Dante muore a Ravenna settecento anni or sono, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Un anniversario importante, che su queste pagine non può passare inosservato. «Poetarum Silva» intende commemorarlo, il 14 di ogni mese, attraverso le pagine di autori che gli hanno reso omaggio, trasformandolo in personaggio della loro scrittura critica, narrativa, poetica.
Per soldi e per amore: D’Annunzio pseudodantista per Olschki
Nel 1911, in occasione del cinquantesimo dell’Unità d’Italia, la libreria antiquaria di Leo Samuel Olschki stampava un’edizione di pregio della Divina Commedia, dedicata a Vittorio Emanuele II. L’ideatore e curatore del testo era il conte Giuseppe Lando Passerini, dantista e direttore della Biblioteca Medicea Laurenziana. Si trattava di un’edizione di pregio, illustrata dalle riproduzioni di xilografie del 1491, con caratteri appositamente forniti dalla ditta Nebiolo di Torino, impressi su carta a mano delle cartiere Miliani di Fabriano. Ne furono tirati 300 esemplari numerati e 6 in pergamena. Questi ultimi avevano iniziali miniate, colophon latino, borchie e fermagli in argento massiccio ad arricchire la rilegatura tutto cuoio che era comune anche agli altri esemplari. I volumi erano corredati da una prefazione di Gabriele D’Annunzio, la cui redazione ebbe una gestazione alquanto contorta e macchinosa.[1]
Il Passerini, in una lettera del luglio 1909, chiese a D’Annunzio di scrivere una «breve vita Dantis»[2] come introduzione a una Divina Commedia di pregio che il nobile contava di curare per Hoepli e che il poeta avrebbe dovuto consegnare, come da impegno scritto, entro il maggio del 1910. Nel settembre di quello stesso anno, il progetto passò all’editore Olskhi, che proprio in quel periodo fondava a Firenze la tipografia Giuntina. La consegna del testo sarebbe dovuta avvenire entro il dicembre 1909; il compenso pattuito era di 2000 Lire, oltre all’omaggio di una copia del volume e l’annullamento di alcuni debiti che il poeta aveva precedentemente contratto con la libreria antiquaria di Olschki.[3]
D’Annunzio si impegnò, ma ritardando sempre la consegna, vuoi perché impegnato nella stesura di altre opere, vuoi perché in fuga in Francia per sfuggire ai creditori, vuoi perché ancora in cerca di ispirazione per la stesura del famoso testo. Passarono così, tra suppliche e minacce, ulteriori mesi, finché Olschki perse del tutto la pazienza e inviò il 27 maggio all’avvocato Coselschi una lettera per il suo cliente che sarebbe stato chiamato a rifondere i danni se non avesse consegnato al più presto lo scritto promesso.[4]
Alla fine, dopo ulteriori tira e molla, il poeta spedì il manoscritto il 16 agosto 1911 e l’edizione monumentale della Commedia poté vedere finalmente la luce.
L’incipit è ridondante e pomposo, un retorico panegirico della grandiosità della Patria e del suo Sommo Poeta, delle righe scritte apposta perché si sa che verranno lette e soppesate da Sua Maestà in persona – la commedia monumentale è dedicata a lui – e ad altri eminenti membri della Casa Reale, prima fra tutti la Regina Madre, che è, secondo la lista di sottoscrizioni pervenuteci, la destinataria della prima copia.[5] L’incipit dell’opera – il verbo che segue non è usato a caso – recita:
Nell’anno mirabile della ricordazione e della promissione, è bello che anche la Patria abbia il suo trisagio come l’Iddio Signore tre volte santo. Dall’altura settentrionale del Colle Capitolino Roma, celebrando nell’ino di pietra la terza vita d’Italia, sembra batter col piede su l’antichissimo sepolcro del suo Edile repubblicano il novo ritmo degli intercolunnii. Torino, la città formatrice nel cui vigore civico idealmente si perpetua il tetragono che disegnava la sua primiera cerchia augustea, alza dal suo stadio in un vasto coro virgineo il carme delle primavere che furono e di quelle che non nacquero. Firenze, quasi nel suo cielo atteggiata da quella stessa terribil mano che che nella Sistina voltò la Sibilla di Libia a reggere con le due braccia l’aperto volume come la certa del mondo, dice: «Ecco il Libro».[6]
Il testo di D’Annunzio è confluito nel Compagno dagli occhi senza cigli con il titolo Dante gli stampatori e il bestiaio.
Dopo le pagine roboanti dell’inizio, è proprio il bestiaio (mandriano) del titolo che attira la nostra attenzione e che vale la pena di leggere per esteso:
Ma mi sovviene dei quaderni sgualciti e sconnessi ch’io vidi un giorno in mano a un bestiaio della Maremma, opera d’un de’ suoi vecchi selvaggio copiatore, più cari a lui che non fosse al duca d’Urbino il gran codice alluminato. E del ricordo m’appago.
Era la cantica dell’Inferno, trascritta forse con una sola penna come quell’Alcorano del Soldan circasso regnante in Egitto. Al bestiaio veniva per retaggio della sua gente, con la sella ben arcionata, con l’uncino di legno di corniolo. Io aveva veduto l’uomo alla vacchereccia, in tempo di merca, vedutolo afferrare per le due corna la vitella già presa e trascinata dal capoccio a cavallo, abbatterla con una stratta, cader con essa a terra e incornarla, poi sedersi nel cavo delle zampe impastoiate sotto la pancia palpitante, attendere che venissero i marcatori co’ lor ferri roggi, alla marcata intagliar col coltello l’orecchia e gittar nel mucchio pel novero il pezzo di cartilagine sanguinente. L’incontrai, dopo qualche giorno, nella macchia, lontano dai mandrioli cimentosi, quando il puzzo delle cuoia affocate e dello sterco espulso dal terrore era svanito coi fumi coi mugghi e coi gridi del vento di maggio. Stava sotto una sughera il cui tronco, scorzato di recente, mi pareva aver lo stesso colore del segno che rimane tra il pelo annerito dalla bruciatura del marchio; il qual colore somiglia pur quel dei fittili che ornava di figure geometriche il vasaio etrusco imitando gli antichissimi, nati avanti l’arte dell’Ellade. Così l’uomo mi richiamava alla memoria il guerriero con la càsside, che soprasta a una tomba della necropoli di Vulsinii. Così i puledri dal lungo crine e dall’alte gambe, intorno pascolanti, mi rammentavano i cavalli aggiogati ai carri nei giochi funebri in onore di Patroclo sul famoso vaso. L’errore del tempo era abolito, e tutte le cose erano fatte d’eternità come il cielo cavo; e la nuda vita era simile a un’arte recondita.
Nelle mani sforzevoli, atte a incornare impastoiare mutilare, il bestiaio teneva i suoi quaderni come foglie e scorze. «Che leggi?» gli chiesi. «Il mio Dante» mi rispose. «Di grazia, leggi ad alta voce» pregai. Non si peritò.
Divinità del Canto! La selva selvaggia ed aspra e forte era d’intorno; e il vento animava fin le tombe nascoste sotto il suolo, valicando i forteti di Monteverro fertili di cignali, i Poggetti che ama la beccaccia, le Forane ove il bandito vuol morire, e di là da Tricosto le rupi di Ansedonia, e più lungi la via Aurelia, più lungi il pian di Vulci, la grandezza dei nomi che dilatano le solitudini, la tristezza del mare che ha un sol lido per piangervi un pianto senza fine. Quando la voce rude si tacque, sembrò che il coro aereo delle allodole rapisse l’ultima nota e la traesse oltre la bianca nuvola e mille volte la modulasse nei suoi modi e ne facesse un inno sempre rinascente e d’attimo in attimo più la innalzasse fino al culmine del giubilo e del fulgore. L’uomo guardava in alto attonito come se quella melodia salisse da’ suoi quaderni e da’ suoi precordii. Senza aver letto la suprema cantica, or egli conosceva in lume e in suono l’arte del Paradiso.
Non altrimenti è da conoscer tutto Dante. Il bestiaio della Maremma me l’insegnò; che meglio di me sapeva riceverlo sotto la specie del canto eterno, col medesimo orecchio prendendo gioia dal trillo dell’allodola e dalla terza rima. Non si gravava di chiose il suo selvaggio codice, né egli dimandò mai ad alcuno che le oscurità gli fossero chiarite; ma il suo puro sentimento lo induceva a inchinar l’anima verso il poema sacro come verso «una musica imperscrutabile».[7]
Il personaggio del mandriano pare preso di peso dalle dannunziane Novelle della Pescara (1902), opera di un verismo morboso e a tratti lievemente macabro, in cui vergini violentate muoiono di aborto clandestino e popolani esaltati e fanatici si tagliano da soli una mano spappolata portando il santo in processione. In sottofondo, pare quasi di sentire la chiusa de I pastori: «Ah perché non son io co’ miei pastori?»[8] Non sappiamo quanto il personaggio del mandriano appassionato di Dante fosse vero, o verosimile. Resta potente questa figura di uomo pressoché illetterato che, novello pastore arcade, spazia senza soluzione di continuità dalle cruente attività agresti alle delizie della poesia. Anche qualora fosse un ennesimo falso dannunziano, conta il fatto che il pescarese se ne serva per dimostrare quanto la figura di Dante fosse ormai inglobata nell’immaginario degli italiani, persino di quelli con scarsa o nulla scolarizzazione.
Invano si cercherebbero, nel resto delle pagine, le tracce di una vera e propria vita di Dante – e , men che meno, di una rigorosa indagine filologica. L’Alighieri è visto più che altro come una figura mitica, l’incarnarsi sacro del prototipo del puro rappresentate della più alta italianità, il collante di una nazione tutto sommato ancora neonata, e alla quale mancavano non solo porzioni di territorio che venivano reclamate a gran voce dai nazionalisti nostrani, ma anche una sicura coscienza della propria unità ed omogeneità.
È D’Annunzio stesso, quasi volesse mettere le mani avanti, a dirci che a dispetto del titolo non ci troviamo davanti ad una biografia dell’Alighieri. Tale compito è impossibile, ci avverte il pescarese, inanellando motivazioni che hanno il sapore della scusa, piuttosto che l’accento deciso della sincerità:
E come la Comedia è una imperscrutabile musica, così Dante è un onnipresente mito. Chi dunque s’attese che io qui componessi la sua biografia? Dell’averse avuto il pensiero e assunto l’obbligo io mi vergognerei, se l’uno e l’altro non avessi portato in me fino a oggi come affanno e cruccio e quasi rimorso invitto. Ha egli cessato di vivere e di apparire?
I più profondi iddii non sono quelli che creano la stirpe ma quelli che la stirpe crea. In tutto l’Occidente, anzi in tutta la Cristianità, non è creazione più durevole di quella che Dante compì su di noi né più mistica di quella che noi compimmo su Dante. Di tutto ciò che è terribile, di tutto ciò che è magnanimo, di tutto ciò che è sublime noi facemmo lo spirito dantesco, noi creammo il nume dantesco; il quale è come un interior fuoco di bellezza, accolto nell’imo della nostra natura, e non manifesto se non talora per sùbita vampa o per isterminato baleno.[9]
Il testo continua evocando lo spirito dantesco ovunque e di tutta la biografia resta solo una data «solennemente da ritenere e da benedire, quella del bando: addì ventisette di gennaio dell’anno mille trecento due».[10] Furbesca manovra dannunziana, astuto amalgama tra panegirico sperticato e accidia storico- filologica. Con questo accendere i riflettori sull’unica data degna di nota, la data dell’esilio, ideale spartiacque fra il Dante giovane poeta e il Dante che assurge a simbolo di tutte le virtù poetiche ed umane, il poliedrico autore del De Comoedia Dantis si cava elegantemente dall’impiccio di fare ricerche serie e di scrivere realmente ciò per cui era stato pagato.
Lo scritto si conclude con una descrizione fisica dell’Alighieri che pare fatta apposta per annoverarlo tra i personaggi mitici e simbolici, piuttosto che fra i grandi della poesia:
Ma anche il suo volto è mitico, scolpito dalla necessità del suo proprio spirito e dalla necessità della nostra fede. L’occhio è grande perché aggrandito dalla sua natura vorace e dalla visione continua, cavo e cerchiato d’ombra perché vive da sé, vive in sé, come qualcosa che s’apra solitaria al sommo dell’anima e non abbia attenenza alcuna con gli altri sensi carnali. Il naso è aquilino come quel che indica il gentil legnaggio, la forza imperiosa, la maschia alterezza; e una ruga lo segna alla radice perché il pensiero la incise e la profondarono i crucci. Grande è la mascella e robusta perché rilevato sia il lineamento dell’osso che la natura destina a prendere e stritolare quel che l’istinto ha scelto. Proteso e appuntato è il mento perché abbia la forma ferrea del conio che penetra e fende il tronco più duro. La bocca è come un serrame ermetico, suggellata sul gran fuoco interiore, inclusa in due solchi, quasi da due fossi difesa; ma dal labbro di sotto è quel di sopra avanzato perché contro il sopruso e l’oltraggio persista il segno del dispregio immutabilmente. Un che di sacerdotale e di regale assume dalla benda la fronte; e bendate sono anche le gote a quel modo che il sudario le lasci ai sepolti, perché tutta la figura abbia un che del resuscitato Lazaro. Un che dell’uomo sollevato dal miracolo sopra l’ombra della morte.[11]
Con questa onirica rappresentazione dantesca l’astuto affabulatore niente di nuovo dice sul soggetto del suo dire, ma ci lascia un testo che parla molto di se stesso – nello stile, nelle parole, negli episodi narrati – e molto poco del poeta che intende celebrare.
[1] Cfr. Laura Melosi, D’Annunzio e l’edizione 1911 della Commedia, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2019, pp. 1-2.
[2] Ivi, p. 25. Il corsivo è nel testo.
[3] Cfr. ivi, pp. 29-30.
[4] Cfr. Ivi, p. 54.
[5] Cfr. Ivi, p. 4.
[6] G. D’Annunzio, De Comoedia Dantis, in Laura Melosi, D’Annunzio e l’edizione 1911 della Commedia, cit., p. 95.
[7] Ivi, pp. 98-99.
[8] G. D’Annunzio, Alcyone, (ed. critica a cura di P. Gibellini), Letteratura universale Marsilio, Venezia 2018, p.388.
[9] G. D’Annunzio, De Comoedia dantis, cit., p.99
[10] Ivi, p. 100.
[11] Ivi, p. 101.