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Dopo l’orizzonte il tempo ricomincia – Un racconto di Giorgio Castriota Skanderbegh

Di Giorgio Castriota Skanderbegh

 

Dall’angolo di tutti gli occhi che vivevano nelle vicinanze un bagliore grattava la sua impossibilità di locazione, accompagnato dal gracchio roccioso del carretto che sciarabballava cigolando; il ritmico mulo sudante collegato alle redini collegate a mani nodose connesse a spalle larghe sotto mandibola presente a chiusura della faccia e degli occhi che definivano Raffaele, coppola-munito che mormorava tonalità indefinite — canzoni di terra, e OH OH al ciuccio. I saltelli di chiappa della bambina seduta al suo fianco vibravano in controtempo sugli assi in moto.

[Sotto] Sole alla valle e sole alla collina
Per le campagne non c’è più nessuno

Il taglio di foresta si dischiudeva, esistendo solo durante e non prima e dopo, suggerimento di fine inconfermabile, permanenza eterna contro un cielo a malapena considerato, a schiacciare i rumori contro la loro fonte, protestato da fischi e spi sp sp delle labbra della piccola Carmela, incapace di vuoto, impreparata al silenzio, dispendiosa di energie contro il pacato agire del papà, contro le mani mai vuote. Scendere voleva — nonsignore — scendere voleva — nonne — ché la strada la conosceva — pòzzino — Raffaele sempre guardava, schizzi di particolari mai persi alle sue pupille, ineducata mente al perenne calcolo, alla perenne ricerca di maniera, in azione perpetua. Nonsignore non si scende. Statt là.
Sotto il suo carrrrrrrrretto la sua terra gli si presentava di nuovo, lieta della conoscenza, che quasi se l’era dimenticato il suo addio addio, amore io vado via, sorda alle promesse mantenute, radiosa e mutata; sopra l’assalto delle erre, Raffaele avanzava.

Amara terra mia
Amara e bell—

La curva adocchiata da tempo produsse il rrrr di contrasto prima di mostrarlo, zittendo Raffaele che zittì Carmela zitt zitt sta’ quieta con la grande mano a assittarla sulle assi zitt zitt ma scendere voglio scen—
Speculare emerse Carretto n°2, d’immagine a contrasto morbida con l’ancora peggiore grrrrattare, ciottoli sparati da ruote e zoccoli di mulo connesso a redini connesse mani brune collegate a spalle pesanti sotto a collo rosso e baffi che identificavano il volto di nu paisan che, occasionalmente— non si perse negli occhi di Raffaele il frizzo, la traiettoria, che consideravano calcolando, e da sopra a sopra, da pari a pari di livello, cercavano gli altri di fronte e al lato di lui, entrambe le paia riservate sotto le coppole, ma con lo stesso scopo.
Lu paisan attese la mistione di rumori, il livellamento dell’incontro, per portare la mano consunta a tocco della coppola:
«Caro ca’»
Qualcosa di illiquidito nel portamento di Raffaele riprodusse il gesto, e «Caro ca’» di
ritorno.
Di sollievo, entrambe le schiene ripresero a brontolare intrattenimenti di traversata, quella
di Raffaele importunata dai balzellini del corpo che vicino a lui si beava del permesso di
non temere.
«Papà, ma cud chi è? U canusc’?»
«No, nu paisan»
«E perché Caro ca’; chi è cud che ci è car’?»
Raffaele non guardò via dal ciuccio e dalla strada: «Pecché nella foresta, sül noi e lui, cud jè lu megl cumbar ca tenim».

Cucinava, Angiulina, cucinava per il futuro, ché pensare per ieri non le era mai riuscito, sopra lu flomp molle-pasta, sopra farina annuvolata sub-unghia, il silenzio della fronte e dei capelli abitati dalle voci de lu paies, informate dalla rara radio, le voci che annunciavano che è murt, è murt, le voci che tentennavano con le mani nel disappendere i quadri, ché meglio che li lasciamo metti che fann lu controll metti che non è murt — le voci appartenenti agli occhi che indagavano il sindaco e lu quill, lu controllor e la sua fascia con il qualcosa nuovo risvegliato, contando e calcolando; le voci delle madri e delle mogli che quindi si chiedevano ma allora adesso…? e lo chiedevano ai propri dintorni, alle foreste e ai pascoli, e alle camicie nere che cominciavano già a sparire. E allora adesso? Angiulina, le mani progressivamente disimpiastricciate pulite dalla maggiore coesione dell’impasto, umidità catturata, aria chiusa dentro la farina, sensò l’avvicinamento prima di captare luce e/o rumore, e quando il secondo venne percepì le vibrazioni che raccontavano della piccola filabustiera e di Raffaele, che grattavano il vialetto. Ma Angiulina impastava, anche quando entrarono, anche quando vide un’altra volta negli occhi del marito cudd che non aveva le parole per definire — in fondo, dagli occhi dentro al petto, il punto nero inizio del crollo, dietro la facciata in agguato, dormiva pronto, sognando. Il saluto con la testa, due dita alla coppola, l’appartenenza senza bisogno di dichiarazioni; la bambina che zompettava e voleva mett li man subbito in mezzo e fa bailamm—
Quattro giorni che er murt. E mo quindi
Angiulina cucinava per il futuro, e dae da magna’ a tutt quent.

Ancora una tarda luce di sangue prenotte, sopra a frustare gli occhi di Raffaele che pensava alle carte, le sue carte di progetti che dovevano ancora venire ma che stavano là, là vicino al punto nero che Angiulina sapeva e lui no, le carte che doveva guardare un’altra volta e un’altra — aveva già parlat cu cudd, si poteva fare, si faceva, soprattutto mo, mo che veniva un altro tempo, mo che la geografia e la storia si scrivevano da sole sopra le loro vite, mo che Raffaele ancora non lo sapeva ma i mezzi arrivavano, mo che l’americhen venivano, loro da lui, pens nu poc, mo che ancora le mattonelle rosse erano nella sua testa solo, che ancora non erano cotte neanche, mo che la masseria ancora sua si andava verso l’addormentare, piano, e invece i movimenti disturbati, le bestie zoccolavano in cacofonia, due belati, li chen che strepeteven, «Papà» alzato in nasale acuto da qualcuno, le jastème di Raffaele che si alzava e correva, facendo battere quel punto nero dentro, afferrando ferro.
Chi stava nel fienile sentiva i passi tonanti, ticchettio su carne in corsa, huff huff, la porta spallata via. Raffaele e la sua lupara incorniciati, Raffaele col petto bucato che fischiava in diminuendo al niente, e la scena ai suoi occhi: Carmela in piedi, proprietaria del grido precedente, che guardava infuocata due macchie verdinére nell’angolo, vicino al ciuccio dallo zoccolare irritato; due—
«Carmàla, vattinn»
Raffaele ruvido sabbioso issato dritto, impalcatura nervosa fuso col fucile, da sopra al quale gli occhi neri presero e ingoiarono la stanza, il ciuccio, la figlia, la casa nel loro buio.
«Carmàla, da mamma»
«Papà, so trasut»
«VatTEnn»
Carmela non obbedì, solo un quarto di passo smosse la pancia sotto le sue mani intrecciate agli indici che si unghiavano tra di loro. Le due macchie parlavano, alzavano le mani, ai piedi i sacchi; quello più basso avanzò fuori dai mormorii inconsulti:
«Calm, paisa’»
L’osso di Raffaele stridente contro la canna della lupara, i nodi delle sue mani facevano risuonare i meccanismi; a un cenno il soldato indietreggiò.
«Carmàla, vattenn»
«N’e facim nend a’ creatur—
In Raffaele che avanzava c’era la morte che artigliava l’aria per issarsi e raggiungerli prima, e la morte si mise fra loro e la bambina che si torceva le mani.
«Iatvinn»
Quando aveva parlato Raffaele pur lu ciuccj s’era quietato. Le mani di Basso stavano a mezzo petto e spalle, un passo avanti ad Alto che in effetti s’ stev zitt da prima; entrambi guardavano nella canna e negli occhi del padrone di casa. Nei metri intercorrenti tra Raffele e i soldati si centimetravano vent’anni, si alzavano gridando fughe e morti, aprivano gli occhi le donne mort’ammazzate disonorate, li criatur de lu paes dirimpetto che chissà, nn’ea vist chiù, le navi e le bombe, e li mort nella stiva, e li mort sopra e dietro le spalle sue, e la paura di Raffaele, e lu spavent del viaggio nella bestia, e li famigghj che non erano più o non erano possibili. La terra di nessuno era la loro, e premevano sugli occhi dei due uagliun, spingevano per entrare.
Gli amici e i nemici dividevano l’amico e i nemici, che nel fienile si fronteggiavano.
Sulla tempia Raffaele sentiva la goccia estrarsi, e tra i denti caldo stantuffare.
Alto non aveva le parole per descrivere le figure che vedeva nel silenzio: doveva romperlo:
«Paisa’, guarda, arme non ne tenem», ma quando si mosse per il sacco fu impalato dalla pugnalata nell’aria che Raffaele diede con la lupara. «Accuort, paisa’»
«Iatvenn»
L’urlo di Carmela inacidì il sangue dei presenti, che cudda criatur non si poteva stare zitta:
«PaPÀ».
«’Ttzitt»
Raffaele avvertiva dietro la porta, dentro la casa, i fiati sospesi, si spostò per occludere, offrendosi ampio.
Alto si mise avanti, con la lupara appizzata sul petto, sull’uniforme maledetta che fetava:
«Paesa, non t’agg fatt nend a te’, non facc nend a’ criatur. Famm ie da mamma’, paisa’».
Raffaele percorreva il petto di Alto con la canna, e nessun clangore di medaglia incontrava la lupara, sopra la carna giovane, sopra la pelle senz’acqua che cominciava a mangiarsi le costole, sopra l’invisibili pel biond, sopra il corpo che si era venduto, convinto stupido imperdonabile, sopra il cuore che aveva battuto mentre si giurava a cudd che mo era morto, era morto pure lui, e mo che si faceva?
Cuori animali battevano sotto inaudite stelle, nel fienile, nella casa appena oltre la porta.
La cacciunella Carmàla che aveva smesso finalmente di ∫’kamare — finalmente il corpo si stava fermo e la bocca dava tregua, finalmente guardava la situazione davanti a lei fuori dell’immediatezza del bambino, finalmente il carro era fermo e lei non poteva rimbalzarci.
Alto e Basso del colore del ciuccio.
«Carmàla»
Le piccole dita intrecciata guardavano i due uagliunastr che ricambiavano, vibrrrrando nel buio che mo arrivava, che mo era già là.
«Carmàla. Mannacc. Arruspigghiati»
Dalle unghie l’impulso, il sussultospiro.
«Va’ dentro. Arreca le casacche mie e i caucion»
E poi, post pat pat di giovani piedi, post porta, post mormorii in altre stanze, alle orecchie di Basso e Alto: «Levateve quedde cose».
Nel fienile, soli ma non soli, circondati dalle voci de lu paies e de lu munn che sbraitavano per entrare. Dopo la muta, di tutti i segni che persero, di tutti i simboli che caddero, di quelli caldati sopra il metallo e freddati sopra la carne, di tutti gli sterni e di tutti gli accoltellamenti che passarono e rovinarono a terra, di tutte le sodomie, le intimidazioni, di tutte le bambine spaventate e i bambini emasculati, di tutti gli infiniti polsi scorticati da filo di ferro, di tutte le preghiere, di tutte le ruote acidopetrolio sopra le ghiaie, di tutte le fami e le seti, Alto e Basso ricordarono la lupara che non aveva sparato, e si ricordarono della strada di casa che si slinguava appena fuori dal fienile, di dove mamma stava aspettando. Raffaele s’arricurdaje la maledizione che gli mandò, mentre ammucciava le divise e i curtidd, e ammucciava l’aria che gli stava intorno, e i due ragazzi, ne lu pitt, a fondo nel punto nero che gli usciva dagli occhi.

 


In copertina: None of us really understand each other by Bi Ji Joo


 

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