
Soli, si è ridicoli.
Uno che si prende cura di se stesso, che si ordina
le cose buone;
quando è in compagnia: è complice, è piacevole.
Ma quando è solo e fa così, sta fra lo schifo e
il patetico.
Il solitario che si prende metodica mente cura
di se stesso,
è come uno che si spazzi il culo con biglietti da
diecimila.
Per esempio, la cameriera ti sta di fronte
(in una trattoria in fondo a una calle)
e ti recita il loro repertorio di primi e secondi
ed ammennicoli vari.
In compagnia, scegliere sarebbe un piccolo rito
irto (di delicatezze e sottintesi),
ma al fondo divertente
(diverte da più gravi cure).
Ma da solo?
Stai con il dito sospeso in aria, pronto a
proferire, professorale.
E all’imporvviso ti
(scarto di pochi secondi, la cameriera non ha
ancora cominciato ad impazientirsi)
chiedi:
Ma che sto a fare con questo ci-ci-ci?
Ci-ci, voglio la bieta coll’olio,
no vorrei l’insalataverde ci-ci che buona,
anzi no gradirei la cicoria all’agro.
Ma chi se ne importa, di quello che gradisci?
Se comincia ad importarne troppo a te,
ha inizio la tua scivolata nelle tenebre,
lungo l’asse inclinato e unto di sapone.
La scivolata, la corsa a diventare uno zitello
maniaco.
Sempre il solito –
Professore come sta? –
angolino, con il portatovaglioli personale.
Tutte le finezze piccole:
riporre in frigidario il bicchiere di succo di pompelmo
appena spremuto così da berlo poco dopo bene
ghiacciato.
O al contrario riscaldare bene la teiera
sciacquandola con acqua calda prima di introdurvi le
fogliette e sopravversarvi l’acqua bollente per l’infusione.
Ecco, se queste fossero arruffianate per una donna che si
porta a casa per la prima volta,
bene. Ma quando sei tu che le fai a te,
è così triste,
da esser venata di pazzia,
cosa.
E pure, che scivolata nel buio, che altra
scarpata, quando il solo comincia a lasciarsi andare.
Avvisaglia che la fine è lentamente incominciata:
Quando il solo –
in caffetterie o posti, per pasti, di ristoro –
non più ordina piatti, ma addirittura fa le ordinazioni.
Cioè, il povero solo parla con lo stesso gergo che i camerieri
usano tra loro:
<<Due prosciutto, per favore>>.
Ma come osi, ma che lingua usi?
L’uomo deve impiegare le parole senza ellissi,
scandirle tutte:
<<Due (pausa) panini (pausa) al (pausa) prosciutto (pausa)
per (pausa) favore>>.
Altrimenti, uno comincia a non farsi più risuolare le scarpe,
ed è la fine.
Oppure, l’altra sera al caffè, un uomo di quelli che la
crudele voce del popolo chiama <<ometti>>.
E’ al telefono, e all’altro capo del filo debbono avergli
chiesto il nome:
<<Dica che ci sarebbe un certo Colliva>>
Senza ironia lo diceva, giuraddio, senz’ombra di scherzo.
<<Ci sarebbe>>! <<Un certo>>!
Così si è già, dimessamente, assassinato.
Lei diceva in una sua lettera
(tiposcritta, a differenza delle altre manoscritte):
Niente a me sembra più personale della solitudine
(penso però all’Atto della Morte) comunque scusa il tono
bizzarro ne do la colpa alla luna.
Sono quei pensieri fondi
che è vero anche
(nausea di vertigine)
il loro contrario:
chi è solo perde la verifica
nei volti degli altri,
perde la sua persona.
Non essere mai guardati
è pochi passi al di qua dell’orrore di essere ciechi.
E non essere ascoltati?
Si racconta che un giorno,
mentre il futuro grande archeologo Enrico Schliemann
quattordicenne
lavorava da garzone nella drogheria di un piccolo paese
tedesco Fürstenberg,
entrò un vagabondo e ubriacone.
Si appoggiò al bancone;
drappeggiandosi sopra come se fosse un grande tappeto
sudicio gettato di traverso su un letto.
Cominciò a recitare versi con tonante voce
e con la scandita enfasi sprezzante
di chi sa di non essere ascoltato
né per questo rinunzia a parlare il meglio che può,
a far suonare la sua tromba nel vuoto.
Ma questa volta il vuoto era abitato:
Schliemann ascoltava,
rapito ancor prima di capire.
Domandò: i versi erano dall’Iliade.
Da quel giorno il garzone risparmiava i centesimi
così da poter pagare al vagabondo,
ogni volta che, slam!, egli compariva sulla soglia aperta
battendo la porta,
un bicchiere d’acquavite:
che lo persuadeva a ripetere quei versi.
Così il giovane assetato di più che acquavite
pagava per ascoltare.
Fiamma pura,
desiderio di sapere?
Sì; forse; anche.
Ma non tutto è trasparente in questo ascoltare a bocca
semiaperta intento.
Molti uomini, sulla collottola il grasso gli si ispessisce,
mentre crescono i loro anni,
s’ingrassano i loro portafogli,
molti uomini sovente pagano per ascoltare.
Ma, Enrico Schliemann?
Sperimentò che si può anche pagare per essere
ascoltati.
Ventiduenne ad Amsterdam, commerciante,
insegnava la lingua russa a se stesso; con:
una vecchia grammatica
un vocabolario
una traduzione del Telemaco.
Studiava su questi, dunque, libri –
da solo; mandava il Telemaco a memoria.
Ma così forte gridava in declamarlo
che la voce
(doveva essere un taurino,
un sanguigno)
rimbombava fra le pareti della sua stanza nuda
(uomo ossesso dalla sua idea,
non badava dove viveva;
bivaccava in un deserto di mobili).
Proteste dei vicini:
due mutamenti d’alloggio.
Pensò allora che un ascoltatore lo avrebbe,
con la sua presenza mera,
aiutato;
a moderare il tono della voce,
a entrare nella civiltà,
a essere più umano più conversativo.
Ma chi avrebbe mai voluto ascoltare lui zoppicante in russo?
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Paolo Valesio nasce a Bologna nel 1939. Attualmente risiede New York dove insegna Lingua e Letteratura italiana alla Columbia University.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:
L’ospedale di Manhattan, romanzo, Editori Riuniti, Roma 1978;
Il regno doloroso, romanzo, Spirali, 1983;
Prose in poesia, raccolta di versi, Guanda, Milano 1979;
Nightchant, Snowapple Press, 1995;
Every Afternoon Can Make the World Stand Still, Gradiva, 2002;
Per approfondimenti e aggiornamenti si rimanda al SITO INTERNET dello stesso Valesio.
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*la dicitura “Prose in poesia” era inizialmente stata apposta quale sottotitolo alla raccolta “V ae” dallo stesso Valesio.
