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F(r)attore Rezza.

Conosci il nome che ti hanno dato,
non conosci  il nome che hai

(Libro delle Evidenze)

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Se Santa Rita da Cascia fosse nata a Perugia o che so, a Boston, sarebbe mai stata la stessa?
E se tu indossassi il cappello di Rita, come potrei mai essere sicuro che tu sia veramente Franco?
E poi, dai:  sei proprio sicuro tu di essere uno Jacopo? E se ti chiamassi Timothy invece?
Cosa o chi saresti?

Senza il nome, siamo solo X, un algebrico “nulla” (ma un nulla che non è mai = 0) che assume significato attraverso modalità di relazione e di identità. Non c’è memoria o richiamo che tenga:  siamo solo eco di una voce solitariamente assertiva che si allontana, siamo come la terra che si oscura sotto la linea fratta del tramonto.
Partiamo da qui per addentrarci nell’ultimo progetto teatrale  sviscerato dalla coppia RezzaMastrella, che mi piace poter definire come un vocabolario che è rimasto aperto al termine “chiamare” .
Dopo 7-14-21-28 (2009), ancora la matematica; dalle tabelline alle frazioni dove il trattino del fratto non può che essere delimitazione tra chi sta sopra e chi sotto in un gioco di semplificazioni per arrivare a definire una X che non è più incognita da risolvere ma solo la vaga  possibilità di essere e soprattutto rimanere. L’essere corpo (x) è poco utile se non si è nome, se non si è padroni del proprio chiamarsi;  si resta preda distratta di  sostituzioni tendenti a infinito. La comunicazione diventa voce dell’altro; la modificazione e la manipolazione del ruolo giocano la parte del «fratto»: corpo, voce, parola diventano X che si mutuano in uno scambio continuo dove l’unica costante che si tutela una sua permanenza è il nome (Mario, Rita, Elisa, Timothy…). Ecco quindi l’importanza dell’identificarsi con un nome (sono Rita!). La denominazione e la conservazione mnemonica e associativa di un nome è l’ultimo margine di sopravvivenza di un’esistenza passata e presente. Il gioco delle luci, dei teli e delle voci snaturano e confondono identificazione e relazione, corpo e ruolo;  fino a separarsi dalla voce, che in mancanza di un corpo, è la nostra ultima profonda sicurezza. La manipolazione del proprio identificarsi al mondo non è inconsapevole, è quasi abitudine rassegnata che necessariamente ricerca una conferma nell’altro;  allora se è vero che tu parli con la voce mia, è anche vero che io te lo permetto, muovendo la bocca. Data per scontata l’impossibilità del non comunicare, RezzaMastrella (coadiuvati da Ivan Bellavista) presentano il conto delle molteplici possibilità del subire la comunicazione altrui in un crescendo fino al gran finale dove un gioco di specchi ribalta dal palco alla platea e rende forzatamente univoco il senso della comunicazione. È l’attore a dare voce e luce al pubblico che subisce indifeso e imprigionato un gioco di ruoli, voci, emozioni. È il ruolo stesso di spettatore che ti costringe a parlare con la voce dell’attore. Fino a che non ti alzi con la velata speranza che qualcuno ti chiami col nome giusto.

Note:
Suggestioni da involontario spettatore inconsapevole, coadiuvate dalla lettura di:

“Fratto_X di Antonio Rezza – Dell’uomo semplificato” di Simone Nebbia
“La Noia Incarnita”  il teatro involontario di F.Mastrella e A. Rezza, a cura di Rossella Bonito Oliva (ed Barbès)
“Tutti i nomi” J. Saramago, Einaudi 1998