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Il demone dell’analogia #82: Parigi

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».

Mario Praz

 

 


PARIGI

La mia Parigi è una terra ove i crepuscoli
sfumano in accese notti, nere e dorate;
là dove ancor freddo è il fiore dell’alba;
ah ma le strade odorose, le notti dorate!
Ciglia di donne, minute ciocche di capelli,
un nasino grazioso e curvo come una conchiglia,
la bocca scarlatta una ferita, un velo beffardo:
ombre – prima dell’alba – di spettrale bellezza!
Così ogni donna, con occhi imploranti
o con amorosi e seducenti sguardi,
si dona, lei che è una rosa, e reclama
un luogo di rosa tra i nostri ricordi.

PARIS
My Paris is a land where twilight days
Merge into violent nights of black and gold;
Where, it may be, the flower of dawn is cold:
Ah, but the gold nights, and the scented ways!
Eyelids of women, little curls of hair,
A little nose curved softly, like a shell,
A red mouth like a wound, a mocking veil:
Phantoms, before the dawn, how phantom-fair!
And every woman with beseeching eyes,
Or with enticing eyes, or amorous,
Offers herself, a rose, and craves of us
A rose’s place among our memories.

 

Poems di Arthur Symons (traduzione di Davide Zizza)

 

Era, eri, ero Parigi

La Luna fra la nebbia ci scrutava
in una notte cerea, trasparenza oppressa di profili e stelle
così lontana da quei paradisi, li chiamavano Campi Elisi
i regni dove sogni di pioggia non ci bagnavano.

Ora è il reale, purezza perduta
ambiguo ricordo umido di fumi;
commoventi e disturbanti
annaspano fra i lumi miriagrammi di ricordi.

A domandarmi se vivi quando infanghi il carnale
ricalco d’impronte inesauste saperti dove non sei;
non so più coniugare una voce del verbo detta errare
senza sbagliare
senza domandarti ogni notte di fuggire per restare
ma era il nettare dei tuoi prodigi
mi convinceva che solo a Parigi potevo somigliare.
O finalmente amare.

Da  Il vento del vanto di Giulia Bocchio

IL CIGNO
A Victor Hugo
I
Penso oggi a te, Andromaca: quel così triste e vile
rivolo in cui un dì ti specchiasti commossa,
nel fulgore del tuo cordoglio vedovile,
quel falso Simoenta che il tuo piangere ingrossa,
d’un tratto ha fecondato la mia fertile mente,
passando io per il nuovo Carosello. È cresciuta,
Parigi: è un’altra, ormai (ah, più volubilmente
del cuore d’un mortale una città si muta!);
e io solo in ispirito quel campo di baracche
rivedo, e l’erbe, i mucchi delle colonne cieche,
i macigni chiazzati di verdognole zacchere,
i bazar dalle ingombre luccicanti bacheche.
Là, dove s’attendeva già un serraglio, un mattino
vidi, nell’ora in cui il Lavoro si desta
sotto un cielo lucente e freddo, e lo spazzino
alza nell’aria tacita una fosca tempesta,

vidi un cigno che, evaso dalla gabbia, sfregava
con i piedi palmati le scabre selci, e tutto
il candido piumaggio al suolo trascinava;
il becco protendendo a un rigagnolo asciutto,
bagnava nella polvere inquietamente l’ali
e diceva, il bel lago nativo rimpiangendo:
«Acqua, non piovi, dunque? folgore, e tu non cali?».
Questo infelice io vedo, mito strano e tremendo,
talora, come l’uomo d’Ovidio, verso il cielo
azzurro, verso il muto implacabile scherno
del cielo azzurro, torcere dal collo il capo anelo,
quasi a Dio rivolgesse un rimprovero eterno!
II
Parigi è un’altra, ma la mia malinconia
non cangia, e in ogni cosa – vecchi sobborghi o insigni
palazzi, pietre o travi – scopro un’allegoria;
e i miei cari ricordi pesan come macigni.
Così dinanzi a questo Louvre torna, e m’opprime,
l’immagine del cigno, del mio gran cigno bianco
dai gesti di demente, ridicolo e sublime
come gli esuli, morso da un cruccio avido il fianco;
e a te ripenso, Andromaca, che sogni genuflessa
presso un sepolcro vuoto, strappata via dal senso
d’un gran sposo per essere dall’empio Pirro oppressa:
ahimè, vedova d’Ettore e consorte d’Eleno!
Penso alla negra scarna che la tisi consuma,
e che con occhio torno, andando nella mota,
ricerca dietro il muto immenso della bruma
i superbi palmizi dell’Africa remota;
a chiunque ha perduto ciò che non si ritrova
mai più, mai più! agli esseri, di lacrime nutriti,
che, generosa lupa, l’Angoscia allatta e cova,
ai magri organi simili a fiori inariditi!
Così nella foresta dove esiliar mi voglio
soffia un vecchio Ricordo nel grande corno ognora!
Io penso ai marinai scordati su uno scoglio,
ai prigionieri, ai vinti, ad altri, ad altri ancora!

LE CYGNE

A Victor Hugo
I
Andromaque, je pense à vous! Ce petit fleuve,
Pauvre et triste miroir où jadis resplendit
L’immense majesté de vos douleurs de veuve,
Ce Simoïs menteur qui par vos pleurs grandit,
A fécondé soudain ma mémoire fertile,
Comme je traversais le nouveau Carrousel.
Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville
Change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel);
Je ne vois qu’en esprit, tout ce camp de baraques,
Ces tas de chapiteaux ébauchés et de fûts,
Les herbes, les gros blocs verdis par l’eau des flaques,
Et, brillant aux carreaux, le bric-à-brac confus.
Là s’étalait jadis une ménagerie;
Là je vis, un matin, à l’heure où sous les cieux
Froids et clairs le travail s’éveille, où la voirie
Pousse un sombre ouragan dans l’air silencieux,
Un cygne qui s’était évadé de sa cage,
Et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec,
Sur le sol raboteux traînait son blanc plumage.
Près d’un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec
Baignait nerveusement ses ailes dans la poudre,
Et disait, le coeur plein de son beau lac natal:
«Eau, quand donc pleuvras-tu? quand tonneras-tu, foudre?»
Je vois ce malheureux, mythe étrange et fatal,
Vers le ciel quelquefois, comme l’homme d’Ovide,
Vers le ciel ironique et cruellement bleu,
Sur son cou convulsif tendant sa tête avide,
Comme s’il adressait des reproches à Dieu!
II
Paris change! mais rien dans ma mélancolie
N’a bougé! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
Aussi devant ce Louvre une image m’opprime:
Je pense à mon grand cygne, avec ses gestes fous,
Comme les exilés, ridicule et sublime,
Et rongé d’un, désir sans trêve! et puis à vous,

Andromaque, des bras d’un grand époux tombée,
Vil bétail, sous la main du superbe Pyrrhus,
Auprès d’un tombeau vide en extase courbée;
Veuve d’Hector, hélas! et femme d’Hélénus!
Je pense à la négresse, amaigrie et phtisique,
Piétinant dans la boue, et cherchant, l’oeil hagard,
Les cocotiers absents de la superbe Afrique
Derrière la muraille immense du brouillard;
A quiconque a perdu ce qui ne se retrouve
Jamais, jamais! à ceux qui s’abreuvent de pleurs
Et tètent la douleur comme une bonne louve!
Aux maigres orphelins séchant comme des fleurs!
Ainsi dans la forêt où mon esprit s’exile
Un vieux Souvenir sonne à plein souffle du cor!
Je pense aux matelots oubliés dans une île,
Aux captifs, aux vaincus !… à bien d’autres encor!

 I fiori del male di Charles Baudelaire (traduz. di G. Bufalino)

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