era quasi la stessa di prima. Ma qualcuno suonava uno strumento che non riuscivo a riconoscere, come ispirato da una Pizia, come qualcuno proveniente dal futuro, o sopravvissuto al buio, una Margaret Mead per un saggio postumo. Poteva essere un ologramma, una performance. Non importava. Era lì, nel suo tempo e nel suo spazio e tanto bastava.

Esserci, semplicemente esserci: non c’era altra formula per fermare la morte della notte. E non solo la sua. Eppure non era un rito quella festa, era la celebrazione di qualcosa, ma non ricordo più cosa. Nessun pensiero riusciva a essere più profondo di quella suggestione. Mi hai preso la mano e abbiamo cominciato a rincorrerci, senza meta, senza traguardo, era solo voglia di fare sesso, di farlo subito, di non smettere mai, in nome di niente, anzi no, in nome di un tuo tocco umano, in nome di ogni liberazione dall’ansia e dal futuro sonno meridiano. Ma qualcosa sembrava pulsare dentro il castello, c’era una luce strana, intermittente e fioca: un elemento nuovo e ci siamo distratti.
Andiamo a vedere? mi hai chiesto. Andiamoci, mi sono detta.
Tutto era piuttosto buio, pochi passi e davanti a noi uno scenario molto diverso da quel groviglio di chilometrici intestini che formavano la festa che avevamo momentaneamente abbandonato; a ingoiarci fu la pietra che rivestiva grandi saloni senza mobilio. Poi il silenzio e di nuovo quella sensazione di immersione. Le mura erano gelide, quasi tutte spoglie, la luce proveniva da un immenso camino all’interno del quale nessuno aveva acceso un fuoco, ma solo una candela che piangeva lacrime di cera giallastre. Il fronte aperto del braciere sembrava una bocca spalancata e oltre la fiammella della candela, c’era un altro specchio.
Nel nostro sangue, nel sangue di tutti là fuori, scorreva il grado di qualcosa, che poteva essere l’asterisco per l’ipocondriaco, il sollievo per il sifilitico o l’indifferenza del vaccinato. Forse non eravamo lucidi ma la nostre figure erano come distorte, allungate, non a fuoco, di nuovo quelle vene bluastre sulle mie gambe e poi un tuono, che proveniva da fuori ma che lì dentro sembrava una voce quasi oracolare.
Alle nostre spalle apparve un merlo color panna.

Non mi voltai mai, temevo esistesse solo in quel riflesso opaco, e comunque non avrebbe fatto alcuna differenza, la sua esistenza o la sua scomparsa erano figlie della stessa notte, esisteva perché posso, nella mente, rievocarlo, non esisteva perché non posso più domandarmelo. A nessuno interessa la differenza quando c’è di mezzo una profezia.
Siete già stati qui, ma non potete ancora ricordarlo, perché questa è la memoria di un antico sogno, fu un sibilo. E allora? In una versione di noi stessi molto diversa, più credibile direi, ma non più vera di così, ce ne saremmo andati, ricongiungendoci alla festa per ballare ancora insieme agli altri.
Non esiste risposta oggi. Perché siete nel tempo che precede la nascita, lì dove non esiste giudizio, l’unico luogo possibile per abbandonare l’ego, un altro sibilo.

Le mie gambe sempre più deboli, il mio corpo come sull’orlo di un precipizio, come una ferita che finisce per dissanguare l’arteria femorale. Tutto era sfinimento incontrollabile, sentivo il cuore rallentare. Ricordo l’assottigliarsi della fiamma, di aver pensato davvero morirà prima di me? Ho provato a toccare la cera di quella candela, era calda e proteiforme tra il pollice e l’indice uniti insieme in una torsione innaturale. Fra le dita scivolava qualcosa, capii di sanguinare davvero. Ricordo il merlo volare via, basso e pesante, fino a sparire nel buio, o nello specchio. Ricordo di aver provato a urlare, a tamponare in qualche modo le ferite, ma mi hai fermata: non c’era nulla sulla mia pelle. Ricordo la nostra risata isterica, come un’allucinazione non prevista. Anche il tuo aspetto era cambiato, o forse no, non era il tuo aspetto, era la tua consistenza, ormai più simile all’ombra, impalpabile come fumo, impossibile toccarti, una concezione di essenza che non poteva appartenere a niente, se non a qualcosa di ormai sepolto e mai dissotterrato. Da quel momento non ricordo più la tua vera forma. Ma nessun prima è perduto, qualcosa è stato conservato.
Ho preso la candela, ancora pulsante, la sua fiammella ondeggiava, resisteva, mi ricordai del reliquiario, lo cercai in un labirinto di saloni e corridoi. Era un stanza piccola, piena di resti umani e ossami, piccole ampolle contenenti sangue, o aborti di Baba Jaga. Avvicinando la fiamma rossastra al vetro delle teche, il mio riflesso questa volta era reale e l’effetto era quello di vederci finalmente un volto vivo e giovane all’interno. Il frammento di un femore, i resti di un teschio bambino e, adagiato su un drappo rossastro, lo scheletro di un grande volatile. C’era un logoro arazzo a tenere compagnia alle cartilagini, le immagini dipinte sull’intreccio della stoffa erano disposte secondo una precisa lettura ascensionale, narravano una storia. C’era una festa ai piedi del castello, poi una pioggia fitta, gocce come aghi, come spine. Una strana figura suonava uno strumento musicale impossibile per l’epoca. Mani rivolte verso il cielo scuro della notte, un merlo color panna volava sulla torre e osservava. Eri bravo a disegnare.

Un altro tuono là fuori. Ricordo di essere corsa via, in maniera veloce e convulsa, ma priva di peso.
Pioveva addosso agli altri, che ballavano ancora, instancabilmente, senza musica adesso, in un stato di trance. C’erano decine di corpi accasciati a terra, rigidi in un sorriso freddo. Pioveva addosso a loro come un mosaico di piastrine e dna, erano gocce che sembravano spine, avevano la bocca e la mente aperta.
Stavamo condividendo qualcosa, sentivo di averli amati tutti.
Un giorno di pioggia e di festa, come una nascita.
Un’alba rossastra, più simile a una lacerazione del cielo, sembrava ormai sempre più vicina. Stava ingoiando la notte, avrei voluto fare qualcosa per fermarla: avrei potuto? Non lo so.

So solo che era bianco, il mio piumaggio.


 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.