
Mi dissero che c’era questo scrittore bravissimo, Antonio Pizzuto, passato nel dimenticatoio a fronte di uno stile sperimentale e piuttosto articolato. Pizzuto è perlopiù sconosciuto, dato che aveva un modo talmente tanto ingarbugliato di raccontare in prosa che non lo leggeva nessuno e fu pubblicato solo da anziano e poi postumo in quello che Simone Bachechi, in “Antonio Pizzuto, ritratto di un irregolare” su minima&moralia, definisce “perverso atteggiamento culturale molto diffuso che vuole che ci si interessi a un autore in modo inversamente proporzionale alla complessità del suo discorso narrativo”. Pizzuto nasce in una famiglia benestante e colta di Palermo da padre avvocato e madre musicista e poetessa, a sua volta figlia di un docente universitario di lettere. Studia nelle migliori scuole del capoluogo siciliano, si laurea in giurisprudenza e poi in filosofia, ma, a seguito di problemi economici, è costretto ad arruolarsi nella Polizia di Stato, dove milita raggiungendo una brillante carriera.
Nel 1930, a Roma, gli viene affidato un incarico nella Polizia Internazionale, ma il lavoro non toglie niente alla sua passione letteraria e riesce a pubblicare, sotto pseudonimo, il romanzo Sul ponte di Avignone.
Dopo diventa questore a Bolzano e poi ad Arezzo, ma decide presto di andare in pensione e si trasferisce a Roma.
Il suo esordio letterario, alla veneranda età di sessant’anni, fu con Signorina Rosina, un volumetto di neanche centocinquanta pagine uscito per la prima volta nel 1956 che non riscosse successo alcuno. Quest’opera (che non può forse essere definita romanzo, almeno non nell’accezione moderna) è composta da infinte trame in cui il personaggio centrale è la Rosina del titolo, che è il rumore di fondo dell’intera storia: una volta è una vecchia moribonda, che poco dopo muore sul serio, un’altra è una donna incontrata per caso al Luna Park, la quale cuce un bottone cadente a(l protagonista?) Bibi, un’altra ancora una perpetua che prepara i pasti per il parroco da cui alloggia lo stesso Bibi, un’altra di nuovo un asino, una nave e un fuoco fatuo al cimitero. Se si potesse riassumere in poche parole la trama dell’opera, si potrebbe dire che è una storia d’amore intorno alla quale gravitano moltissimi personaggi che restano negletti nei contorni dell’opera stessa.
Signorina Rosina, con la sua struttura e la sua sintassi rompe la tradizione del romanzo italiano, già prima delle nostre avanguardie. Ovviamente, questa è una prosa alta, come forse non ce ne sono più, in cui il lettore è parte attiva del processo perché non può distrarsi, bensì deve ragionare per riuscire ad associare fatti e personaggi, dare alla storia una parvenza di linearità cronologica, capire chi fa cosa e chi è chi, come se fossero le parti di un dipinto astrattista, in cui la forma viene prima di tutto, e si fa sostanza dell’opera. Infatti, Pizzuto crea la sua identità nel linguaggio, e qui sta la sua grandezza: non si capisce bene cosa si sta leggendo, o di chi, ma che si tratta di qualcosa di musicale e armonico, e perciò grandioso. In Signorina Rosina c’è ancora un barlume di trama e personaggi, e può essere una valida prima lettura per capire e apprezzare Pizzuto e il suo mondo letterario.
Seguono a questo i più complessi (ma anche più belli) Si riparano bambole [1] e Ravenna, che vanno a formare col precedente una sorta di trilogia, a livello stilistico, ma nei successivi Paginette, Sinfonia e Testamento, l’autore arriva a una narrativa molto personale.
Parlare d’avanguardia, in questo caso, non è corretto, perché Pizzuto è stato non solo un autore originalissimo, ma ha inventato una forma narrativa del tutto nuova che prende le mosse dal suo linguaggio, dalla sua esperienza. Se Omero parlava di Achille come Pelide, da suo padre Peleo, Pizzuto scrive dei suoi personaggi affibbiando loro aggettivi inventati che magari compaiono in un suo romanzo precedente. In più, la sua scrittura è fitta di anglicismi o latinismi e si spinge agli estremi della comprensione. Basti pensare che in Testamento, una delle sue opere più ardite, si arriva all’abolizione del personaggio e alla progressiva rinuncia ai tempi finiti del verbo, in un’acrobazia di stile e prosa che potrebbe dirsi Più Che Sperimentale, se solo Pizzuto non avesse odiato doverle definire, ma sta di fatto che i capitoli si stringono in volume (a volte sono di una sola pagina, in un’operazione che, similmente, fece anche Mangenelli in Centuria) e sono praticamente privi di trama, ma si possono forse incasellare nella tecnica narrativa del flusso di coscienza. Era refrattario a ogni convezione, nelle sue opere usava ibridazioni varie, rivoluzioni stilistiche, aborriva il genere e le spiegazioni (“chiarire significa uccidere”).
Oreste Del Buono, un altro dei suoi critici, diceva che leggere Pizzuto era sprofondare nella sua musica, e che volendo riassumere in una formula la sua forma letteraria e il suo credo estetico, come suggerito dall’autore stesso, si sarebbe potuto assimilare a un “indeterminismo narrativo” che rende, per esempio, principali tutte le subordinate.
Infine, l’ultima trilogia di opere è formata da Pagelle I, Pagelle II e Ultime e penultime [2] , in cui si arriva al parossismo della sperimentazione letteraria (addirittura Pizzuto sopprime molti tempi verbali, preferendo l’uso di infinito, participio e gerundio – creando non poche difficoltà di lettura), dove ogni pagella o racconto è breve o addirittura brevissimo.
Un autore da riscoprire, insomma, perché così non ne fanno più.
Di Chiara Scipioni
Note
[1] Qui l’incipit di Si riparano bambole .
[2] Per capire il genere di prosa utilizzata qui, eccone un esempio: “Tacito allor troppo il mondo negarsi”, dove si vede che la frase è non lineare, il verbo praticamente assente e impersonale.
