«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano».
Mario Praz

ritaglio di Felix Vallotton
Morti spariti si mostrano.
La madre dell’amico
mai vista in vent’anni
oggi, morta da un mese,
torna a metà del mattino:
i ricci sulla fronte ossigenati,
il ridere breve.
da Simmetrie di Elio Pecora
FANTASMI
Il signor Brown ha un aspetto molto migliore
di quando era all’obitorio.
Mi ha portato una grossa carpa
in un giornale macchiato di sangue.
Che strana visita.
Non penso a lui da anni.
Ci sono con lui anche Linda e Sue.
Due evanescenti ricordi, pallidi ed eleganti,
che si tengono per mano.
Anche il loro rossetto è fresco
per quante prove scientifiche si possano trovare
del contrario.
Linda vuol preparare il pesce?
Si volta e guarda in direzione
della cucina mentre Sue
continua a osservarmi dolorosamente.
Non voglio crederci
eppure sono paralizzato dalla paura.
Non so come reagire,
perciò non faccio niente.
Le finestre sono aperte. L’aria è pregna
del profumo delle magnolie.
Gocce di pioggia serale stillano
dalle foglie scure e pesanti.
Faccio un respiro profondo; chiudo gli occhi.
Cari spettri, non credo neppure
che voi siate qui, e allora com’è che
mi state facendo capire
cose che preferirei non sapere proprio adesso?
È il modo in cui guardate al di là di me
quello che deve esser già il mio fantasma,
prima di congedarvi,
all’improvviso come arrivaste,
senza che nessuno di noi rompa il silenzio.
da Club Midnight di Charles Simic
(traduzione di Nicola Gardinio)
LA MORTA
Successe davvero.
La Morta sentì l’ultimo rintocco della mezzanotte, alzò le braccia e sollevò il coperchio della bara.
Uscì piano piano e roteò gli occhi dalle pupille spente; gli altri morti – morti del tutto – dormivano profondamente. Tirò verso di sé la porta del sepolcro che si apriva sulla notte. Il suo vestito era una macchia bianca nel nero fitto delle ombre. Come funebri cipressi, le anime di alcuni tisici ballavano in una radura un macabro girotondo. Avanzò lentamente lungo il viale lugubre, rivolgendo loro i globi vitrei dei suoi occhi spenti. Unico bagliore fra le ombre, si fermò un attimo a guardare un bambino, nudo e bianco come una statua greca, che teneramente riempiva di lacrime un’urna rotta, dove le colombe si sarebbero dissetate di giorno. Un suicida affondava le unghie nella terra in cerca del sogno per il quale si era perso.
Le statue, a riposo, abbandonavano la solita postura artificiosa. La Saudade si lisciava le lunghe vesti per poi sedersi col viso fra le mani a guardare distrattamente la notte. Sulla tomba di un poeta, una musa dalle curve sensuali chiudeva gli occhi languidamente e con la bocca accennava un bacio.
Un rospo enorme, gli occhi lucenti come due stelle, posato su un soffice letto di gigli, lanciava il
suo verso rauco.
La morta camminava con il suo passo da morta, un fruscio di brezza fra le foglie; le scarpette di raso bianco a malapena sfioravano il sentiero lastricato; inespressive, le pupille spente ci vedevano.
La Morta sapeva dove andare.
La Morta stava ricordando, ché anche i morti ricordano: nella solitudine del sepolcro c’è tempo e calma per ricordare; è lì che le vergini tessono coi loro sogni i broccati più preziosi: Per chi è
capace di sentirle, ci sono vibrazioni di carni morte nelle tombe bianche delle donne che morirono pure, come un dolce fremito d’erba che cresce…
La morta stava ricordando:
Al tocco caldo delle dita che le richiusero le palpebre sulle pupille immobili, aveva provato
un’estasi sovrumana, una misteriosa sortita dal corpo, una magica trasfigurazione di tutte le fibre del suo essere, Una bocca, morbida e fresca come non mai, aveva sfiorato la sua, pure morbida e fresca, con piccoli baci, carezzevoli e casti come le goccioline di pioggia che, nei pomeriggi estivi, raccoglieva per gioco nelle mani tese.
L’avevano vestita di bianco, cosparsa di bianco, avvolta in una nuvola bianca. Bianco il cuscino di pizzo su cui le avevano adagiato la testa, con la sacralità di chi posa una reliquia santa sui fronzoli di un altare. Bianche le scarpette di raso, le stesse che ora sfioravano il sentiero lastricato. Bianca la ghirlanda di rose centifoglia infilata fra i suoi capelli di seta. Bianco il vestito, l’ultimo vestito del suo ultimo ballo. Bianchi i boccioli di lillà, rose e garofani che come ali la ricoprivano. Bianca la piccola bara di sette palmi in cui la madre l’aveva stesa come per anni aveva fatto nella culla bianca.
E le lettere del fidanzato, il ritratto del fidanzato, i dolcissimi ricordi del fidanzato. Con pietà e
premura, perché non dimenticasse neanche un petalo, neanche un capello della bella chioma nera, né un biglietto su cui le amate mani brune avevano tracciato il suo nome, le avevano portato tutto, come un’offerta divina a un essere divino. E tutto aveva portato con sé. D’improvviso pareva diventare più piccola, eterea, accogliente per far spazio a tutto, per non dimenticare e non lasciare nulla fuori, al freddo e al gelo di questo mondo indifferente che trafigge anime e cose. Potevano riporre tutto nella bara, di certo non si sarebbe appesantita…L’oro copioso di chimere misteriose, i broccati lucenti, intessuti di metalli preziosi e decorati da gemme scintillanti dei miraggi d’amore, le alti torri bianche dei sogni: era tutto così leggero, così leggero che la piccola bara di sette palmi pesava meno della piuma d’un uccello.
Poi il coperchio della bara si era richiuso dolcemente fra i singhiozzi soffocati, e tutto il biancore si era spento, come una notte di luna piena inghiottita dalle ombre…
Se n’era andata…Aveva disceso i gradini della scala cullata dal feretro bianco, stordita dal profumo dei fiori e dei sogni d’amore rinchiusi con lei, come se lì dentro avessero rinchiuso, come un dono sublime, tutte le primavere del mondo che sarebbero fiorite dopo di lei.
L’avevano lasciata lì. L’onda che l’aveva trasportata si era infranta sulla spiaggia, il feretro bianco senza vele dormiva in porto al riparo dai venti, dai terribili inverni, dai cavalloni che s’infrangevano lontani, in un mareggiare incessante, nell’alto mare della vita. La Morta poteva dormire, la Morta poteva sognare.
Silenzio. Un silenzio fatto da fluidi sonori, del vago aleggiare di un profumo, un lieve fumo
d’incenso nell’aria. Silenzio, come il pallido bagliore d’un fuoco fatuo, la traccia, la polvere di un
desiderio immateriale, silenzio intorno alla grande cattedrale d’ombre dove ombre vestite di bianco pontificavano ogni notte.
Gli altri morti, di fianco, dormivano sonni pesanti e riposanti. Un giorno le loro braccia erano
crollate per lo sforzo, restando penzoloni per i secoli dei secoli. La Morta li vide tutti, ma non
ricordava nessuno, il mondo era lontano.
Poi era cominciato l’incantesimo. Ogni sera, all’ora in cui il crepuscolo, vestito di glicini, calava
dolce come una palpebra, il profumo delle rose, dei boccioli di lillà e dei ricordi d’amore rinchiusi in lei si faceva più intenso, prendeva corpo in una nuvola, in un balsamo divino che la inondava tutta, profumandola. I passi, come versi di una poesia imparata a memoria, si sentivano a malapena, perduti nel cuore della città urlante, l’allucinata città dei vivi…poi si avvicinavano, più nitidi, un calpestio che avanzava sul sentiero lastricato nella silenziosa città dei morti.
Nei sette palmi bianchi in cui la carne bianca della vergine dormiva con i fiori, c’era uno sciame
dorato d’api: lì dentro ronzavano tutte le litanie d’amore, battevano all’impazzata i cuori dei
garofani, si aprivano assetati i mille boccioli di lillà, e sui pallidi seni delle rose affiorava una lieve venatura di carminio.
La mano del fidanzato spingeva la porta del sepolcro. Gli altri morti, di fianco, non lo sentivano
entrare; dopo lo sforzo le braccia erano rimaste penzoloni per i secoli dei secoli.
Fra il vivo e la morta, un dialogo d’inestimabile bellezza.
Essenza d’anime, le anime si toccavano, un tocco così candido e profondo che le forze misteriose di quel fluido creavano altri fluidi. Soffi, aliti d’anime come ali invisibili che a volte nell’oscurità sfiorano il volto degli eletti. Un dialogo di bocche mute, di suoni immateriali e gesti intangibili, avvolto da un profumo – l’anima dei sentimenti – lieve come un’essenza.
Il vivo e la morta parlavano, ma i vivi non avrebbero capito cosa si dicevano, forse neanche i morti che di fianco dormivano profondamente. Le braccia penzoloni per i secoli dei secoli.
Il profumo, più tenue, quasi di narcisi, palpitava simile a un fruscio d’ali stanche giunte finalmente al nido…La mano del fidanzato tirava a sé la porta del sepolcro…i passi si perdevano lontano, nella silenziosa città dei morti, poi nell’allucinata città dei vivi, e tutto si acquietava. Il silenzio si avvicinava portando per mano lentamente, per non inciampare, la notte cieca.
Ma una sera la Morta aveva atteso invano, e aveva atteso ancora e ancora, per ore infinite d’infinite sere. Nella piccola bara di sette palmi, dove i garofani e i lillà erano sempre rigogliosi e freschi, umidi di rugiada di un’alba eterna, si spegnevano i profumi, sfiorivano i seni nudi delle rose, s’ingiallivano le lettere d’amore, e le braccia della vergine accennavano il gesto stanco degli altri morti che, di fianco, dormivano profondamente.
Fu allora che, in una notte ancora più cieca, portata per mano dal silenzio, sentendo cadere le
lacrime d’un mondo intero ormai dimenticato, alzò le braccia, sollevò il coperchio della bara e uscì piano…fu allora che tirò a sé la porta del sepolcro aperta sulla notte.
La Morta camminò lungo il viale lugubre, con il suo passo e il mantello frusciante. Spinse la porta appena accostata – perché chiudere la porta ai morti? – e uscì fuori…e nella città addormentata i vivi sentirono sbocciare il fiore di un miracolo. Furono più teneri i baci delle spose; le madri videro i figli dormire sonni più sereni, come se sulle culle scendesse clemente la benedizione divina; le teste stanche trovarono più accoglienti le braccia delle amanti, e chi era sul punto di morire ebbe nostalgia della vita.
Attraversò viuzze erme, strade solitarie popolate d’ombre più vaghe e fuggevoli di lei; le sue pupille spente cercarono il chiarore che un tempo le aveva accese; tese le braccia a ogni grido, andò di porta in porta, entrò in ogni focolare, rivoltò tutte le agonie, si affacciò su ogni abisso, penetrò il mistero di ogni sogno. Sempre più vaghe e fuggevoli le ombre, mentre le luci si spegnevano, stelle cadenti nel buio fitto di quel Golgota. Niente!
Fu allora che le giunse all’udito un bisbiglio sommesso…Erano forse passi? Un fruscio d’ali?
Foglie d’autunno cadenti?
La Morta si fermò.
Un lieve mareggiare d’onde. Il fiume.
Nella coppa d’argento, cesellata con magnifici fregi dai geni delle acque, sollevata in alto da mani misteriose e invisibili, giaceva l’azzurro infinito. Attorno al suo vestito bianco si formò l’aureola di un sogno dai toni azzurri della madreperla, luminosità fosforescenti d’un fuoco fatuo; come se riflettesse la luce lunare di cieli lontani, sembrava il manto della Vergine; le mani, in un gesto di grazia, divennero due minuscole conchiglie azzurre. Era lì.
Si affacciò…Un mareggiare d’onde…e la morta divenne un’altra onda, un’onda piccola, un’onda
azzurra nella coppa d’argento scintillante…
Successe davvero.
Al mattino, quando le colombe andarono a dissetarsi con le lacrime raccolte nell’urna rotta, quando il rospo dagli occhi lucenti come stelle lasciò il suo fresco letto di gigli, la Saudade s’inginocchiò di nuovo a singhiozzare sulla sontuosa tomba di marmo, quando la bocca della musa dalle curve sensuali tornò alle sembianze austere e fredde, rigida e immobile, dopo una notte di baci, quando alla fine le ombre svanirono nella silenziosa città dei morti, una tomba fu trovata vuota, una piccola bara bianca di sette piccoli palmi, in cui le lettere d’amore ingiallivano e i pallidi petali dei fiori pendevano appassiti.
da Le maschere del destino di Florbela Espanca
(traduzione di Jessica Falconi)
A cura di Paola Deplano
Una replica a “Il demone dell’analogia #49: Spiriti”
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