Passeggiavo per Bari qualche anno fa, il bavero del cappotto alzato a difendermi la gola dal vento, la sigaretta nella mano destra e una busta di pane sotto il braccio, osservando distrattamente il chiosco di libri usati in piazza Umberto, quello del venditore sempre in blazer e sciarpa annodata al collo, à la parisienne, quando tra gli stessi titoli visti decine di volte spunta “Angelo Maria Ripellino, Poesie”. Prezzo: 3 euro. Un miraggio. L’equivalente di un “Vinci tutti i premi” per gli irriducibili e malconci affezionati di lotterie istantanee, la mattina alle 10, in un bar di provincia. Il Natale in anticipo. Un libro rarissimo. Perché della poesia Ripellino è sempre stato un nome sussurrato, il fiammifero che tieni in tasca quando l’accendino fa i capricci.
I più direbbero distrattamente slavista, traduttore, saggista, altri prenderebbero dalla libreria, fieri, la loro copia di Praga Magica, l’opera più famosa, un impavido e sognante girovagare per la capitale ceca, come Kafka prima di lui, tra taverne ombrose, caffè letterari e chiese spettrali. Pagine barocche, labirintiche, ammesso che labirinto sia un ingarbugliarsi di suggestivi vicoletti che fanno ritorno, sempre, alla piazza principale.
Solo in pochi però conoscono il Ripellino poeta. Questo probabilmente perché nella letteratura, intesa come consumo popolare, il suo nome non è mai diventato arabesco da sfoggiare, piuttosto segreto da bisbigliarsi all’orecchio tra i più intimi.
Cammina di continuo su bottiglie rotte Angelo Maria quando scrive in versi, teatralizza il linguaggio, incurante del pericolo, la testa nella bocca del leone e il sorriso appena accennato, beffardo, sotto i baffi ordinati, di chi sa che ce l’ha fatta, ancora. Malinconico ma mai abbattuto.
Un acrobata, sotto l’angolo retto del suo cielo, nel grande tentativo di stupire.
Coraggioso eppure così fragile, così cagionevole di salute, rassegnato alla malattia («Anche se mi accadesse di guarire/ è in me ormai così forte la malía del malessere/ che non saprei accettare la salute») che lo porta via, appena cinquantacinquenne, il 21 Aprile del 1978.
A cent’anni dalla sua nascita, dal terzo piano della più antica libreria di Londra, Hatchards, ho voluto ricordarlo telefonando ad Alessandro Ripellino, architetto di fama internazionale, nonché figlio di Angelo Maria.
Se, chiudendo gli occhi, ti chiedessi il primo ricordo che hai di tuo padre, quale sarebbe?
Sono ricordi di gioventù, naturalmente. I viaggi che abbiamo fatto insieme, momenti spensierati che abbiamo passato quando siamo stati a Praga, ma anche al Castello di Dobříš, il castello degli scrittori, dove abitavamo d’estate, un posto meraviglioso. Dopo i ricordi felici mi torna in mente la malattia, le preoccupazioni private che trapelavano nella poesia di mio padre e che noi vivevamo in maniera molto diversa, preoccupante. Ritorna poi la ricchezza culturale che mi ha dato, che tutta la mia famiglia mi ha trasmesso, lasciando una profondità che mi ha ispirato tantissimo, anche se non ho scelto la stessa strada dei miei genitori. Ma devo anche a loro, e soprattutto a mio padre, il coraggio di trovare la mia strada.
Ripellino è stato un grandissimo appassionato di arti visive che si avvicinano molto a quella che è l’architettura. Da Chagall a Magritte, tuo padre si è sempre nutrito di immagini per dar forma alla sua poetica. Quanto questo ha influenzato la scelta del tuo percorso, diverso, ma di altrettanto successo?
Già da adolescente mi si è aperto un interesse molto profondo e precoce per le arti visive, lavorando come fotografo su commissione di mio padre, scattando le foto di Praga Magica. Il contatto con gli amici pittori che frequentavano casa nostra, le discussioni, le visite alle mostre, i tantissimi libri: in famiglia non si parlava d’altro che non fosse letteratura e arti visive, in tutti le sfumature possibili. Tutti i viaggi che abbiamo fatto a Praga, a Parigi a Vienna… Viaggiare, vedere diverse culture urbane e architettoniche: questo mi ha ispirato tantissimo. Hai citato Chagall e Magritte, ma forse il pittore che più nominava era Paul Klee. Poi l’amore per il barocco… c’è sempre stata molta architettura a casa nostra.
A proposito del barocco: Palermo, Roma, Praga sono tutte città influenzate da questo stile. Può essere questo il fil rouge che lega le città iconiche per la storia della tua famiglia?
C’è assolutamente un filo d’Arianna che collega queste tre città, anche se molto diverse.
Il barocco nasce a Roma come propaganda di fede, come un’arte ridondante, un’architettura che deve affascinare con la sua ricchezza. A Palermo credo assuma una forma leggermente diversa, lì c’è molta più contrapposizione di vita e morte nello stile architettonico. Mio padre si è ispirato molto al barocco siciliano, anche se generalmente parlava poco della Sicilia. Poi il barocco di Praga, della Boemia e della Baviera, il più bianco, il più affascinante di tutti. Romano, siciliano e ceco, secondo me questi tre barocchi sono interessanti dal punto di vista spaziale e li accomuna una cosa: coinvolgono lo spazio urbano. A Praga tutte le statue del Settecento, le chiese con il convesso e il concavo, le forme delle cupole sono in contrasto con con le torri alte del Medioevo, un antagonismo visivo che mio padre adorava e richiama in Praga magica, oltre ad essermi stato d’ispirazione nelle foto che ho scattato per il libro.
Qual è il tuo rapporto con Praga Magica? È un testo tutt’altro che di semplice approccio…
Conoscevo un po’ le idee di mio padre, ero giovanissimo ma se ne parlava tanto in casa. C’è stata
una gestazione parecchio lunga, ho realizzato gli scatti seguendo le sue idee ma soprattutto sentendoli dentro, come fotografassi con gli occhi della mia famiglia. Ricordo quell’inverno con mia madre in una Praga grigia, caliginosa, affascinante. Quando il libro è uscito, nel ‘73, era molto difficile per me da capire. Mi ci sono riavvicinato più tardi, quando mio padre è morto, nel ‘78, e allora ho cominciato a capire avendo dalla mia parte le letture di scrittori come Jerschke e Kafka che mi hanno aiutato decifrarne l’atmosfera quanto il contesto politico.
Direi, parlando di Ripellino, che abbia avuto tre grandi compagne di vita: Ela, tua madre, Praga e la poesia russa.
Lui aveva un interesse molto profondo in generale per la poesia. Ha cominciato in realtà leggendo letteratura portoghese e spagnola, successivamente si è innamorato della poesia russa. Questo durante la guerra, mentre frequentava l’università a Roma, seguendo i corsi del professor Ettore Lo Gatto, un famoso slavista italiano. Si è innamorato di Majakovskij, il primo che ha cominciato a tradurre durante gli anni di universitari, coraggiosamente, durante il fascismo. Poi c’è stato l’amore per Praga, un amore profondo, e per mia madre che era ceca. Sono questi, due amori che coincidono.
«Vedo il passato nel ghiaccio/ come un capello lucente fra le dita,/ come un filo d’oro in un sipario/» ha scritto Angelo Maria, con infinita dolcezza, nella poesia “A Ela”, per tua madre. Parlami un po’ di lei…
Ela era bionda [sorride ndr]. Mia madre ha significato tantissimo per mio padre. Si sono conosciuti a Praga nel ‘46, quando lui insegnava letteratura all’Istituto di Cultura Italiana e lei era una sua studentessa. Si sono molto innamorati e dopo vicende parecchio complicate mia madre si è trasferita a Roma dove ha incontrato la famiglia siciliana di mio padre. Un incontro particolare, non semplice, che lei descrive nelle sue memorie. Si sono sposati nel ‘48 rimanendo chiusi fuori dalla Cecoslovacchia per dieci anni durante il periodo stalinista. L’amore per mia madre e quello per Praga si sommano, si intrecciano, sono in realtà quasi la stessa cosa. Un amore, quello per la città ceca, vissuto a distanza, con una grande speranza che negli anni è diventata sempre meno ottimista, sempre più oscura. Anche se mio padre, in Praga Magica, scrive alla città adorata di un ritorno, quasi fosse una promessa premonitrice, da morto, se non da vivo, con Ela e tutti i suoi cari. Un’altra cosa importante su mia madre puoi trovarla nelle parole di Italo Calvino che definiva il rapporto dei miei genitori “L’officina Ripellino”. Questo è iconico, lavoravano continuamente insieme, senza mia madre sarebbe stato difficile fare tante cose per mio padre. Lei aveva una cultura molto profonda, un interesse ed un entusiasmo totale per quello che faceva lui, un aiuto fondamentale.
Tra i temi ricorrenti nella poetica di Angelo Maria c’è la malattia.
La malattia è arrivata quando mio padre era giovane. Durante la guerra ha avuto le prime avvisaglie della TBC poi ha avuto un sacco di altri problemi, quindi è molto presente nella sua poesia come nella sua vita. L’ha condizionato tantissimo nel quotidiano anche se fuori dalla famiglia è sempre stato entusiasta, positivo, affascinante, coinvolgente nel suo entusiasmo e questo lo sentivano soprattutto i suoi studenti. A casa era un po’ diverso, era preoccupato. La morte è sempre stata molto presente nei suoi libri.
Ritorna spesso nei suoi versi anche questo suo sentirsi “inadeguato ad amare”…
Non è una qualcosa che abbia sentito in qualche modo. “Inadeguato all’amore” mi fa pensare a diverse cose. Ancora alla malattia e alle difficoltà a partecipare al suo sentimento per la città di Praga. Per quanto riguarda l’amore per mia madre, no…forse [ridiamo ndr].
«Riempire di propri scartafacci la stiva,/ sognare che il nome/ fra tanto oblio sopravviva./ Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla./». È probabilmente uno dei versi più citati di Ripellino. Essere dimenticato era una delle sue paure più umane?
Di essere dimenticato e di vivere una vita che sapeva non sarebbe stata lunga. Di non riuscire a fare abbastanza per essere soddisfatto, riconosciuto, ricordato.
C’è un’abitudine, un gesto quotidiano che ricordi di tuo padre con maggior tenerezza?
Il suo sguardo, i suoi occhi luccicanti. Ma anche i suoi gesti, la sua tosse continua dovuta alla malattia. Sono tutte cose che fanno parte di me.

Se dovessi riassumere il rapporto con tuo padre in una polaroid, quale sceglieresti?
Un’istantanea del castello degli scrittori dove siamo su una grande altalena io, mia sorella e i miei genitori a dondolare. Ne ricordo ancora il rumore. Io mi chiamo Alessandro, in ceco si dice Sasha, e il cigolio di quel dondolo sembra ancora chiamare il mio nome.
A cura di Mauro Massari
In copertina: Angelo Maria Ripellino e la moglie Ela a Dobříš nel 1968 – © Famiglia Ripellino

