Sandro Abruzzese, Il sisma del 1980 e l’Irpiniagate di Enrico Fierro

Sandro Abruzzese
Il sisma del 1980 e l’Irpiniagate di Enrico Fierro

Scrivo queste righe a poche settimane dalla scomparsa del giornalista e scrittore Enrico Fierro, avellinese, classe 1951, guarda caso nato lo stesso giorno del terremoto irpino, il 23 novembre. A questo evento e a questa data Enrico avrebbe legato buona parte della sua vita. Con grande coraggio, – quel coraggio che lo ha contraddistinto nei successivi libri sulla ‘Ndrangheta, sulla Mafia, negli articoli sul suo amato Sud e su Riace, e fino alla fine dei suoi giorni – nel 1990 insieme a Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani firmò un notevole libro inchiesta sul post-sisma irpino.
Enrico Fierro e i suoi colleghi con Grazie Sisma! 10 anni di potere e terremoto («La voce della Campania»), andarono incontro a ostracismo, denunce, minacce, processi, e tra l’altro, scrivendo di camorra, come dimostrano i tempi del sequestro da parte delle Br dell’assessore napoletano all’Urbanistica e plenipotenziario democristiano Ciro Cirillo, o come dimostra l’attentato della camorra cutoliana al procuratore della Repubblica di Avellino, Antonio Gagliardi, misero seriamente a repentaglio la loro vita, quella dei loro cari, e i rapporti con il luogo d’origine.
Enrico Fierro avrebbe poi seguito i lavori conclusivi della Commissione d’inchiesta sul post-sisma presieduta da Oscar Luigi Scalfaro e, dalle colonne dell’«Unità», del «Fatto», di «Domani giornale», nei decenni, ha continuato ad alimentare la memoria e la ricostruzione di questo evento cardine della storia d’Italia.

Oggi che Enrico non c’è più, personalmente, oltre al vuoto incolmabile per la perdita di un compagno di viaggio e di militanza partigiana, sempre dalla parte dei senza voce e degli ultimi, mi chiedo quanto e cosa resti alla pubblica opinione nazionale della memoria del sisma irpino del 1980.
È nota la tragedia epocale per l’Italia, con più di tremila morti e la distruzione del patrimonio culturale di tanti paesi appenninici del sud Italia. Forse ciò che è meno noto alle nuove generazioni è la storia della ricostruzione post-sisma, di cui ha scritto lo storico di Teora Stefano Ventura (Storia di una ricostruzione, Rubbettino 2020), ricordando giustamente, oltre agli scandali, la pagina positiva del volontariato, alcuni esempi e casi di buona ricostruzione locale.
Ma magari, in questa nostra nuova epoca della frammentazione, priva com’è di coscienza storica, e proiettata costantemente in un presente posticcio e irreale, rischia di cadere nel dimenticatoio proprio quell’Irpiniagate a cui Enrico Fierro aveva dedicato passione e energie inesauste, ovvero il sacco dei fondi pubblici a opera della classe dirigente democristiana, vicenda che tanto scalpore aveva generato negli anni ’80 e ’90 del ‘900.
Nel complesso, se, dal punto di vista politico, l’uso dei fondi del dopo-sisma drogò e accelerò il metabolismo economico campano, portando alcuni reali benefici nel breve periodo, in seguito, per via degli errori relativi a un modello di sviluppo parzialmente slegato dal contesto e per via delle clamorose frodi, compromise le chances future della regione. Dunque, dopo una prima fase espansiva dovuta agli investimenti pubblici, l’Irpinia ritorna ora, ai nostri giorni, lo descrive Generoso Picone nel recente Paesaggio con rovine (Mondadori, 2020), a un destino che non era affatto segnato: la produzione di nuovi emigranti, lo spopolamento, l’abbandono del territorio.
È indubbio che lo stato attuale è diretta conseguenza di scelte politiche precise della classe dirigente locale, passata ai vertici di quella nazionale, proprio grazie al sisma.
Certo, qualcosa è rimasto, ma molto meno di ciò che si prospettava e solo attraverso una lottizzazione spietata e una cessione spaventosa di prerogative dallo stato alla politica e alla criminalità.

Per dare qualche cifra, lo storico Ventura rivela che la ricostruzione effettiva dell’industrializzazione che prospettava circa 15000 posti di lavoro, riuscì a realizzarne in una prima fase poco più di 4000, e nei decenni successivi (dati al 2005) circa il 53 per cento della stima iniziale.
«È abbastanza chiaro», scrive lo studioso, «che la lontananza tra obiettivi fissati e risultati raggiunti dimostrano errori, voluti o non voluti, commessi in fase di progettazione dell’intervento pubblico. Ci sono però altri elementi che completano la gamma dello spreco dei fondi statali […] in realtà l’applicazione di questi provvedimenti fu largamente disattesa e dimostrò di essere funzionale ad altre logiche […] la ricchezza prodotta non restava nelle zone in cui era prodotta e, contemporaneamente, si alimentava un sistema di potere locale a carattere clientelare e a favore di pochi gruppi politico-imprenditoriali».
Dal punto di vista sociale, invece, il post-sisma e il clientelismo hanno trasformato definitivamente l’inconscio e la cultura dei meridionali, piegandoli in parte a forme estreme di individualismo e sudditanza. A riguardo, il sociologo di Pagani Isaia Sales, ormai quasi trent’anni fa, in Leghisti e sudisti scriveva: «Non si ha ancora la necessaria consapevolezza di quanto questo cambiamento abbia inciso nel profondo della struttura economica e sociale, abbia modificato il ruolo della politica e delle istituzioni, abbia trasformato il rapporto con la società civile, abbia infine radicalmente cambiato il rapporto dell’insieme della società meridionale con lo Stato».
Ebbene, nella vicenda del post-sisma irpino le classi dirigenti non hanno solo contratto un debito insolvibile con le generazioni successive, ma hanno avallato, quando non direttamente almeno moralmente, la criminalità attraverso le loro condotte istituzionali. Scrive ancora il sociologo Sales: «La mafia, in quanto criminalità che accumula anche risorse pubbliche, non trova nessun ostacolo né morale, né culturale, né di altro tipo». Anzi, il reale consenso clientelare seguito alla gestione fu percepibile finanche dall’incremento dei voti che avrebbe portato alla maggioranza assoluta democristiana in provincia di Avellino del 1992. Gabriele Moscaritolo, sociologo eclanese, allievo di Gabriella Gribaudi, in Memorie dal cratere (Editpress 2020) sottolinea che «quando si avviarono i flussi di denaro e la ricostruzione entrò nel vivo, il consenso elettorale (della Dc) passò al 50,17 nel 1987 e al 51,64 nel 1991».
Il salto di qualità della Camorra, come quello della classe politica locale democristiana, principia anch’esso con il terremoto irpino, e se guardiamo al Nord, anche la Questione settentrionale, di cui Aldo Bonomi ha scritto con perizia, e la relativa strumentalizzazione leghista, mostrano la stessa matrice, lievitando nel medesimo ambiente di malaffare e corruzione locale e nazionale generalizzato. Il nocciolo della Questione morale invocata da leader del PCI Enrico Berlinguer nel ’79, si rivelava del tutto politico: la distanza tra partiti, istituzioni, e società, lo scollamento del paese si fece, con la condotta del post-sisma, sempre più grave, e quasi irreparabile. Le inchieste di Mani pulite, la foga e la rabbia della società civile, con tutti i  limiti di un potere che ne sostituisce un altro, arriveranno laddove la politica si era rifiutata di arrivare. Verrà decapitato ciò che andava, e da tempo, assolutamente riformato.
In ultimo, sempre sotto il profilo sociale, in questa storia mancano le centinaia di migliaia di persone costrette alla fuga dalla Campania e dalla Basilicata in questi quarant’anni. Come sempre, ce lo ha insegnato Tolstoj in Guerra e pace, manca la vita silente delle persone che comunque fanno la storia: i figli dei contadini, gli artigiani di Flumeri o Calitri, i muratori di Scampitella e Gesualdo, i medici di Frigento o Nola, i commercialisti e i sarti di Montemiletto e Atripalda, gli insegnanti o avvocati precari in fuga dal vesuviano e dall’agro nocerino-sarnese, o i giovani laureati potentini e salernitani, i chirurghi e i magistrati partenopei emigrati a Roma e a Milano.

È una storia vecchia, lo so, e il presente richiede invece, al pari di sostanze stupefacenti, continue novità editoriali. Ho tentato altrove (Mezzogiorno padano, Manifestolibri 2015) di narrare l’Italia ibridata e la deformità di uno stato nazionale monco, che non è mai riuscito ad arginare le migrazioni e a rispondere alle esigenze di un terzo del paese reale.
La storia della ricostruzione del post-sisma irpino riguarda anche questi milioni di persone trapiantati altrove, partiti per andare a costruire altri mondi, in un flusso inarrestabile che arricchisce di vita e sapere il Centro-nord,  l’Europa, depauperando la parte più fragile dell’Italia che a fasi alterne si finge di voler risollevare. L’austerità di questi anni, infine, rivolta contro le regioni meridionali, è anch’essa in parte figlia della vicenda nazionale di sperperi assurdi che stiamo narrando.

Per concludere, sebbene datati, e inoltre per dare delle cifre e scendere in qualche dettaglio esemplificativo, ma anche per gratitudine nei confronti di cronisti come Goffredo Locatelli e Enrico Fierro, trovo sia opportuno ripercorrere, anche solo per sommi capi, l’inchiesta Irpiniagate (Irpiniagate, Goffredo Locatelli, Newton Compton editori, 1989), sulla vicenda.
L’inchiesta di Locatelli e quella di Fierro e colleghi, a distanza di tre decenni, restano uno spaccato vivido dell’oblio generato dalla conduzione fraudolenta del post-sisma e riportano fedelmente la temperie di un’epoca, in grado di spiegare tanti avvenimenti della nostra storia patria recente.
Tralasciando le trame più losche, che vedono l’impegno democristiano per la scarcerazione dell’assessore Ciro Cirillo (ci vorrebbe un libro a parte), a cui abbiamo già fatto cenno, rapito dalle Br, e liberato tramite la camorra di Cutolo, forse con soldi e fondi destinati al terremoto, da Locatelli e Fierro sappiamo che la spesa erogata al 1989 è di circa 47.000 miliardi di lire su 63.000 preventivati, cifra erogata dallo Stato per compensare più di tremila decessi e 362.000 case danneggiate. Nel frattempo i comuni colpiti passarono da 339 a 687, coinvolgendo diverse province e regioni.
Lo Stato, dunque, versa 15.000 miliardi per i privati, il resto rimane bloccato nelle banche e frutta svariati interessi che innalzano il valore delle azioni degli Istituti di credito come la Banca popolare dell’Irpinia.
Valga per tutti l’operato del sindaco democristiano di Bisaccia e Ministro per il Mezzogiorno Salverino De Vito che, ricorda Locatelli, acquista 400 container per 10 miliardi di lire, prefabbricati mai usati, venduti dalla azienda Isopol del sindaco democristiano di Montemiletto Vittorio De Sanctis, suo amico e inoltre Presidente degli industriali irpini.
Come se non bastasse, sebbene a scegliere le industrie per la creazione delle zone produttive del cratere è, non del tutto autonomo ovviamente, il lombardo commissario Giuseppe Zamberletti, tra l’altro riabilitato nel suo operato da Stefano Ventura, le zone prescelte dalla Commissione Fasano, composta da democristiani e qualche socialista, sono quelle di Nusco, paese di Ciriaco De Mita, con tre aree industriali per 14 aziende; l’area di Calaggio, con 9 industrie, nel comune del sindaco di Bisaccia Salverino De Vito; Morra De Sanctis, amministrata da socialisti, che prevede 3 industrie sul suo territorio, paese dell’astro nascente e pupillo demitiano Giuseppe Gargani. Le zone prescelte quindi combaciano precisamente con i paesi e i bacini di voti di eminenti dirigenti locali della Dc avellinese.
Quanto alla scelta delle attività produttive da insediare, nonostante la commissione presieduta dal Prefetto di Salerno Nestore Fasano si avvalga di due strumenti tecnici per valutare le candidature dell’aziende (un’istruttoria bancaria e una industriale) tuttavia per ben 17 aziende ignorerà il parere negativo dell’istruttoria bancaria e per 8 quello dell’istruttoria industriale.
È la nuova Irpinia: un labirinto di leggi, ben 17, ammetterà l’attuale Presidente della Repubblica Mattarella rispondendo in parlamento a 26 interrogazioni parlamentari.
Ebbene, se il capitolo legislativo è ampiamente criticato in Storia di una ricostruzione, spesso le concessioni saranno attribuite senza gare d’appalto ad aziende a volte prive di requisiti.
Un esempio? In Irpiniagate di Locatelli veniamo a sapere che un’azienda come l’Infrav si aggiudicherà i lavori per l’infrastruttura viaria Lioni-Nusco, sebbene dal 1968 la Ferrocemento di Roma, che ne fa parte, non avesse ancora ultimato la diga di Conza, e l’inchiesta Grazie sisma! di Fierro, Pennarola, Cinquegrani conferma che il prezzo dei lavori della diga nel frattempo era salito da circa 14-15 a 100 miliardi di lire.

Quanto alle industrie che arrivavano dal Nord, vennero definite da Aniello De Chiara, Presidente socialista del Consiglio regionale della Campania, scarti e aziende obsolete, che si muovono per mettere le mani su quel 75% dell’investimento elargito dallo stato.
Una volta anticipati 1000 miliardi per 152 aziende, molte di queste incasseranno i soldi senza proseguire, e altre non rispetteranno i termini degli accordi, fino a costringere il governo, nel novembre del 1986, a riaprire i termini per nuove domande di insediamento. Un’implicita ammissione di fallimento.
Resterebbero le infrastrutture. Basti dire che alcune sono in completamento ancora oggi: la Lioni-Grottaminarda, per esempio. Nel complesso la previsione, seguendo Locatelli e Fierro, era di 1750 miliardi per 150 km di strade, 10 miliardi a chilometro, ma la Fondo valle Sele viene realizzata solo per il 60%, così come solo parzialmente viene realizzata l’Ofantina, e restano al 1989 incomplete le aree di Buccino, Palomonte, San Mango.
Ci sarebbe poi l’articolo 21 a destinare alle imprese di Campania, Puglia, Basilicata un contributo che arriva fino all’85% dell’investimento a carico delle finanze pubbliche (1550 miliardi). In molti casi si gonfiano artificiosamente i computi metrici delle perizie del terremoto per sottrarre ancora altri fondi.
Infine, è sempre lo stesso Mattarella, nel rispondere alle già citate 26 interrogazioni parlamentari, ad ammettere che il ginepraio irpino ha una gestione contestata anno per anno dalla Corte dei conti, e a 8 anni dal sisma, con 47.000 miliardi stanziati, lascia ancora famiglie senza tetto, e mancate ricevute e documentazioni di spese per centinaia e centinaia di miliardi.

Questi, per esigenze di spazio, sono solo alcuni annosi fatti relativi alla gestione del sisma irpino, che della laboriosa civiltà contadina spazzata via dai terremoti del ’30, del ’62 e dell’80, verrebbe da dire, conserva ben poco. Si tratta più che altro di un vero e proprio sacco nazionale, guidato dalla sub-cultura del piccoloborghesismo italico, magari a volte dai tratti brillanti, ma sempre indecentemente egoista e miope nel lungo periodo, con propaggini che assurgono a emblema di un’epoca e ritraggono le fattezze e i limiti dell’Italia politica del tempo.
Nel post-sisma è stato dilapidato il futuro non solo di un ampio territorio meridionale che avrebbe potuto avere un’altra storia, ma si è messa a repentaglio la tenuta dell’intera nazione.
La stagione leghista è ormai alle porte, la Caduta del Muro e la fine dell’Urss renderanno inutile l’intermediazione della classe dirigente meridionale democristiana, la quale, insieme ai socialisti, può finalmente essere spazzata via dalle inchieste dei giudici di Mani pulite.
In politica estera, una volta cessato lo spauracchio sovietico, e messa da parte la paura interna che le grandi masse di disoccupati meridionali confluissero verso il Pci, ecco pronte le rivendicazioni secessioniste padane e una nuova politica a due velocità, con la fine del finanziamento di opere e spesa pubblica al Sud, e il definitivo spostamento dell’egemonia nazionale tra Roma e Milano. Alle porte il federalismo, l’autonomia differenziata, l’aumento dei divari territoriali denunciati anno per anno dallo SVIMEZ di Adriano Giannola, stanno attualmente facendo il resto.
Il terremoto irpino è una delle porte scorrevoli che hanno configurato l’Italia di oggi, mai così distante, frammentata, disomogenea, ma anche mai così dimentica degli errori pregressi e dell’interesse generale.
Un’Italia sempre più politicamente debole, dunque municipale, quindi incapace di esprimere una cultura nazionale all’altezza delle sue reali possibilità, la cui classe politica oggi è addirittura commissariata dal’Unione europea e si affida alla tecnocrazia e al dispotismo illuminato di Mario Draghi (ironia della sorte, anch’egli di origini avellinesi). Un’Italia in cui non vi è più traccia di parole come partecipazione popolare, occupazione, Questione meridionale e interesse generale del paese, ma l’astensionismo supera il cinquanta per cento degli aventi diritto al voto.
Il post-sisma irpino, si può dire che non sia mai finito, è solo passato a nuove forme: alle alluvioni, ai sibillini, alle faglie dell’Abruzzo, o alla Calabria, fino ad arrivare al Covid19. Anzi l’emergenza, alimentata dal combustile eternamente rinnovabile ed ecologico della paura, è diventato fenomeno e realtà quotidiana di una nuova transizione. Anche questo è il Mezzogiorno padano: un paese inclinato, in cui tutto scivola e si polarizza verso l’ignoto altrove post-moderno e post-democratico.

@SandroAbruzzese

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