L’elogio dell’insofferenza, della grande noia, la speranza esasperata, il vivere intenso, senza capacità di compromesso. Questo racconta Pierre Minet nella sua Défaite, La Sconfitta.
Pubblicato in Francia nel 1947, Neri Pozza riporta in libreria l’amico di Gilbert-Lecomte nella traduzione di Stefania Ricciardi.
Ed è parlando della morte dell’amico di sempre, Gilbert, e del suo corpo torturato dalla droga (“la droga gli aveva imposto una sorte disumana, e lui aveva sempre creduto che la vita andasse vissuta disumanamente”) che Pierre Minet inizia il suo viaggio a ritroso nel tempo, fino agli anni Venti, quando stanco di Reims e della provincia fugge a Parigi con abiti consunti ma scarpe lucide, con una camicia sporca da lavare nei bagni dei caffè, sulle orme di Rimbaud, la cui ombra sembra giocare a nascondino tra le pagine di questo libro.
Iniziano così mesi di poesia totale, perdendo un impiego dopo l’altro, inadatto spiritualmente al lavoro (“starmene chiuso a ricopiare cifre, a riordinare documenti, mentre fuori la vita continuava a spargere i suoi tesori, era insensato! C’era un tempo splendido.”) naturalmente portato all’insuccesso, per vocazione più che per incapacità, sprofondando nella miseria più assoluta, cercando comprensione tra le gambe fredde e rassicuranti delle prostitute del Quartiere Latino, Pierre temerario, Pierre lo scroccone, Pierre il poeta, Pierre trasformista, Pierre inconcludente, Pierre l’enfant terrible di Montparnasse, potrebbe essere senza sforzo il personaggio, seduto in un café a Montmartre, di un quadro di Henri de Toulouse-Lautrec.
Sono les années folles, è la Francia tra le due Guerre, il posto migliore per essere giovani.
E giovane Minet lo è stato con i suoi phrères, i compagni di bordelli e di spirito, fondatori (con Lecomte) della rivista Le Grand Jeu, Nathaniel (René Daumal) e Roger Vailland.
“I miei phrères sarebbero cresciuti presto. Nella loro mente germogliava sin da allora l’idea di una rivista, di un movimento nuovo. Per la storia e perché quel ricordo mi commuove, perché rivedo perfettamente tutti noi, rievocherò quel pomeriggio grigiastro in cui, seduti su una panchina davanti alla prefettura della polizia, discutemmo per la prima volta della creazione del Grand Jeu”.

E tra gli ideali avanguardisti e le scorribande notturne, nei mesi di meraviglia incessante in cui addenta la vita con il “cuore e l’anima di un bambino”, c’è la fame, fregio da ostentare più che ostacolo da vincere, e il rapporto complicato con il padre (“se qui potessi non parlare di lui, che sollievo”) che da frattura, con lo svolgersi della narrazione, diventa abisso fatto di inconciliabili distanze emotive, incomprensioni quanto intolleranze dell’essere “mio padre che mi guardava dall’alto, basito davanti alle mie bravate, incredulo, non ancora rassegnato a dover annoverare tra i suoi figli un elemento simile”.
L’amore e la malattia, le grandi debolezze dell’uomo di pensiero, nell’ultimo terzo del libro, arrivano a mitigare Pierre, a strapparlo dalle braccia dell’adolescenza, separandolo dalla poesia e spegnendo in lui ogni senso di rivolta.
“Quanto l’ho amata. Quanto l’amo ancora. Mi ha dato tutto e mi ha preso tutto. Mi ha fatto e mi ha disfatto. Che amore! Che potere su di me! È stata lei ad aprirmi le porte della realtà”.
Il doppio dei suoi anni, il portafoglio pieno abbastanza per aiutare Pierre nelle sue esigenze quotidiane e due ex mariti di cui continua a leggere, con mal di cuore, le lettere (“parole sulle quali lei restava a lungo china per interpretarle come una strega sui fondi del caffè, finendo per scoprire quello che tanto teneva a trovarvi: ancora la presenza dell’amore”). “Un’autentica intossicazione” così Minet descrive il loro rapporto, fatto di eccessi, un incendio dopo l’altro, il fumo premonitore delle ceneri che ne sarebbero rimaste. Il vuoto intorno a loro.
E dopo la malattia, affrontata dal 1929 al 1931 quando “non riusciva a mettere un piede davanti all’altro e ogni marciapiede equivaleva a una montagna” arriva la débâcle, l’ultimo incontro tra i due, struggente.
“Ci siamo guardati a lungo, molto a lungo, più intimiditi che commossi. D’improvviso così lontani l’uno dall’altra, separati da quei cadaveri, da quei tre anni di noi. Sulla scrivania, nei cassetti socchiusi, sul comò, vedevo le pile delle mie lettere.
Ha finito per avvicinarsi, mi ha palpato. Sembrava un cieco che cerca di riconoscere un oggetto. Ho fatto per abbracciarla. Il suo passo indietro mi ha spiazzato. Incerti tutti e due, maldestri, slegati.
Ho fatto uno sforzo e l’ho abbracciata davvero. Il letto. Dio com’era cambiata. La sua carne non mi parlava più. Niente. La realtà rideva perdutamente. Provai la magia delle parole. Ma erano parole di ieri, non di oggi. Tenevo gli occhi ostinatamente chiusi, sicuro che i suoi scrutavano il mio viso che lei odiava già per la prossima espressione che ci avrebbe letto”.
Un breve viaggio all’inferno, e ritorno.
Il tentativo di candeggiare lenzuola sporche, strofinare a lungo tentando di far riaffiorare il bianco. La resa dei conti con la giovinezza che è passato, colpo in canna, ma senza la freddezza necessaria a premere il grilletto. La roulette gira, la pallina corre veloce, il giocatore vince o perde. Il banco vince, sempre.
A voi La Sconfitta. La sconfitta di un ladro di fuoco.
Di Mauro Massari
In copertina: Forever tired by Vaxo Lang

