Distruggere per creare: dentro l’atelier di Giacometti con Isaku Yanaihara (a cura di Maria Teresa Rovitto)

Yanaihara + Giacometti

Isaku Yanaihara, pensatore, critico d’arte e poeta giapponese si era recato a Parigi nel 1954 grazie a una borsa di studio presso la Sorbona per approfondire le sue conoscenze sulla filosofia esistenzialista. Non immaginava che avrebbe intrapreso un viaggio verso l’ignoto pur restando letteralmente immobile (proprio lui, entusiasta girovago del mondo), né tantomeno di assistere, in qualità di modello eletto, al gesto creativo di uno degli artisti ritenuti all’epoca più strambi e che solo qualche anno dopo avrebbe iniziato a ricevere importanti riconoscimenti: nel 1955 l’Arts Council Gallery a Londra e il Museo Solomon R. Guggenheim di New York gli dedicano memorabili retrospettive, nel 1961 riceve il Premio per la scultura del Carnegie International di Pittsburgh e, l’anno seguente, il Premio per la scultura alla Biennale di Venezia. Altre mostre vengono allestite nel 1965 alla Tate Gallery di Londra, al Museum of Modern Art di New York.
I miei giorni con Giacometti (Giometti & Antonello editori, Macerata 2021) è il resoconto dettagliato che Yanaihara fa di questa sua eccezionale esperienza iniziata con sporadiche visite all’atelier dell’artista che viene folgorato dal suo volto e desidera farne un ritratto.
Il proposito sembra richiedere qualche ora di posa, il tempo di lasciare un souvenir al visitatore, ma i due si annulleranno ben presto nell’opera fino a definirsi l’uno schiavo dell’altro al fine di raggiungere la somiglianza assoluta alla realtà, (“Il suo obiettivo era quello di dipingere il mio volto come gli appariva […] E poi cosa vediamo, in realtà, quando guardiamo qualcosa?”,  “La natura straripa di meraviglia. Al contrario, le forme di espressione che l’uomo può concepire sono estremamente limitate”).
Giacometti prova a trattenere ciò che sfugge e ciò che è invisibile, che si rinnova e che ci espone con violenza ai nostri limiti, (“Oh, Yanaihara, profeta della mia disperazione e della mia miseria. Grazie a te ho scoperto quanto è profonda la mia nullità”).
Il giapponese poserà dal 2 ottobre al 30 novembre 1956, e poi nelle quattro estati successive, assistendo a un atto disperato perché teso verso qualcosa di teoricamente irrealizzabile che condurrà il pittore a cancellare quanto creato alla fine di ogni seduta.

“Proprio quando il ritratto era quasi perfetto, ecco che il mio volto veniva distrutto”.
“Se solo avessi un altro po’ di coraggio, sospirava. Vedo distintamente il tuo volto, ma mi manca la capacità di osare di più […] Cancellare, cancellare tutti i dettagli che ho già disegnato […] Ma se cancello i dettagli, non rimane più nulla e questo mi fa paura”.
“La verità è che non c’è mai una vera e propria fine. Devo dipingere come se tu non dovessi mai abbandonare Parigi […]  Lavorare col pensiero di portare a termine qualcosa è davvero inutile”.

Queste preziose memorie contengono anche intuizioni e riflessioni sull’atto creativo che risuonano come piccole lezioni e consigli applicabili a tutto l’insieme delle forme simboliche. Dice l’artista: “Tentare di rappresentare la realtà che si percepisce con i colori o tentare di esprimerla a parole, in fondo è la stessa identica cosa”.
Lo spazio della pagina come quello della tela è un campo di battaglia. Esercizio continuo a vedere oltre quello che si ha davanti. Del resto scrive Danilo Kiš ne L’ultimo bastione del buon senso (Wojtek Edizioni, 2022): “Chi sono io? Una persona che osserva, non abbiatene a male. Osservo ciò che si può vedere a occhio nudo, e che tuttavia le persone stentano a vedere. Dunque, osservo un’erosione …”

Creare, distruggere e continuare, questo è forse il messaggio più profondo di questo procedere, di questo modo di stare al mondo; continuare e lavorare, credere fino a quando qualcosa di ciò che si va cercando affiora, (“Bisogna aspettare che gli occhi e le orecchie si materializzino da soli”).
Forse ancora più intima è la condivisione dei pensieri del modello, il coraggio di confessare la stanchezza di testa e membra, i dolori avvertiti come per la prima volta in ore infinite di posa, la tensione causata dalla preoccupazione di essere all’altezza della visione dell’artista, la delusione nel vedere il suo volto annullato a ogni seduta, i dubbi intorno all’esilio dalla sua quotidianità per servire l’opera, mentre rinviava il suo viaggio di ritorno in Giappone di settimana in settimana. Yanaihara comprende che il punto non è la realizzazione del ritratto, bensì riuscire a cogliere anche solo un po’ l’essenza della realtà.
Giacometti, amico di André Breton (farà parte del gruppo dei surrealisti dal 1930 al 1935), Jean Genet (che pure scrive Lʼatelier di Giacometti), Sartre, Beckett, Mirò, Picasso o scrittori come Prévert, Aragon, Bataille e Queneau, influenzerà molto il pensiero del filosofo giapponese che riporta in queste pagine le loro conversazioni sull’idea di progresso, morte, scena artistica, delusioni, sesso e amore, ossessioni, politica, denaro, sui periodi di povertà.
La lotta dell’artista con la realtà e la ricerca di una tecnica per trasfigurare il visivo lasceranno in lui un senso infinito di libertà:  “Non ho solo appreso come lavora un vero artista, ma ho anche capito che cosa sia davvero la libertà umana. La realtà ha assunto ai miei occhi una profondità e una grandezza che non avevo mai immaginato potesse avere e la verità, che fino a quel momento avevo ricercato nella filosofia e nell’arte, mi si è manifestata prepotentemente davanti in tutta la sua indubitabile materialità. In poche parole, il principio fondamentale che accomuna la vita quotidiana e l’arte è l’infinita ricchezza della realtà e averne piena coscienza coincide con la libertà più assoluta”.
La bellezza di un esercizio liberatorio attraverso il quale la mente si lascia penetrare dai movimenti della stessa materia che tocca i sensi; materia a cui cerca di dare una forma.
La verità e la forma a cui Giacometti anela non sono date dalla realtà così come si mostra: la somiglianza di cui parla non è la restituzione dell’apparenza visiva, mimetica, tanto che una volta, racconta Yanaihara, l’artista ritocca la foto di un’attrice sulla copertina di una rivista con la penna stilografica, (“Che falsità, il volto umano non appare certo così”), suggerendo che anche la fotografia richiede, come la pittura, una ricerca, laddove nessuna isoformia corrisponde al nostro sentire.
Si è ben lontani dall’idea di conformità esterna tra la rappresentazione e il rappresentato. Si apre la questione della mimesis, della sua insufficienza e dell’interpretazione dell’arte come accrescimento, in quanto essa non duplica il mondo, ma lo restituisce sotto altra luce.
La verità intrinseca dell’immagine si enuclea a partire dall’immagine stessa nella sua maniera di offrirsi allo sguardo libero dal supporto di un modello di riferimento. Memorabili le parole di Balzac che si scagliava contro l’ossessione mimetica sottolineando che se l’arte fosse riproduzione di un modello, non sarebbe che il modello di un cadavere.
Proprio il genere ritratto ci aiuta a ragionare sull’esperienza dello sguardo estetico. Si pensi semplicemente alla volontà di rappresentare l’interiorità del soggetto: come imprimere su tela, far emergere in superficie l’intimità di quel volto?
Ma questa disperazione nasce proprio da una profonda passione per la realtà che tuttavia è manchevole, tanto da spingere verso la dissoluzione dei principi mimetici nell’arte, a tracciare un segno sempre come se fosse la prima volta attraverso una ricerca non condizionata da preconcetti stilistici ed estetici.
Grazie a queste pagine abbiamo il privilegio di assistere da vicino al lavoro dell’artista, in uno spazio angusto e povero come lo studio di Giacometti, “delimitato da tre muri, aveva una sola finestra, i cui vetri erano coperti dalla polvere accumulata negli anni”; spazio che risultava per questo essere buio anche in pieno giorno.   

A cura di Maria Teresa Rovitto

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