Quando lasci una casa
considera le cose che perdi
tra quelle meno essenziali.
Il vecchio cesto in cui si accumulano
i giornali, lo specchio che non ti vedrà
più riflesso, gli angoli dove non hai
mai messo piede, la vista di altalene
irraggiungibili dalla finestra.
In principio era la luce
del montacarichi alto undici piani
visto dal fondo di un sedile.
La scoperta del mondo comincia
dalle case, misurate a colpi d’anca
sugli spigoli, svanite e ricreate
in una frescura di piani
tra riflessi minerali e odori acri
d’ascensori (un gatto morto
in mezzo ai tulipani)
fino al ricordo improvviso di una voce.
La sala da pranzo inondata di luce
tra i vetri (è un grande acquario
l’infanzia), cuscini per terra
libri troppo in alto, tegole lontane.
C’è di mezzo il ricordo
del tuo corpo, la sua presenza
in quelle stanze, l’immagine
senza suono che assecondava
le pareti, coinvolta nella catastrofe
dell’abbandono.
Poi sono corridoi di specchi
scuole, strade, registratori
che battono cassa, palloni
rondini che non fanno primavere.
Qualcosa si è perso
e ti separa da tutto
vernice su vernice
strato dopo strato
i luoghi che lasci li abiti ancora
il tuo corpo è ricoperto di assenze.
Anche per questo soffri un poco
quando chiudi una casa
quando muoiono le stanze.
.
***
.
(Per fortuna una casa non resta per sempre un’astrazione.
Poi devi pagare il mutuo, gli affitti, la cauzione
firmare contratti con cura, arrivarci piano piano.
Non come me quella volta a Bruxelles
che mi feci fregare
da quel tipo mezzo italiano.
Ma un contratto è una cosa che va fatta da soli
e da solo mi sento sempre in pochi.
Il giorno dopo mi alzai tra cori di grilli
e scoprii che invece erano topi.)
.
***
.
Il comune Molenbeek-Saint Jean, in alto a sinistra
sulla mappa di Bruxelles-Capitale
una strada grande a due corsie
qualche pasticceria buona, il canale
per i traffici commerciali, la guardia medica.
Poi dietro le quinte cumuli di rifiuti
rottami d’auto, alimentari scadenti
facce brutte, lampioni spenti
bambini per strada, moschee
quel palazzo nascosto tra gli altri palazzi
uguali, il portone pesante e bianco
tra le ombre dei capannoni industriali
e dentro una stufa gettata nel cortile
tonfi di ratti sul parquet rigonfio
pellicce abbandonate negli armadi
fili e cavi senza prese, calendari
fuori moda, pacchi di pasta scaduta
ovunque sporcizia, vapori d’alcol
tracce d’umanità fuggita
o perduta.
Fuori la città non ha dolcezze
dura poco l’illusione dei call center
e delle lavanderie automatiche
sulla metro qualcuno legge
qualcun altro si nasconde
chiudono i negozi, cambiano i colori
delle vetrate in movimento
c’è una scarpa sul cemento, fiori
il palazzo di giustizia appare da lontano
enorme fra le impalcature.
Ti scrivo perché ho paura
più di quanto dovrei in realtà.
Nemici sono gli uomini
e nemica la città.
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6 risposte a “NUOVE STANZE – Andrea Accardi”
mi sono commossa!
grazie Andrea
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Cioè: troppo seria!
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mi piace moltissimo
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davvero bravo andrea, una grande resa in questi testi (il primo, poi, è bellissimo)
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belle Andrea. finalmente ho letto tutto con la calma necessaria. mi piace questa tua cifra
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grazie a tutti, ragazzi!
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