
Nella vasta produzione di Alessio Torino, dall’esordio con Undici decimi (Pequod) valso il Premio Bagutta Opera Prima, ai romanzi usciti per minimum fax Tetano (2011), Urbino, Nebraska (2013), Tina (2016), e per Mondadori Al centro del mondo (2020) e Cuori in piena (2023), l’adolescenza si rivela il terreno d’elezione per indagare l’incertezza, lo smarrimento, la necessità di individuare il proprio posto nel mondo tra desideri, sfide, competizione, vendette e segrete fantasie sulla fine.
L’Appennino umbro-marchigiano si conferma lo scenario ideale per le storie di Alessio Torino. Nel suo ultimo romanzo, Cuori in piena, elegge Pieve Lanterna (in continuità con Tetano per i luoghi e le vicende del protagonista), un borgo fittizio appartenente a un territorio segnato nel 1944 da rastrellamenti, esecuzioni, bombardamenti, che portarono nel decennio successivo all’emigrazione massiccia in Lussemburgo.
Quel piccolo paese che negli anni precedenti alla caduta del Muro di Berlino considerava il Partito Comunista un’istituzione e a cui affidava l’organizzazione di tutte le ricorrenze principali in attesa della Festa dell’Unità a Ferragosto con il Polentone, si rivela il luogo ideale per accogliere il giovane Corsi, che trascorrerà nel paese le vacanze estive, a casa di sua nonna. I luoghi d’infanzia di suo padre celano efferatezze e segreti dietro l’apparente immobilità che il dodicenne romano arriverà a scalfire in un crescendo di tensione e sconcerto.
Su quell’estate della fine degli anni Ottanta grava la morte dell’undicenne Andrea Gori, affogato l’anno precedente nelle cascate delle Caldare, nel Burano, un dramma che porterà il padre Arcangelo a lambire la follia e a essere inviso dalla comunità che lo accuserà di aver avvelenato un cane per vendicarsi delle umiliazioni subite negli anni. “Arcàcciolo” finirà per passare le giornate nei boschi e le notti alla Cava Rossa, a cercare risposte tra fossili e minerali e a offrire il pollo del Conad in pasto alle aquile, isolandosi da una comunità che continua a tradirlo.
L’opera tratteggia le inibizioni del protagonista di fronte all’incapacità di gestire un sentimento che lo sovrasta, rese nei silenzi, nell’assenza di risposte di fronte alle continue allusioni alla sua famiglia, nell’incapacità di esprimere i propri dissidi interiori, nel peso di un giuramento fatto al padre (il divieto di tuffarsi alle Caldare). Quella promessa peserà nelle sue scorribande con Angradi, Giorgio e Achille Spada, tra ore passate all’Argine dei Lupatelli in sentieri abbacinanti per la mancanza di pioggia, tra le acque gelide di Teria, o sulla Bmx mentre le comitive di turisti assaltano il corso del Burano. I pomeriggi inquieti segnati dai turbamenti del primo amore resi in gesti minimi che misurano l’incertezza – la mano presa, il sorriso scambiato pedalando vicini verso il fiume – restituiscono euforie e sofferenze, attese e confusione, con l’apice nella goffa iniziazione sessuale al quarto piano di un edificio abbandonato.
“Era il primo amore della mia vita. Era proprio come un cane nel giorno in cui scopre la neve e non si raccapezza più di niente”.
Il racconto del sentimento amoroso non è però avulso dalle influenze del contesto in cui è nato: il senso di possesso nei confronti della ragazza risente di dinamiche triviali, patriarcali, a cui il protagonista non sa opporsi.
Il ritratto sociale che prende forma nella narrazione restituisce nella dimensione del paese l’immagine di una comunità chiusa, sottilmente razzista al di là delle apparenze, che giudica e condanna il diverso secondo il principio della vergogna: dai giostrai per l’onta del bagno nella fontana del borgo a un padre affranto, ritenuto pericoloso e sospetto per il suo modo di vivere il lutto. Una realtà feroce prende forma attraverso le storie che si innestano sulla principale, composta dai drammi celati dietro un’ottusa barbarie, come quella di Semolino, l’alcolizzato e violento padre di Achille Spada capace di eleggere una sedia del bar come l’unico punto di osservazione del mondo per le sue arringhe; di Mariano Brunori, nel cui passo “c’era tutto il suo fregarsene delle convenzioni”; del Criceto, guardato con sospetto perché amico di Arcangelo Gori; o della mite e feroce Ines del forno, portavoce di “qualcosa di dominio pubblico e al contempo strisciante, come capita nei paesi”.
Il bizzarro campionario allestito sulla pagina compone un peculiare microcosmo feroce e umano, reso anche sul piano formale e linguistico nella caratterizzazione di figure incapaci di immaginare una personale redenzione. Gli indugi e le evoluzioni della prosa invitano il lettore a compiere un superamento rispetto alle mere vicende narrate, rintracciando nello sguardo di un ragazzo che incede incerto nel suo presente la possibilità di smantellare la complessità incomprensibile del mondo adulto.
Le insistenze descrittive rendono particolari minimi portatori di significati assoluti nel rilievo assegnato ai luoghi.
L’estrema attenzione riservata alla rassicurante dimensione domestica traduce la necessità di un riferimento, di una certezza nel furore e nello smarrimento, nella convinzione illusoria di esercitare il controllo di sé.
Il preludio al dramma che incombe è reso nelle immagini della vecchia casa dalle persiane chiuse con il bagliore del mattino, nel succedersi, in un crescendo di intensità, di sequenze su rocamboleschi pomeriggi trascorsi al fiume, al luna park ancora chiuso o in un palazzo in costruzione diventato un ritrovo abituale soprannominato Grand Hotel Tetano, “un monumento all’adolescenza ma anche alla depressione economica dell’entroterra appenninico”.
L’inquietudine oscura che attanaglia il protagonista si palesa nei rituali in cimitero con la nonna nel giro di saluti a parenti semisconosciuti che generano in lui un desiderio di fuga. “Tonino il Roscio con gli attrezzi e la calce mortuaria. Il pallone firmato sulla tomba di Andrea Gori. Il padre di Andrea Gori che si infilava nel cimitero di notte. Andrea Gori che guardava dalla foto. Il nonno che guardava dalla foto”.
L’elemento selvatico si rivela fondamentale nella narrazione, tra continue dicotomie che richiamano nelle descrizioni naturali il senso del limite, la pienezza e il declino, l’impressione di una graduale deriva in un generale impoverimento culturale e sociale. Il presagio nascosto dietro una calma apparente tra le rovine di un mondo rurale ricorda le suggestioni del precedente Al centro del mondo, dove la sensazione di abitare un territorio incontaminato dall’orrore e dall’empietà si scoprirà illusoria.
Il contatto con gli elementi nel rapporto con una natura che si mostra indifferente alle sorti del singolo trova nel legame con l’acqua e nel riferimento figurato a creature inumane dalle fattezze animali e vegetali un’ulteriore continuità tematica nel raccontare una perenne estraneità al noto, connessa alla riflessione sull’identità e sul vincolo dell’appartenenza a un luogo. A confermare la matrice aperta dell’indagine dell’autore sull’alienazione che caratterizza anche buona parte dei romanzi precedenti, è l’elezione di figure ai margini, i non allineati alle comuni norme sociali. Gli irregolari delle storie di Alessio Torino sono preda di uno strazio inestinguibile, convivono con un senso di abbandono e di tradimento, con il peso del giudizio altrui nella costante derisione da parte di una comunità incapace di cogliere le proprie responsabilità in quei fallimenti individuali.
Attraverso un fitto groviglio di storie, Alessio Torino si interroga sul doloroso rapporto con la terra dell’esilio nel porre a confronto le esistenze di chi ha scelto di andarsene e chi di restare. Lo sguardo dell’autore indaga il rapporto con la memoria, il fardello del passato che grava nello scandagliare i reperti di un tempo remoto tra frammenti di verità e favorisce scoperte su quella realtà asfittica che generano una vertigine nel credere di lambire l’abisso.
Le descrizioni iperrealistiche si affiancano a allegorie, stacchi lirici, parentesi oniriche e rimandi al mito. Il costante riferimento alla leggenda di San Giorgio e il drago è emblematico nell’illuminare il dramma della comunità, comprenderne il senso e provare a scorgere un’idea di salvezza.
Lo sviluppo delle vicende nel tempo di un’estate, con un epilogo a trent’anni di distanza funzionale a raccontare i sentimenti del distacco, il dissidio interiore e una possibile via di liberazione da traumi radicati, si traduce anche sul piano formale in un’espressività densa di simbologie e pervasa dalla percezione di una finitezza nervosa, di una caducità resa in una luminosa e al contempo tetra sospensione.
In un luogo segnato irrimediabilmente dalle tensioni del dopoguerra e dall’emigrazione massiccia, dagli abbandoni e dai ritorni fugaci, il ricorso alla memoria pare l’unico attracco certo, in attesa di rivelarsi un abbaglio in grado di accentuare divisioni interne e amplificare lo stigma del diverso e della vittima. Il ruolo assegnato al ricordo assume una valenza decisiva in un’opera che non si riduce alla raffigurazione di una nostalgia indefinita e vuota, ma che elegge nel ricorso alla memoria individuale e collettiva lo strumento per maneggiare l’irrisolto e favorire una tregua tra passato e presente. Con Cuori in piena Alessio Torino compone un elogio del margine che nel muoversi tra la meraviglia e l’orrore lascia interrogativi sull’insensatezza del vivere, sull’abbaglio di ogni euforia, sul furore adolescente e l’annientamento adulto del sogno, sulla possibilità di riappacificarsi con un luogo capace di generare attrazione e repulsione, custode di rivelazioni su un cuore non fortificato, come dice il re di Danimarca a un addolorato Amleto.
“Uno spirito impaziente. Un giudizio assai rudimentale e incolto. Eppure, mi chiedo, provate fino all’ultima tutte le maschere e poi gettatele via perché nessuna combacia, che ruolo ci rimanga se non quello di Amleto”.
Alice Pisu
