“golgota” di Alessandro Chiappanuvoli: il chiodo è tratto

di Francesca Fiorletta

Una trilogia della contraddizione, potremmo definirla, questo golgota di Alessandro Chiappanuvoli, che prende spuntogolgota da una sorta di rivisitazione in chiave metaforica della Bibbia.
E in effetti siamo davanti a un calvario fisico e poetico in tre tempi, tanto intimo e privato quanto condiviso e socializzato, attraverso il quale si riesce, con la giusta mediazione ragionativa, a penetrare nei lacerti del sentire umano, portando alla luce i rapporti di causa-effetto talora sopiti e le insondabili aspettative emozionali, le più sane speranze come le ossessioni più disperate, le vagheggiate attitudini estetiche e le pragmatiche necessità quotidiane, spesso tra di loro contrastanti.
Un trittico, dicevamo, sta alla base della costruzione dell’opera, e anche uno dei più classici, invero: il padre, il figlio e lo spirito santo.
Un triangolo in dissolvenza, però, in cui ogni punto cardinale scivola irrimediabilmente nell’altro, come a significare un’imprescindibile interdipendenza tra ciò che siamo, quello che siamo stati e soprattutto, finalmente, quel che (forse!) mai saremo.
Il cammino verso la fattiva (ri)scoperta di sé, perciò, si svela sempre più accidentato a ogni passo, tanto da far dubitare della veridicità stessa dello spazio e del tempo, dell’effettiva consistenza dei corpi e dei ricordi, e, chiaramente, perfino della speranza di resurrezione, di salvezza, di pace.
Una salvezza che è da ricercare, prima di tutto, nella parola e quindi, ancora una volta, nelle sue connaturate contraddizioni.

non c’è amore nella parola del figlio finché la testa è del padre nella testa del padre non c’è amore per la parola del figlio –

Così l’autore si lascia completamente scivolare nel vortice dell’assurdo, del gioco al rovescio di realtà e finzione, indugia nel riflesso specchiato di amore e odio verso la figura paterna allegorica per antonomasia, che sarebbe poi null’altro che la nostra storia, il nostro passato, la nostra società.
Una società paterna sì, come la luce del pensiero, della filosofia, del ragionamento, e al contempo tanto materna quanto la memoria, il caldo sottosuolo, l’assoluto e profondo magma della creazione originale, nel quale tuffare la testa, le mani, gli occhi per riappropriarsi del contatto intimo con la natura (umana, e non soltanto umana).
Una società, dunque, materna e matrigna, come illustri predecessori insegnano, nella quale convivono due spinte propulsive, parallele e dissociate, che pure concorrono allo svolgimento del grande tema: mondo. Più precisamente, ancora: vita.
E sarà proprio questa fortissima dicotomia a dare l’input generatore, necessario alla scrittura, ancora alla parola come metro e strumento di recupero artistico e di laica redenzione:

confuse sempre le due vie di salvezza, agàpe che non basta all’eros, ragione che non basta alla passione, passione che non basta alla ragione, eros che non basta all’agàpe, confuse le due vie mai è la salvezza –

L’autore, per tutta la prima parte del libro, sembra pervicacemente impegnato nella folle ricerca di risposte definitive alle affollate domande dell’umanità, di prospettive assolute attraverso cui rimirare l’incongruente quadro dell’esistenza, e, proprio come farebbe un esperto rabdomante, si cala, come per dispetto di sé, nel punto apparentemente più oscuro e profondo della fragilità dell’esperienza umana.

ognuno andrà
a richiedere
il proprio corpo

Ma poi, nel delicato sviscerarsi del processo cognitivo, tesi antitesi e sintesi arriveranno a modularsi, in maniera quasi del tutto pacificata.
Il lettore, coinvolto e, sulle prime, scosso da un siffatto scavo antropologico e sociale, dubitativo e impietoso, si troverà, via via, a fare i conti con alcune piccole ma sostanziali rivelazioni:

non c’è più il corpo
nessuna attesa
miracolo
parola

E ancora:

non c’è
nessun peccato originale
solo
peccati postumi –

Quello che potrebbe sembrare un atteggiamento disfattista e rinunciatario, perciò, si dimostra invece, a ben vedere, un’indomita e vitalistica speranza, tanto nel presente, benché accidentato, quanto nel futuro, benché misterioso.
La perdita di un iconico (e laconico!) faro nella notte, ormai sciolta l’accettazione completamente acritica nei confronti di un vagheggiato messia, appunto, proprio nella contraddizione insita nell’uso della parola stessa, riporta gli stilemi estetici e comportamentali della società odierna verso una sorta di rivoluzionaria palingenesi, una rivalutazione estremamente laica di punti di vista, letterari e umani, esperienziali e filosofici, volta anzi a una quasi ottimista, tutt’affatto superficiale o lenitiva, percezione del mondo. E, doverosamente, della scrittura.
Il chiodo iniziale, che è solo uno dei molti topoi presenti nel libro, sembra quindi la chiave di lettura dell’intera opera, perché, in conclusione, si rivela essere un perno semiotico sostanziale, sì doloroso e inevitabile, ma al contempo malleabile, per nulla fisso, bensì fisicamente trattabile.
È pur sempre il perno della razionalità, il perno dell’esperienza, il perno della parola.

Un chiodo finissimo
schizzo
l’altra sponda
un chiodo cavato
al centro d’un uragano

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