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Il suono della catastrofe: My favorite things, Sergio Baratto (di Omar Suboh)

Ci sono libri che si muovono come sonnambuli, mentre tutti gli altri dormono, e percorrono claudicanti i sentieri che conducono verso il mistero, immerso nel buio più totale. Sullo sfondo si sente una musica viscerale, suonata da musicisti d’avanguardia, stroncati dalla critica e riabilitati postumi. La stessa vibrazione emanata dalle note di John Coltrane, il cui capolavoro My favorite things è anche ispirazione per il titolo di questo strano libro di Sergio Baratto – già redattore della rivista Il primo amore –: «Ma il sax e la batteria continuavano imperterriti ad azzuffarsi, inseguendosi a vicenda, lanciandosi in vortici di suoni sempre più simili a detonazioni, mentre il contrabbassista pulsava in sottofondo e il pianista faceva piovere grappoli di note taglienti come pezzi di ghiaccio». 

 

Domenica 2 dicembre 1962. Franco Eugenio Mozzati si trova a partecipare, ventunenne, imbucandosi grazie all’amico Alberto che lo fa entrare al Teatro dell’Arte dove lavora, a un concerto epocale. A suonare è proprio lui: il sassofonista di Miles Davis, membro del leggendario ensemble con cui il trombettista aveva suonato nel celebrato e disco di culto Kind of blue. Ma i tempi sono cambiati, e anche la musica cambia. Si fa fatica a riconoscere, e a capire, quello che Coltrane sta realizzando sul palco e nelle sue incisioni: si parla di «farneticazioni insensate», «esercizi nichilistici», di «anti–jazz»; quello a cui Franco sta assistendo è molto di più: è una Ascensione. «Era come un caos che contorcendosi su se stesso cercasse di darsi una forma. Materia sonora in creazione. Rumore nell’atto di partorirsi come musica». La descrizione evocativa del concerto prosegue con scintillanti visoni, suoni che si possono ricreare nella mente del lettore che, come Gaustìn che salta tra le epoche in Fisica della malinconia di Gospodinov, si muove inizialmente spaesato, disorientato nella scompaginazione di coordinate spazio–temporali di cui Baratto si fa beffe, trascinandoci al di là delle dimensioni intese ed esperite: «un presente senza tempo […] costeggiando da spettatore sonnambulo la propria esistenza».

Milano, mercoledì 3 settembre 1952. La data in cui tutto ebbe inizio e, come un Uroboro, fa coincidere il principio con la fine di tutti gli eventi: la Storia che si ritorce su sé stessa, cannibalizzandosi. Siamo nell’immediato dopo guerra quando un gruppo di ragazzini, nei pressi di Porta Romana – all’epoca periferia industriale, oggi zona riqualificata e abitata dalla nuova borghesia in ascesa –, giocano e si rincorrono superando la vecchia fonderia e perdendosi tra i prati e i campi. L’imprevedibile è dietro l’angolo – perché all’epoca, era ancora possibile imbattersi in ordigni inesplosi –, e la deflagrazione uccide uno di loro, il cui corpo dilaniato nel vortice trascina con sé un braccio catapultato tra le mani di Franco, sopravvissuto e illeso: ma, forse, segnato irreversibilmente dall’accaduto.

L’espediente narrativo è funzionale a proiettarci lungo i tre filoni principali che fanno da perno strutturale del libro, la cui architettura dispiega le proprie molteplici facce come un cristallo sfavillante – o è «solo lo scintillio di una medusa di luce» –, così come tre sono le parti in cui è diviso il testo. Dopo il folgorante incipit di Porta Romana, seguiamo Franco nel suo evolversi lungo gli anni e, come un flashback proiettato nel futuro, lo ritroviamo anziano, forse affetto da demenza, mentre fa a pugni con i demoni del suo passato e il male più grande di tutti: il dolore per la malattia di Amina, la nipote. Ogni sogno è un affacciarsi nell’abisso, e la storia prosegue con Franco negli anni Settanta divenuto ingegnere minerario in Turkmenistan – «l’ombelico del Karakum» –, e, come un racconto dentro al racconto, ascoltiamo le voci dei personaggi che incontra nell’arco di una decina di anni: Gubko,  Maksat Kurbanovič, e sono storie di sangue, di trivellatrici, di case sventrate, di guerra e ancora dolore per le continue perdite. Baratto riesce nell’impresa – anche in virtù della sua formazione accademica come russista –, un po’ come William Vollmann in Europe Central, a far rivivere il coro polifonico di quelle vite, giustapponendo il caos a un unico, progressivo, traboccamento e stravolgimento di  scene e situazioni che, a un lettore distratto, potrebbe risultare un autoreferenziale virtuosismo ma, a ben vedere, ogni tassello narrativo è lo svelamento di un puzzle che restituisce ai ricordi un incedere di wagneriana memoria nel suo mescolare disarmonia e sprazzi di vita, taglienti come lo scorrere di un «fiume di cristallo».

My favorite things (minimum fax) è la storia di una redenzione ricercata, verso un senso di colpa metafisico che tutto condiziona, allo stesso modo in cui Hermann Broch, nel secondo volume de I Sonnambuli, fa muovere August Esch lungo la scacchiera di un mondo in frantumi, la cui svalutazione di tutti i valori consolidati si accompagna alla voglia di riscatto, e così anche il sentimento di felicità può essere ritrovato, un sentimento così luminoso che, scrive Broch, «sotto le palpebre abbassate dell’insonne, l’oscurità prende a brillare». Così come la tragedia che coinvolge Simona e sua figlia, Amina, costeggia l’abisso per scavare oltre quel fondo senza fondo, e aprirsi – come nella terza parte del romanzo – al regno del Sogno: quello dove anche gli oggetti inanimati prendono vita, e le malattie sono personaggi che entrano ed escono dal circo dell’esistenza. Il T–Rex, feticcio reificato da Franco nella volontà incontenibile di afferrare la nipotina amata e non lasciarla andare via, per proteggerla dai mostri: «Il T–Rex li azzanna, li strappa via. Libera l’angelo. Le due creature non sono più che un unico groviglio in cui non si distingue più l’ombra della luce dalla luce dell’ombra».
Vediamo scorrere il film del Novecento e il crollo di tutte le aspirazioni dei suoi protagonisti, come nella celebre sequenza dei giorni del G8 del 2001, quando Simona riesce a fuggire prima che la valanga di violenze inaudite trascini con sé tutto quanto, e gli ideali che muovevano i suoi compagni si sbiadissero lentamente offuscandosi nell’oblio del proprio privato, ripiegati su sé stessi. E ancora, è cronaca di una catastrofe annunciata, come quella che coinvolse il reattore numero 4, rilasciando la nube di materiale radioattivo nell’atmosfera e la portata delle sue radiazioni cristallizzata nella memoria collettiva come il disastro di Černobyl’.
Ogni elemento si rincorre delineando una musica interiore, nascosta tra le pagine di questo spartito che, a ogni svolta spazio–temporale, sembra esplodere per tentare disperatamente di avvicinarsi sempre di più al mistero, quello cercato e, forse, ritrovato da Franco dall’inizio degli eventi, nel loro ritmato precipitare.

 

         Omar Suboh

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