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Infinite quest: Andrea Donaera e tutte ‘Le estreme conseguenze’ (una rubrica a cura di Giulia Bocchio)

Domanda e risposta: due entità complementari, eppure l’una genera l’altra, in un interscambio potenzialmente infinito, mai esausto, mai uguale a se stesso. La sintesi dell’incontro, il binomio preferito della conoscenza. E della curiosità. “Intervista” è solo il nome che ne racchiude l’atto e l’intenzione ma, in questa rubrica, protagonista sarà il dialogo – l’incontro – lo scambio. 
Esseri umani che hanno una visione e che si sono imbattuti nel proprio labirinto personale. Perdersi significa anche attraversarlo. E magari raccontarlo.
Creatività, arte, progetti, riflessioni, esperienze e uno sguardo rivolto al futuro, in quell’orizzonte  magnetico che è la parola.

Giulia Bocchio

 

Torni ai bordi, dopo un po’,
ti viene di nuovo da pisciare:
c’è qualcosa che non va come deve:
in te, con te, per te:
e nessuno – neanche tu – ti crede.

 

C’è qualcosa di quotidiano e di (s)perduto nelle poesie di Andrea Donaera. I testi che compongono la raccolta Le estreme conseguenze (Le Lettere), sono folgoranti. I versi hanno un ritmo musicale e allo stesso tempo stridono, producono suoni che ti riportano indietro, in un luogo imprecisato, che non appartiene davvero a nessuno, ma che esiste nella squisita virtù del dettaglio: c’è il rumore dei denti di qualcuno, il respiro pesante, il troppo cibo mal digerito, le feste in famiglia, l’alito di una vita claudicante.
L’onesta demolizione del sussiego.
Si tratta di una scrittura che cova l’estensione narrativa di ogni poesia, perché ognuno di questi testi potrebbe trasformarsi a sua volta in un racconto, in un romanzo addirittura, dove tutto si mescola, dove tutto ti ubriaca e ti s-finisce…

 


Giulia Bocchio: Andrea, bentrovato. Le estreme conseguenze (Le Lettere) è una raccolta poetica molto densa, all’interno della quale ricordo, quotidianità e un certo senso di inettitudine dettano un ritmo fascinoso e angosciante, claustrofobico a tratti. I protagonisti senza volto, che abitano i tuoi versi, rivelano tutta la complessità stratificata che si cela dietro agli ultimi, anche una persona ingobbita, con gli occhi fissi su un tavolino arrugginito, inconsapevole del presente, della tecnologia, delle mode, racconta un mondo di dolore potenzialmente universale. Ogni specchio che il loro alito appanna è un riflesso. Da dove nasce questa tua ispirazione?

Andrea Donaera: Ho cominciato a comporre questi testi nel 2017, mentre scrivevo il mio primo romanzo Io sono la bestia. Negli anni l’abitudine di affiancare la scrittura di poesie a quella dei romanzi non si è interrotta: in un documento word senza nome, fino al 2022, sono andati ad accumularsi questi testi, dove andavo a inserire gli aspetti più intimi, biografici e personali che invece nei romanzi non avevano spazio (trattandosi di opere di finzione). Permane anche in questo libro una sorta di allestimento di fiction, con personaggi inventati e vicende di fantasia che si affastellano, ma al contempo rispondono a uno sguardo più privato attorno a quelle dinamiche umane estreme, marginali, intrapsichiche che provavo a narrare nei romanzi. Si tratta dunque di un’esondazione degli strati emotivi che provavo a raccontare con la narrativa: nella poesia facevo sgorgare quegli elementi in un’ottica più interna, più mia, più dolorosa forse, dunque.

G.B.: Ci sono due poesie in particolare, all’interno della tua raccolta, che mi hanno particolarmente colpita e che conservano qualcosa di folgorante e di agonico, mi riferisco a Le ricostruzioni e Scatologia. L’uso della seconda persona singolare trascina chi legge fra le piaghe di coloro che descrivi. Trasforma il punto di vista. Possiamo osservarne lo sporco sotto le unghie e scoprire che è poi il nostro. C’è una componente molto corporea fra i tuoi versi. Sono come chiamati a raccolta tutti e cinque i sensi…

A.D.: Mi interessa molto provare a creare testi immersivi anche in poesia. Voglio che le persone possano partecipare alla lettura, senza dover faticare alla ricerca di significati tra parole confuse composte in modo criptico (come troppo spesso accade in poesia: una poesia che a me non piace molto). Dunque uno degli sforzi principali, quando scrivo, è far sì che chi legge si ritrovi in un mondo letterario secondario che ha molto a che fare con il mondo dell’esperienza primario: lo sento come un compito della letteratura – anche della poesia, che a mio avviso non può rinunciare a questo mandato con la scusa di porsi come un’espressione vagheggiante, intima ecc. …

G.B.: Accennavo al ritmo dei tuoi versi, nel libro in effetti compaiono anche alcuni iconici riferimenti musicali come il brano dei The Cure Lullaby, l’album Diary of a Madman di Ozzy Osbourne, i Nevermore. Qual è il tuo rapporto con la musica, specie quella metal?

A.D.: La musica è una componente fondamentale di ogni mio giorno. Passo la maggior parte del mio tempo con della musica in sottofondo – mentre lavoro, mentre cammino, mentre faccio qualsiasi cosa. Passo molto tempo da solo (volente o nolente), e la musica crea una barriera contro il silenzio che rischierebbe di divenire disperante e insopportabile. La mia musica preferita, da quando ho circa 13 anni, è la musica metal – che contiene in sé una varietà infinita di sottogeneri, formule, possibilità. Si tratta di un tipo di musica così vasto che al suo interno trovo tutto ciò di cui ho bisogno. E in me è così tanto radicalizzata la presenza di questa musica che non può non intersecarsi con qualsiasi altra attività, compresa quella della scrittura.

G.B.: E poi c’è l’enigma del futuro: che ne sarà di noi, dell’essere umano, fra cento, mille anni? Come lo immagini, come lo (de)scriveresti?

A.D.: Purtroppo mi costa molta fatica riuscire a immaginare un futuro – o un domani generico. Credo sia un fatto generazionale: non avere mai lavori veri, non avere mai definizioni sociali precise, non riuscire a costituire nulla di realmente stabile: se a questo si sommano anche riflessioni sul futuro mi diventa insopportabile. Per questo, forse, ogni cosa che scrivo ha più a che fare con il disperato desiderio di ricomporre un passato, riformulandolo come bello: un rifugio nel quale entrare mentalmente per potersi escludere da ogni presente e da ogni futuro.

 

Infinite quest by Giulia Bocchio

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