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La figlia accomodante

Non voglio che il mio stesso silenzio, compagno di sempre, mi divori qui, nell’angolo in cui mi hanno relegata. Ero bella, una volta. Non sono una millantatrice dedita al lamento, vi racconterò la mia storia, e non vi mentirò. Per comodità – e per rispetto – ogni volta che nominerò mio Padre e mia Madre userò la lettera maiuscola, come ho appena fatto, così per i pronomi che userò per indicarli. Potrà apparirvi beffardo, in qualche caso. Me ne farò carico.

Fui adottata molti anni fa, dopo la grande crisi del ’10. La fabbrica aveva già chiuso i battenti: “Fine del ciclo”, ci fu detto, prima di mandarci via. Sì, ero già transitata per un lavoro in fabbrica quando mi scovarono in quel negozietto malandato del centro, dove avevo trovato una sistemazione provvisoria. Mi presero con Loro, come accecati da un colpo di fulmine. Una giovane reduce dal tracollo economico che aveva colpito mezzo mondo, questo ero, una che si arrangiava. Eppure quei Due si innamorarono proprio di me. Come ho detto ero molto attraente all’epoca, tutti ne convenivano – il mio principale confessò Loro di avermi accolta per quello, pur non potendo permetterselo. Ma ciò che Li convinse, credo, fu quella certa aria di orgoglio represso che mi dava la collocazione in un luogo deprimente come quello, non adatto a me, alle mie qualità. Avevo della stoffa, una pelle come poche, ne ero consapevole, e mi sentivo destinata a ben altro. Dei miei genitori naturali non ricordo quasi nulla, tranne il frastuono di una falegnameria dove mi vezzeggiavano, mi pare, forse appartenuta al mio vero padre. Ma è tutto così vago. Rammento però di essere passata di mano in mano, mentre crescevo. “Sta venendo su bene”, ripetevano ogni volta che mi affidavano ad altri, rinnovando il triste cerimoniale che pativo. Mai nessuno che volesse tenermi con sé, che mi dimostrasse un affetto duraturo. Sono stata allevata con tutta l’attenzione ed i riguardi del caso, lo riconosco, ma sempre con il distacco di chi ottempera per professione ad un dovere umanitario. Mi sentivo la cavia di  generose pratiche di volontariato, non una figlia. Non mi bastava. Dicono che l’amore di un vero genitore sia un’altra cosa … io non lo saprò mai. Ad ogni modo la vita in fabbrica mi aveva fatto crescere rapidamente, ero robusta e mi sentivo in grado di badare a me stessa. Fino al momento in cui mi sollevarono di peso per costringermi ad abbandonare il capannone, insieme alle mie colleghe. E furono gli altri operai, i maschi, a fare il lavoro sporco. Li avevano persuasi che il nostro allontanamento avrebbe incrementato i profitti, scongiurando il fallimento dell’azienda. Se l’erano bevuta, quei porci, ingenui e traditori. Li buttarono fuori tutti, nel giro di qualche settimana. Io fui fortunata, il posto in negozio lo trovai subito, poi arrivarono Loro, i miei cari, a portarmi via. Non erano giovanissimi, si approssimavano alla quarantina e si erano appena sposati. Il posto di lavoro che entrambi ancora conservavano impediva Loro di vedere la miseria che avanzava ovunque, e le macerie che si lasciava alle spalle. In quel periodo così difficile immaginavano nuovi arredi per la casa incompleta, progettavano viaggi e figli fatti in casa. Forse mi avevano giudicata adatta per il loro tirocinio da genitore, un buon attrezzo con cui impratichirsi mentre avviavano il cantiere dei loro figli naturali, chissà. Meno delicata di un neonato, niente poppate né vaccinazioni obbligatorie, niente scuola la mattina presto… Un’orfana cresciuta, non troppo difficile da gestire, che Li facesse sentire dispensati da eccessive responsabilità, questo credevo. Che stupida. Ed eccomi qui, a trastullarmi con inutili congetture da vecchio scarpone, a ruminare ricordi avvelenati che hanno ingiallito il mio colorito, spento la mia gioventù. Mi ero illusa, lo so, ma procediamo con ordine. Non ci volle molto tempo per gli adempimenti burocratici, pagarono ciò che c’era da pagare e divenni cosa loro. Cominciai a fantasticare sulla felicità il giorno in cui entrai per la prima volta nel loro appartamento appena ristrutturato, retta da Entrambi come una sposa novella che varca la soglia. Una volta dentro mi posarono a terra, sbuffando come due compressori in riserva di gasolio. Quel rito scaramantico mi fece sorridere, ma  a modo mio, dentro. Non avrei nemmeno saputo come manifestare la gioia, un sentimento di cui non mi fidavo. La fabbrica era stata una dura scuola, si sgobbava per otto ore al giorno su due turni, non c’era spazio per la leggerezza e l’allegria, non rientravano nel mio repertorio emotivo. Quel giorno, mentre fingevo indifferenza, carpii dalle loro confabulazioni che non avrei mai avuto una stanza tutta per me, avrei vissuto nel soggiorno. Per Loro era un luogo privilegiato, ma io avrei voluto uno spazio solo mio, anche piccolo – perché no? – che avesse protetto i dialoghi che di tanto in tanto sostenevo con me stessa. Non m’importava se in quel soggiorno c’era un comodo divano-letto; cosa voleva dire “è il posto più adatto a lei”? Avrei vissuto sempre come un ospite? Non dissi nulla, non volevo sembrare schizzinosa, dovevo essere grata.

I primi tempi mi diedero alla testa, i miei nuovi Genitori mi ubriacarono di attenzioni e smancerie. Bastava che mi passassero accanto per sentirmi inondata di sguardi adoranti, sorrisi e carezze che mi davano brividi mai sperimentati prima. Nulla a che vedere con gli affidatari che mi avevano formata, coscienziosi, ma così tiepidi. A volte quei Due mi osservavano in silenzio, scambiandosi occhiate compiaciute. Era quello l’amore? Me lo chiedevo spesso in principio, poi sempre meno, fin quando mi convinsi di aver trovato una famiglia, di essere amata sul serio. Non crediate che la mia frustrazione stia gonfiando gli eventi per guadagnarsi la vostra commiserazione. Non sto esagerando, non lo faccio mai. Io volevo una vita normale, prima che fosse troppo tardi, prima che il destino mi condannasse alla solitudine per sempre. Chiamiamo ‘vita’ una frattura infinitesimale nello stato di morte senza fine dell’universo, una concessione fortuita. Non so come faccio a saperlo, ma so che proveniamo dal sonno eterno, che siamo fatti di morte e dobbiamo affrettarci a vivere. Io sentivo di aver finalmente sconfitto la morte in me.

Arrivarono altri arredi, la casa prese l’aspetto di un appartamento contemporaneo, ma con quel “tocco di classico a compensare la freddezza della tecnologia” – così disse l’architetto per insaporire la consulenza e giustificare la sua parcella. Arrivò anche il primo ritardo mestruale. Loro: maschio; femmina; Carlo; Martina; come tuo padre; come mia madre. Io: fratello o sorella? Nessuno mi chiese cosa avrei preferito, e mi ignorarono anche per la scelta dei nomi. Non me ne lamentai, nel periodo della gravidanza di Lei la dolcezza e l’affetto consueti si erano intensificati. Tutto il loro tempo libero lo passavano con me, dedicandomi lo svago ed il riposo, soprattutto il riposo. Non di rado, spingendosi e ridendo come matti, piombavano da me, in soggiorno, per conquistare la mia vicinanza. Ero il traguardo delle loro gare di corsa casalinghe. Del resto mi mostravo sempre molto accogliente e ospitale, com’era nella mia natura. In quei momenti giocosi il contatto fisico che mi imponevano era così stretto e soffocante da modellare in me sorprendenti concavità per le loro forme; la morbidezza del mio corpo sviluppato si confaceva al loro amore gestuale, tattile, quasi lascivo. Non sapevo cosa pensare di quelle frequenti invasioni – certo, festose. Ero il centro del loro mondo, il pezzo pregiato della loro collezione di affetti.

Nacque Carlo. Grazie a quella piccola, tenera fabbrica di liquidi puzzolenti e disgustosi, con crescente frequenza cominciai ad essere trattata come una bambinaia – retribuita, mio malgrado, con dosi di ansia non richiesta. Non avevo alcuna intenzione di badare al cucciolo frignante, mi sentivo un’incapace con quel coso addosso, non lo volevo fare. Tuttavia non riuscivo mai ad opporre un vero rifiuto – come potevo? – mi usavano amore, strozzando sul nascere i miei no. Comunque, dopo un paio di settimane circa e con grande soddisfazione della Madre, nostra Madre, divenni molto abile nel quietare mio fratello Carletto. Sì, ‘Carletto’, mi ci affezionai, ecco tutto. Lei me lo affidava rimanendo vigile nei pressi, nel caso si svegliasse di soprassalto. Mi isolava scrupolosamente da lui con una copertina di lana per non farmi macchiare dai rigurgiti infantili, quasi tenesse più al mio decoro che al bambino. L’aiutavo anche durante l’allattamento al seno con la prossimità del mio corpo, sostenendole delicatamente la schiena mentre il piccolo succhiava avidamente. Mi stupiva che anche in quei frangenti così intimi, con la propria creatura attaccata al capezzolo, occhi negli occhi, la contiguità con me fosse per Lei una premessa irrinunciabile. Mi occupava lo spazio e il corpo, si metteva comoda in me, in un certo senso. Mio Padre mi usava alla stessa maniera ogni volta che poteva, e col passar del tempo diventò sempre più insistente e meno riguardoso. Tornava da lavoro, la sera, recando negli occhi e nei movimenti da felino stanco un desiderio inconfessabile – benché solo in seguito ne ebbi la piena consapevolezza. Si liberava della borsa e del soprabito e, col pretesto del saluto, mi sottometteva alle sue voglie silenziose strusciandosi senza ritegno, approfittando della mia disponibilità, della figlia che aveva scelto. Lei lo osservava senza indignarsi, anzi, sovente si univa a Lui nell’abbraccio a tre, sorridendo sorniona. Lei, sua moglie, mia Madre. Non erano le abituali affettuosità, ma il vocabolario delle mie sensazioni era troppo povero per esprimere il palpito agrodolce che mi agitava, il sottile richiamo di quella stretta ripugnante. Senza le parole adatte non riuscivo a definire il mio malessere, i miei pensieri abortivano nell’utero che li aveva concepiti. Non uscivo mai, avevo confinato le mie aspirazioni in un territorio sotto occupazione militare, conquistato con le subdole armi delle emozioni. Non parlavo, nulla sembrava scalfirmi. In fondo ero stata raccolta e strappata al mio purgatorio, ero fortunata.

Venne il turno di Martina, nata secondo programma. Fu così naturale sottopormi nuovamente alla routine da sorella maggiore e madre supplente, accettare il ruolo che il governo domestico mi aveva assegnato. Funzionava così, dunque, una famiglia. Una complessa organizzazione di sentimenti a corso legale e di consuetudini non pattuite cui sottostare, in cambio di amore. I bambini crescevano, ormai anche Martina aveva raggiunto l’età scolare. Entrambi frequentavano una scuola privata che li occupava dalle otto e trenta del mattino fino alle diciassette, così restavo da sola a casa per gran parte del giorno. Continuavo a non uscire, le mie gambe non potevano in alcun modo condurmi fuori da quella porta che mi sfidava. Fui presa da una strana paura del mondo esterno, la prigionia in casa diventò ben presto insopportabile quanto l’idea di porvi fine. Nessuno sembrava rendersi conto della mia angoscia. Avrebbero amato anche la mia pena, la mia debolezza? Il buon viso della mia muta condiscendenza fu l’abituale risposta al cattivo gioco della domanda.

Il ricordo delle sere davanti alla tivù, con i bambini che mi si addormentavano in braccio, è una delle poche cose che ancora riesce a lenire l’amarezza per la mia sorte. Com’erano dolci e odorosi, piccoli quanto bastava per appisolarsi ancora su di me, serenamente abbandonati. Naturalmente le mie preferenze in materia di programmazione televisiva non contavano affatto. Riflettendoci, era come se per Loro fossi esistita a tratti: irretita da quotidiane offerte di plateali tenerezze, nondimeno messa da parte nei momenti in cui la vita familiare avrebbe richiesto la mia partecipazione. Ormai l’avevo capito, la docilità che tanto apprezzavano in me non aveva diritto di voto. Ero perfetta come trofeo da mostrare agli amici – questo sì – il metro del loro buongusto, la medaglia appuntata sul petto della loro accortezza per avermi scelto. Amavano disquisire della mia bellezza, della tranquillità e distensione che la mia presenza donava, ma la sensibilità che mi consumava non era degna di menzione in casa nostra.  Anche l’altruismo, che pure i miei Genitori avevano dimostrato adottando un’orfana come me, si perdeva nelle nebbie della noncuranza altrui. La mia vita passata non interessava a nessuno e io tiravo avanti nascondendomi, celando accuratamente ciò che speravo fosse trovato.

Le cose cominciarono a precipitare diversi anni fa (si celebrava il compleanno di Carletto, mi pare). Durante i festeggiamenti ebbi la sensazione che Lui avesse incoraggiato uno degli invitati a ‘provarmi’. Un lieve cenno della testa nella mia direzione ed uno sguardo ammiccante furono sufficienti perché quell’uomo viscido mi si avvicinasse, mettendosi a sedere e premendo il suo corpo schifoso contro il mio, quasi adagiandosi, nell’indifferenza generale. Immobile come ero sempre stata, fissai gli occhi di mio Padre: due piccole fessure che autorizzavano, sorridendo con orgoglio spietato. Finsi gratificazione, seppellendo la rabbia e la vergogna nel brusio di stucchevoli conversazioni mondane, umide di brindisi gaudenti e fasulli. Detestavo quelle persone nella loro qualità di ospiti, non volevo essere avvicinata da intrusi né data in pasto a sorrisi ipocriti e ruffiani. Ciò nonostante Loro non mi proteggevano, mi esibivano. Quell’incubo, invisibile come ogni mio sentimento, si riprodusse più volte nel corso dei mesi e poi degli anni che seguirono. Mio Padre accordava i lasciapassare per accedere alle mie grazie compiacendosi di quell’indecenza, cucendomi addosso un tormento su misura che non avrei più dismesso. Io mi sforzavo di considerare quegli assalti come parte dei miei doveri di figlia, il prezzo da pagare per l’ammirazione di cui ero oggetto, così disinfettavo ogni umiliazione, credendo in buona fede nella mia capacità di dimenticare e passare oltre. Ero accomodante, ma il tempo non lo fu altrettanto, non con me. Osservando Carletto, un bel giorno realizzai bruscamente di non essere più giovane. Uno sconosciuto brufoloso, con la voce incerta tra la pernacchietta ed il trombone, mi evitava regolarmente per andare a rinchiudersi nel suo computer. E Martina, la piccola: sparita, dissolta. Una specie di donnina precoce dal trucco scuro e marcato, lo sguardo languido e la carnagione anemica si struggeva per un cantante americano, un minorenne senza alcun talento. Fu come un’improvvisa vampata di coscienza, tutto stava mutando intorno a me – o era già mutato – tranne mio Padre e mia Madre. Sembravano partecipare del ristagno in cui vivevo, costretti nei loro ruoli dalle mie mancate ribellioni, trattenuti nel loro ambiguo amore per me. Non ero più giovane. Solo allora mi resi conto di aver vissuto come sospesa in un malessere pigro e sonnolento, in bilico tra l’insoddisfazione e la narcosi dei miei bisogni più intimi, il fotogramma di una vita immaginata bloccato in un imprevisto fermoimmagine. Sebbene fossi in credito di un’infanzia sottratta e mai risarcita avevo assurdamente dilapidato la mia gioventù nelle rassicuranti sabbie mobili familiari. Non avevo osato inserire il mio nome nella lista delle cose da procurarmi per vivere, avevo omesso me stessa, consegnandomi all’arbitrio del destino. Mi ero concessa il lusso della vigliaccheria. Non ero più giovane, è vero, ma mi restava ancora gran parte della vita da affrancare, e soprattutto ero ancora molto avvenente, cosa che non sfuggì ai miei cari Genitori.

Era di aprile, un sabato pomeriggio di aprile di tre anni fa, il cui ricordo non mi dà requie. Carlo e Martina erano dalla nonna, Loro fermi vicino al banco che separa la cucina dal soggiorno, lanciandomi occhiate che non riuscivo ad interpretare. “Si potrebbe… no?”. “Ma dai, non l’abbiamo mai voluto fare, anche se, forse, adesso …”. “L’abbiamo sempre trattata con i guanti, sarebbe anche ora di ‘usarla’ come si deve”. Lui rideva, Lei, invece, recitava un’esitazione che mascherava quella particolare attitudine che consente ad alcune donne di disporre a piacimento degli uomini, se vogliono. Parlavano di me, in mia presenza, come se io non fossi esistita, un oggetto inanimato cui non dover rendere conto di nulla. “Si sporcherà…”. “Sopporterà il trauma”, rispose Lui, socchiudendo le palpebre mentre la prendeva per mano. Si accostarono, poi, lentamente, schiacciarono i loro corpi contro il mio, come avevano sempre fatto, abbracciandosi, aprendosi le bocche con le lingue impazzite. Le mani di mio Padre sembravano dotate di una volontà propria mentre percorrevano affamate i sentieri di mia Madre, inabissandosi nell’avventura della sua gonna. No, le cose non andarono esattamente nel modo che conoscevo e che mi aspettavo. I miei adorati, ignobili Genitori mi coinvolsero nelle loro contorsioni, afferrando le mie forme sode e prosperose e strizzandole al ritmo dei loro spasmi improvvisi, punteggiando di gemiti beneducati il loro respiro affannoso. Nella messinscena della loro depravazione avevano assegnato al mio corpo il ruolo meschino e degradante di comparsa. In un attimo l’oscena lotta che avevano ingaggiato subì un’accelerazione: si liberarono dei vestiti, l’aria cominciò a saturarsi dell’odore dei loro umori e le mani si moltiplicarono, infilandosi nei recessi sinuosi della mia carne ridotta a indegno accessorio del piacere che li bruciava, infangandomi. Avverto ancora la stessa nausea che oggi come allora non riuscì a cancellare i fremiti indecifrabili che mi avvolsero, e che tuttora mi accusano inesorabili. Sporca. Lo schiaffo dei corpi che sbattevano l’uno contro l’altro assunse una cadenza regolare, accentata di tanto in tanto dalle urla soffocate di mia Madre. Sporca. Sudavano, la bocca calda di Lei disegnava cerchi di saliva sulla mia pelle, mio Padre le scivolava dentro bloccandole ogni movimento privo del suo consenso preventivo di maschio, dominando entrambe con la sua presa sicura, con il suo peso. Sporca. Quindi il suo corpo virile, vibrante e contratto, si avvinghiò al mio inondandomi del suo sudore, penetrandomi con le dita mentre Lei ne ingoiava avidamente il succo, espulso con un ruggito smorzato. Sporca, era quella la parola che la vergogna non mi permetteva di rintracciare vietandomene il pensiero, quelle le sei lettere che tacevano in me, che la colpa mi tatuò sul corpo violato. Quegli agguati annunciati – cui rispondevo con la sottomissione – presero a scandire i miei fine settimana per molti mesi, prima che i miei Genitori cambiassero atteggiamento nei miei confronti, in maniera del tutto inaspettata. “Vecchia”, disse mia Madre un giorno, indicandomi con il mento e incassando un’occhiata inespressiva di mio Padre. Vecchia? Ero e sono molto più giovane di Loro, sebbene a volte senta che la macchia del loro amore malato abbia compromesso la mia integrità, la mia stessa vita, guidandola verso il ciglio di un burrone, il futuro dei vecchi. “Vecchia per cosa?”, mi chiedevo. Avevo sprecato i miei anni migliori per loro, i loro bambini e i loro amici, ma ero ancora nel pieno del mio vigore e la mia pelle aveva conservato un ottimo aspetto. “Troppo vecchia per restare in soggiorno, dici?”, chiese il mio affezionato Padre, fingendo di non capire. “Sì, sono stufa di vederla qui, ho voglia di cambiare”, rispose Lei, con la tranquillità di chi non ammette repliche – che non ci furono, infatti. “Cambiare? Una come me?”. Ero furente. Cosa credevano fossi diventata? Una poltrona come la altre? Io sono una Chesterfield! La mia pelle marrone, conciata a mano, era ancora morbida e lucente, e avrei potuto sostenere i loro luridi corpi ancora per anni, grazie all’inalterata consistenza delle mie forme capitonate, uniche e senza tempo, di cui ero e sono fiera! Oppure intendevano nascondere la propria immoralità sottraendomi alla vista altrui? Avevano paura di essere sbugiardati per ciò che erano? Non avrei mai parlato, almeno questo avrebbero dovuto saperlo, non ho mai potuto aprire bocca. Mia Madre fu risoluta e sollecita: dopo due giorni mi ritrovai nella camera in fondo al corridoio, una specie di mausoleo dedicato all’ospite ignoto, incastrata tra una libreria anonima e il muro adiacente. È da quell’angolo che piansi la mia inettitudine, il disgusto per me stessa e per chi avrebbe dovuto tutelarmi, la sorte che mi ero meritata. Ed è in quell’angolo che mi trovo ancora oggi, evitata da tutta la mia Famiglia, sbiadita da questo velo di polvere che mi offende. Ero bella, una volta.

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14 risposte a “La figlia accomodante”

  1. Già ieri ho letto il tuo punto di vista, è stato magico momento leggerlo e scoprirlo d’angolazione diversa.
    Sai cogliere, socio, otiima la pelle.
    c.

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  2. Di Gino Di costanzo ho letto in questo blog più commenti
    che altro. Forse questo è il secondo racconto che leggo,
    Tuttavia devo dire che scrive magnificamente bene e i suoi
    racconti catturano il lettore forse più del dovuto. Molto
    apprezzato.ud

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  3. Grazie socia, è conciata a mano – conciata per la feste! :-D un bacione….

    Grazie UDV. In effetti il lettore lo bracco spietatamente e gli tendo trappole maligne con cui lo catturo, Ma rispetto l’ambiente, sono ecologista convinto e non lo farei mai più del dovuto … temo l’estinzione della specie. ;-)
    grazie ancora

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  4. narrazione che sa agganciare il lettore, molto sciolta. Finale davvero divertente! Complimenti all’autore.

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  5. Mi sono soffermata un momento, prima di scrivere, volevo capire bene che cosa provavo dopo la lettura della storia. Volevo usare il termine “racconto”, ma mi sembra che non si adatti. Un racconto può non essere “vero”, questa storia può esserlo benissimo. Ho provato un’autentica sofferenza, una rabbia quasi incontenibile davanti ad un’ingiustizia che chissà quante volte nella vita vera si ripete. Certo non è giustificabile l’atteggiamento di una donna in una situazione così assurda, ma davvero non è comprensibile? Lo è, io credo, perché un lavaggio del cervello perpetrato per anni con tanta raffinata crudeltà raggiunge eccome certi scopi.
    Scusami, Gino, se prima di tutto ho manifestato queste mie sensazioni, direi, il mio malessere, come donna. Riguardo alla tua bravura, che dire? La tua prosa convince e coinvolge dalla prima all’ultima parola, persino il titolo non poteva essere più adatto.
    Grazie anche per le riflessioni che hai stimolato in me.
    A presto.
    Piera

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