“Luka pianse e si sentì stanco. Si girò verso il buio della carrozza. Alla fine si addormentò. I suoi sogni furono inconsistenti e sudati, nient’altro che immagini. Le pianure aride attorno a Lapvona, certe fattorie vuote che aveva oltrepassato, i vermi morti sul terreno duro e crepato, un pizzicore in fondo alla gola. Si svegliò dispiaciuto di non essere morto nel sonno. Era un lusso morire nel sonno, pensò. Ovviamente Dio non l’avrebbe fatta così facile. Continuò a ripeterselo mentalmente – Dio non la farebbe così facile – mentre dava un po’ d’acqua al suo cavallo e rimontava in sella”.

La ricerca dell’effetto shock, per un autore, è sempre un’arma a doppio taglio. Una scorciatoia per lo stomaco dei fruitori talmente ovvia che il rischio è quello di abusarne e collocarla dove non servirebbe, depotenziandola. L’ultima fatica letteraria di Ottessa Moshfegh, Lapvona (Feltrinelli, Trad. di Silvia Rota Sperti), in parte conferma e smentisce questo paradigma.
La trama si svolge nell’arco di un anno e racconta una porzione della vita di Marek, figlio deforme di un pecoraio. Entrambi, padre e figlio, vivono nel paesino che dà il titolo al libro, cronologicamente collocato in un finto medioevo dai tratti surreali e grotteschi (o forse, con uno sforzo di immaginazione, in un futuro distopico) e dalle vicende infami, prive di risvolti umanamente confortanti.
La durezza di Lapvona risiede – oltre che nelle singole immagini – anche nel montaggio, poiché l’autrice alterna scene dal ritmo incalzante a lunghi momenti di tensione e feroci controfinali in punta di capitolo. È proprio uno di questi controfinali a fare da spartiacque, proiettando il lettore in uno scenario completamente diverso da quanto conosciuto in precedenza.
La seconda parte del romanzo, infatti, è ambientata nel lussuoso castello di Villiam (forse un’assonanza con il termine villain, ovvero il cattivo della storia), signore e padrone del paese, ed è in gran parte dedicata alla satira sociale. Sia in maniera implicita – con parallelismi insistiti tra scene di carestia e rappresentazioni della smodata opulenza della corte di Villiam – sia in passaggi più didascalici come questo: “Grigor si guardò attorno. Nulla di ciò che vedeva – il salone, gli ornamenti, il cibo, lo spettacolare abito natalizio del signore – gli ispirava alcunché. Non era benevolenza divina, ma l’abbondanza di un ladro: Villiam non aveva faticato per le sue ricchezze. L’avevano fatto gli abitanti del villaggio.
(…) -Come mai siete così ricco e noialtri così poveri?- chiese Grigor”.

Moshfegh, che in un’intervista al New Yorker ha raccontato di aver lavorato in un punk bar di Wuhan dalle pareti color “rosso comunista”, infarcisce questa seconda parte di sottotesti dal sentore marxista che creano uno stacco rispetto alle vicende ambientate a Lapvona. Se la prima porzione risulta schietta e semplice nella sua violenza, la seconda sembra nascere piuttosto dall’esigenza di trasmettere un messaggio. Il castello di Villiam è collocato verticalmente rispetto a Lapvona – quasi un rimando visivo al Leviatano di Hobbes – e da quella posizione il tiranno sequestra l’acqua che sarebbe riservata agli abitanti del paese. È in questo castello che viene ambientata una serie di scene che risultano forse un po’ troppo lunghe e fuori contesto, rallentando la lettura sul finale.
Il tema delle disuguaglianze sociali si lega a un altro, ancora più dominante all’interno del racconto: quello religioso.
“Lapvona era un posto speciale, conosciuto per il suo terreno fertile e il clima mite. E i suoi abitanti erano persone gentili e generose, che spesso ospitavano i visitatori nelle loro case e offrivano volentieri le loro provviste. Potevano permetterselo perché il loro signore era un uomo giusto e timorato di Dio”.
La religione ha, in Lapvona, quel ruolo di oppio dei popoli teorizzato da Marx: Villiam se ne serve per sottomettere i lapvoniani e la pone al centro della sua propaganda, supportato in questo da uomini di chiesa farlocchi residenti alla sua corte. Allegorie di stampo religioso, inoltre, permeano l’intero romanzo, con continui riferimenti ad eventi biblici (tra cui la storia di Caino e Abele) e citazioni nascoste anche nei nomi dei personaggi (lo stesso padre di Marek si chiama Judas).
Recensito da Spectator come “straordinariamente violento e disturbante” e dal Guardian come un “carnevale del grottesco”, Lapvona risulta sì disturbante, eppure innocuo. Le scene più crude – quasi tutte concentrate nella prima parte del romanzo – vengono riportate con un tale distacco e assenza di giudizio da uscirne normali, appiattite. Il modo di descrivere le dinamiche erotiche tra i personaggi, per esempio, quasi mai completamente prive di elementi di abuso (come l’atto che ha dato vita al protagonista Marek, o come l’ambiguo rapporto tra lui e Ina, l’anziana balia cieca), è talmente neutro da impedire loro di arrivare in tutta la loro durezza. Come se il lettore venisse messo nelle condizioni di assumere lo stesso sistema di valori di Lapvona, un universo tribale ed estraneo a qualsiasi sovrastruttura morale, dove la sofferenza è virtù agli occhi di Dio e tutto il resto è funzionale al soddisfacimento dei propri istinti più bassi e biechi. Moshfegh ci offre una metafora della società odierna, veicolata dalla stessa fredda ironia del suo Il mio anno di riposo e oblio eppure drasticamente diversa nei contenuti e nel ritmo. Una sorta di realismo magico duro e tagliente al servizio di una narrazione che non offre premi di consolazione, che non censura né esaspera le atrocità del caso. Questo perché la natura disturbante della prosa di Moshfegh, e di questo romanzo in particolare (il primo, tra quelli dell’autrice, a non essere scritto in prima persona ma in terza), non somiglia all’ultraviolenza di Bret Easton Ellis o agli incubi di Stehphen King, proprio per questa sua neutralità. È il ritratto ben fatto di una società retta da leggi naturali e, in quanto tale, al di là dei concetti di male e di bene. Questo fa sì che della lettura di Lapvona non lascino il segno le immagini violente quanto, piuttosto, la parte deputata a far riflettere; la parte che, a distanza di tempo, crea le radici più profonde.
Di Maria Oppo
