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Ogni scrittura onesta parte dal corpo: intervista a Elisa Biagini (a cura di Annachiara Atzei)

Parole cesellate, una certa apparente ruvidezza e un’attenzione profonda ai luoghi e alle persone sono la formula inventata da Elisa Biagini per fare esperienza del mondo.
L’unità di misura del suo sentimento e della sua poetica è il corpo, frammentato in ogni sua parte e punto di avvio di una nuova personale narrazione che condivide col lettore lasciandolo pur sempre libero di reinventare la sua storia.
Per l’autrice toscana – che tornerà in libreria il prossimo anno con una nuova raccolta – la buona scrittura non è mai rassicurante, ma parte dalla quotidianità per porre continui interrogativi e muovere alla riflessione sul senso delle cose. Per questo, Biagini rifugge l’autocompiacimento e i temi “alla moda” per comporre testi autentici che testimoniano una grande capacità di ascolto e apertura.
In questa intervista, ci racconta del suo lavoro sulla lingua e sul linguaggio, contaminati dall’arte e dalla musica, dall’esperienza come docente di scrittura, letteratura e storia dell’arte all’estero e dal suo lavoro di traduttrice, tutti occasione per ripensare ancora una volta alla sua poesia.

 

Biagini-Elisa
Elisa Biagini fotografata da Dino Ignani

Nel bosco, Da una crepa e Filamenti sono le tue raccolte poetiche edite per Einaudi che appaiono accomunate da versi curati ed essenziali. Esiste la buona scrittura? E cosa lega poesia e sentimento?

Mi chiedo sempre se una definizione di buona scrittura ci sia e se possa anche mutare nel tempo. Per la mia esperienza di vita e di lavoro, la buona scrittura è quella che ti lascia con una serie di domande e mai con delle risposte, ci tengo a sottolinearlo. Rifuggo la scrittura sentimentale, compiaciuta e rassicurante. Non credo a una poesia che inquieti, ma a quella che porti ad auto-interrogarci, e questo si può fare in mille modi: con un buon lavoro sul linguaggio e con un percorso tematico e di riflessione che riguardi la rilettura del mondo, che trovo debba essere fatto costantemente. La buona poesia attinge dalla quotidianità e rifonda il linguaggio. La poesia furbetta o pop è fatta di menate che evitano di affrontare la vera questione, quella che riguarda il contenuto di ciò che si scrive, ovvero se ci sia qualcosa da raccontare.

A proposito di capacità di lettura del mondo, quanto conta nello scrivere poesia? E quanto conta l’attenzione verso l’altro e verso il paesaggio?

È fondamentale. Posso parlare del mondo in tanti modi senza necessariamente descriverlo. Come dice Dickinson: “Tell all the truth but tell it slant”, di’ tutta la verità ma fallo in modo obliquo. Non deve essere un racconto didascalico, se no non serve a niente. Si tratta piuttosto di un attraversamento mediante l’esperienza e di una reinvenzione.

Il lettore non assiduo di poesia obietterebbe che la poesia non è comprensibile. Che ne pensi?

La cattiva poesia è fine a se stessa e gratuitamente o banale o incomprensibile. Ad esempio, Celan non è immediato, ma non è difficile. Lui diceva che un suo testo andava letto più volte. C’è un punto dove ci si incontra, esattamente a metà, tra la poesia didascalica, che prende per mano il lettore come se fosse un idiota, e – sull’altro versante – quella dal linguaggio completamente autoreferenziale, che è preclusa al lettore. Esiste una via di mezzo, una lingua che parte da un’esperienza personale, che si interroga su questo, e che cerca un linguaggio comune. Non è poesia se non mi sommuove, se non mi fa spostare di una virgola rispetto alla mia relazione col mondo e con gli altri, se non mi fa porre delle domande su me stessa e il periodo storico in cui vivo. Se la poesia è solo di pancia, non va bene, se è solo di testa, non va bene lo stesso: e cosa c’è a metà? il cuore. Devo esserci col corpo e sentire con esso e di conseguenza esprimere il mio pensiero. Essere nel mondo è sentimento, come ascolto e apertura.

Allora, prendo spunto dai primi versi di Filamenti: “In quell’aprirmi al/ mondo c’è il tuo/ viso e il taglio/ che mi ha fatta/ sola:/ un nodo/ per ricordare/ al mio piede/ la tua mano”, per chiederti se il corpo è strumento di poesia.

Ogni scrittura onesta parte dal proprio corpo. Il corpo ci parla e ci manda dei segnali molto precisi. Io capisco il mondo per come mi muovo con il mio corpo e per le esperienze che faccio con esso. La mia poesia è sempre stata fisica, ma non parla mai del corpo con la c maiuscola bensì del frammento. Certamente parto da me nel raccontare, ma non propongo mai l’intero perché non è interessante per il lettore, ma solo una parte, dalla quale chi legge può ricostruire una narrazione. Scrivo di qualcosa perché quel qualcosa mi riguarda e non mi approprio in modo superficiale di storie altrui né di temi “alla moda”: penso alla poesia sui migranti e al forte rischio di retorica, all’idea di una poesia femminile e alle sue datate categorie…

Ti sei occupata anche di arti visive e musica. Cosa accomuna poesia e materia? E poesia e musica?

La mia formazione è di storica dell’arte contemporanea e queste due realtà – arte e letteratura – vanno insieme parallelamente. Da giovanissima, ho capito che in poesia, lavorando con impegno, avrei potuto scrivere qualcosa di interessante. Ho scelto di dedicarmi alla scrittura, ma, quando posso, continuo a fare delle installazioni. L’occasione di scrivere testi per musica è nata casualmente, come sfida con me stessa, ed è stato un episodio del passato. In tempi più recenti ho collaborato con compositori contemporanei: a dicembre per esempio, a Napoli, ci sarà la prima di Tesla, da Filamenti, eseguita da un ensemble di musica elettronica e percussioni, con una cantante e con la registrazione della mia voce. Queste collaborazioni mi hanno dato l’occasione di proporre dei testi a dei musicisti contemporanei che li reinterpreteranno alla loro maniera.

Nei versi quanto contano il ritmo e la musicalità?

Io uso molto l’enjambement, ma nella mia poesia c’è una doppia musica: quella del testo scritto e quella della lettura ad alta voce. Il libro viene prima di tutto, ma è interessante che il poeta legga ad alta voce i propri testi perché fornisce altre chiavi di lettura. Ogni poeta dovrebbe interrogarsi su ciò che scrive e, in base a quello, inventarsi una sua voce.

Hai studiato e insegnato negli Stati Uniti e sei anche traduttrice. Che segno ha lasciato questa esperienza sulla lingua che usi? Tradurre e scrivere si intrecciano o sono due attività distinte?

È stata un’esperienza di lavoro e di vita molto intensa. Da quando sono tornata a risiedere a Firenze, lavoro in un’università americana insegnando scrittura, letteratura e storia dell’arte in inglese. La lingua inglese è entrata dentro la mia lingua anche se ora non sento più l’esigenza di scrivere in lingua straniera. Tradurre, invece, è un’esperienza di umiltà che consente un grande lavoro sulla lingua. Ora mi dedico meno alla traduzione, ma amo lavorare con i traduttori dei miei testi perché è per me un modo per interrogarmi su ciò che scrivo e sul mio modo di farlo.

A cura di Annachiara Atzei

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