L’amore incondizionato contro il mito dell’individuo: Annachiara Atzei racconta ‘Let them eat chaos’ di Kae Tempest

L’immagine iniziale è quella di un immenso vuoto, un buio immobile e senza fine. Poi, in mezzo a tutto lo spazio, l’attenzione è catturata da un puntino di luce in un angolo lontano. Laggiù, quel chiarore trema incerto fino a riempire l’intero orizzonte: è la Terra. E l’uomo, in confronto, è solo un minuscolo granello di sabbia.
Si apre così, con un colpo d’occhio quasi fantascientifico, Let them eat chaos (Che mangino caos, Edizioni e/o), il poema che Kae Tempest – artista performer trentasettenne, nonché rivelazione assoluta all’interno della scena culturale del Regno Unito – ambienta in una Londra contrassegnata da emarginazione, conflitto sociale e sogni infranti. Al centro della vicenda c’è la capitale inglese, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra città della nostra epoca in cui gente comune attraversa indolente il proprio tempo: ci si incontra per caso, ci si innamora, ci si separa incuranti di ciò che accade intorno e incapaci di provare emozioni.
L’essere umano Kae racconta con pochi e toccanti tratti le vite tormentate di sette londinesi: alle 4 e 18 di una notte qualsiasi, Jemma, Esther, Alicia, Pete, Bradley, Zoe e Pia – ognuno nell’oblio della propria casa e con gli occhi spalancati sul soffitto – riflettono sulla loro esistenza solitaria cercando di trovare un senso a una insoddisfacente quotidianità. Ciascuno è concentrato su di sé, sulle sue commoventi fratture, e in questo torpore della mente e del corpo non si accorge che il pianeta è scosso e devastato: surriscaldamento globale, immigrazione, morti causati da conflitti internazionali e “neanche una traccia d’amore/ nella caccia/ al massimo/ profitto”. Come Sisifo che spinge imperterrito il macigno, i protagonisti della narrazione fanno ciò che viene loro imposto dalla società senza percepire il resto.
Nel libro profetizza un futuro che è già presente: “Ho avuto uno sprazzo di visione/ del futuro. Fa schifo”. E aggiunge: “Noi vediamo -/ nuvole come inchiostro agitato/ liquido denso cola e/ monta il vento/ che cambia tono/ brontola, urla con il ghigno gonfio -/ una gran tempesta si avvicina”. Nel far ciò, si fa interprete di quello che scriveva alla fine del Settecento William Blake, dal quale trae ispirazione: “Ogni onest’uomo è un Profeta, egli enuncia la propria opinione su questioni private e pubbliche. Un profeta è un visionario”: anche Kae Tempest non predice in modo sensazionale le cose a venire, ma racconta la contemporaneità con cognizione acuta a partire dalle abitudini di ciascuno di noi. Ma fa anche qualcos’altro: richiama chi legge all’azione.
Cita proprio Blake nell’esergo tratto da Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno e, come lui, capovolge tutto: “Senza contrari non c’è progresso”: bene e male si fronteggiano e si rovesciano uno nell’altro con un fine dimostrativo: il superamento della categoria del tu devi e la scelta idealista e istintiva dell’empatia e della condivisione.
L’arte e l’immaginazione consentono di travalicare questo stallo e scongiurano da un adagiarsi acritico e cieco che paralizza l’uomo privandolo della libertà.
Sul finire del poema, nel punto in cui il testo indica che ancora manca qualche ora all’alba, viene descritto un quadro apocalittico. Scoppia una tempesta: “Il cielo si apre in un ghigno folle/ e scatena tutta l’acqua che porta/ Il vapore sempre più pesante/ che sale dalle pozze più lontane,/ da tutte le lingue di onde lambenti,/ da ogni fiume turbinoso/ che contribuisce a questa pioggia”. Jemma, Esther, Alicia, Pete, Bradley, Zoe e Pia escono di casa e si riversano in strada e solo allora, come se i loro occhi si fossero finalmente aperti, vedono la città in una maniera nuova. Da perfetti estranei, si riconoscono a vicenda, increduli e con la pelle fradicia di pioggia: è un battesimo, un avvenimento che non potranno più scordare.
Servendosi dell’uso di una scena simbolica, Tempest invita ad andare oltre l’ostacolo della
incomunicabilità e riporta alla mente i famosi versi di Simon e Garfunkel, portavoce, nella musica, di un monito che, dopo più di mezzo secolo, resta attualissimo: “People talking without speaking, people hearing without listening and no one dare disturb the sound of silence”: un sogno inquieto dal quale ancora oggi, chi scrive, incoraggia a risvegliarsi sottolineando che l’unica speranza affinché ciò avvenga è la volontà di creare legami autentici. Così, infatti: “Io e te, separati, siamo più facili da limitare./ L’illusione è così completa/ che è impossibile metterla a fuoco” e rivela, “tutte le cose, a modo loro, sono in comunicazione./ Non siamo che scintille/ particelle di una costellazione più grande./ Molecole minuscole/ che formano un corpo solo”. Fino all’ultimo filo di voce, quasi come se intonasse una canzone, chiede di amare di più in nome di qualcosa di più grande che riguarda tutti: “la fiducia è una cosa che non vedremo mai/ finché l’Amore non sarà incondizionato”. L’amore incondizionato è amore perfetto e allontana timore e scetticismo.
Il mito dell’individuo divora tutti relegandoci a un caos interiore che ci impedisce di avere uno sguardo più compassionevole su noi stessi e sul mondo. Il compito di ciascuno è assumersi la propria responsabilità e entrare in connessione con gli altri per superare definitivamente ogni umano smarrimento.

A cura di Annachiara Atzei


Cinque brani da Let them eat chaos – Che mangino caos (edizioni e/o, 2016)

 

Immaginate un vuoto

Un buio immobile e senza fine

Pace
O, per lo meno, l’assenza
di terrore

Ora,
in mezzo a tutto questo spazio,
quel puntino di luce nell’angolo più lontano,
dorato come il sarcofago del faraone

Seguite quella luce col vostro sguardo stanco.
La giornata è stata lunga, lo so, ma guardate –

osservate come prima tremola incerto
e poi cresce ruggendo

Fino a riempire tutta l’immagine.
Brillando d’un fuoco d’insopportabile maestà

Ecco il nostro Sole!
E guardate – vedete come i pianeti gli fluttuano intorno
sospesi in una danza intricata?
Ecco, lì c’è la Terra.

La nostra
Terra.

Il suo azzurro smorza la fitta che vi brucia gli occhi,
i suoi contorni vi fanno venire in mente

l’amore.

*

Ho una canzone
che voglio suonare per te.
Ho un sogno
che mi sforzerò di realizzare.
Ho una cosa,
e te la voglio dire.

Mi sono messo a scrivere poesie,
è una cosa che faccio,
ti dispiace se ne
condivido una con
te?

No. Certo che no.

Bene.

Scusa.

A quest’ora di notte,
finisco sempre per declamare
le solite vecchie stronzate.

Mi ricordo di quella volta che cercavo di racca-
pezzare la mia mente in fondo a un rave. C’era un ragazzo
che perdeva sangue e lo spargeva dappertutto. E io cercavo
qualcuno da salvare o che mi salvasse e alla fine ho trovato
un piatto di carta. E mi sono messo a scrivere,
ragazzi, mi sono sentito benissimo, cazzo.

E allora ho capito
che io e la penna
eravamo una cosa sola.

*

Potete fingere di essere tonti e ignorare fino a un certo punto
Ma noi eravamo sulle montagne a raccogliere le forze
Vi abbiamo visto
riempire il cielo con i vostri fumi
Seduti nelle vostre stanze
come foste l’unica forma di vita esistente
A testa bassa sull’esistenza
degli altri nelle vostre stesse città
Intenti a sfuggire la pioggia
come se non foste mai stati baciati

Guardate – lasciate
i vostri averi e i vostri fondi
dite agli amici che siete andati
a riconciliarvi con le cose che non avete mai fatto.

Venite a danzare nel diluvio
Riversatevi come l’alluvione.

*

(…) se la cava alla grande, sta
Vivendo il Grande Sogno

E riesce a pagare il mutuo.

Però non si sa come mai
la notte non riesce a dormire.

Potrebbe alzarsi
Provare a farsela passare camminando.

Ma tra poche ore deve andare al lavoro
È sveglio oppure dorme?
Non lo sa,
non riesce a sognare,
non riesce a sentire,
non riesce a urlare,
ragazzi,
sono le 4 e 18

La vita è solo una cosa che fa.

Si rigira, cuscino freddo, corpo caldo,
non ce la fa più, come al solito,
respira piano,
si rintana sotto le coperte,
chiude gli occhi,
e pensa: ma davvero è questo il senso di esser vivi?

*

E ora si vedono a vicenda.

Vestiti strani, una scarpa e una pantofola, calzini calati, sorridendo,
si raccolgono lentamente, cauti, in mezzo alla strada.
Dapprima si riparano gli occhi
ma poi

tirano indietro la testa, rilassano le spalle,
offrono i corpi
alla tempesta
Con i capelli appiccicati al cranio
oppure gonfiati furiosamente in ogni direzione
E le mani
scivolano via da guance e mento
quando si prendono la faccia tra le mani
a bocca aperta
Impressionante! esclamano
Visto che roba?! esclamano

Camminano l’uno verso l’altro
trascinandosi come fossero feriti
e si stringono in gruppo sempre più vicini,
sconvolti e ridenti,
con la pelle fradicia di pioggia.

*

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