Lost in quotation (1)

(1)

Un amore. Una vita. Se una cosa è così complicata da non poter essere spiegata in dieci secondi, allora non vale la pena di saperla. È un tormento che ha a che fare con me e con voi. Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo. Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere. Una storia non ha né inizio né fine: uno sceglie arbitrariamente un momento da cui guardare indietro o avanti. Sono qui da poco. Voi non sapete nulla di me.  Le cose non vanno mai come ci si aspetta. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sì, o invece sì. Ci sono momenti in cui ciò che deve essere detto ti guarda dal passato – ti guarda come qualcuno da una finestra e tu per strada, che cammini. Voi non sapete nulla di me. Questa frase non dovrebbe infastidirmi, ma non riesco a togliermela dalla testa. Voi non sapete nulla di me. Se sono matto, per me va benissimo. Ho cambiato religione così tante volte che al momento non ho idea se ne sia rimasta qualcuna. Penso che, se sentissi una voce dal cielo che mi predice tutto ciò che mi capiterà nelle prossime ventiquattr’ore, compresi alcuni avvenimenti che sembrassero altamente improbabili, e se poi tutti questi avvenimenti accadessero veramente, forse mi potrei convincere dell’esistenza di qualche intelligenza sovraumana. E se fossero solo le sei? O addirittura le cinque?

Potevano essere le cinque. Qualsiasi ora fosse, non ce l’avrebbe fatta a riaddormentarsi. Ultimamente era diventata un’abitudine, quella di restare sdraiato al buio in preda all’apprensione, in attesa della sveglia. Io non sono chi sembro essere, mi ripeto più volte davanti allo specchio del bagno, in sordina quando non sono solo e ho bisogno della compagnia fondamentale della mia frase prediletta, mentalmente quando persino il sottovoce potrebbe sorprendere quella vigile ed aggressiva disponibilità che gli altri ci dedicano. Non riesco a ricordare esattamente in che modo cominciò. La porta dell’anima è chiusa ma ogni tanto appare un filo di luce, una lettera passa sotto la porta. E pur trattandosi di una resistenza di principio nei confronti di qualunque novità, una lettera, anche la più lunga, costringe a semplificare ciò che non avrebbe dovuto essere semplificato. Nessuno poteva dormire. Sono solo nel buio a rigirarmi il mondo nella testa. Non vorrei darmi il tono d’un piccolo burocrate, però mi spaventa solo l’idea che possa venire qualcuno e non trovarmi. Che si sia o meno fan di Barthes, Foucault, de Man, Derrida, quando si sa una cosa è impossibile non saperla. Scrivo queste parole e mi sembrano senza senso, così come l’immagine della sua bara calata in una fossa di terra. Bisogna stare attenti ai pensieri che vengono di notte: non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e sono privi di senso e di limiti. Il tempo sembra passare. Mi tornavano in mente le immagini di quella giornata, immagini di corpi senza arti né teste. Essere morti è della massima importanza. Forse chi inganna meno sé stesso è chi ammette che tutti stiamo soltanto scherzando. Questa gente adulta e tanto intelligente s’è chiusa dentro una rete, una maglia tiene su l’altra, sicché l’insieme appare naturalissimo. È questa la paura che tien saldo l’universo?

Un dolore diverso da qualsiasi dolore patito finora si preannuncia. Se attingo alle mie riserve di pazienza è perché qui per me il tempo scorre senza senso, uno stato che predispone alla ribellione. Probabilmente sono stato in guerra. Ho una cicatrice dietro l’orecchio, una macchia oblunga di carne sterile dove non crescono peli. Adesso è coperta e può essere nascosta anche dal più maldestro dei barbieri, ma nessun barbiere può nascondere la cicatrice che ho sulla schiena. Per quella sarebbe più indicato un sarto. Dopo cena rimasi ad aspettare. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Seguono la notizia alla televisione dopo cena, con una tazza di caffè appoggiata lì accanto. Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri ci abbiano trovato la morte fra torture indicibili. Penso che la facilità e la capacità che hanno di parlare con tanta sicurezza, non ci porti molto lontano. Parliamo pure della buona salute mentale. Parlare, non c’è che questo, parlare, vuotarsi, qui come sempre, nient’altro che questo. Meno sappiamo e più lunghe sono le nostre spiegazioni. Certe cose esistono solo perché se ne parla. Siamo fatti per questo. Per resistere e arrivare fino alla fine.

Con un piccolo sforzo è possibile dimostrare che ogni cosa si ricollega a ogni altra. Era cominciato con la paura. Penserei volentieri ad altro. Ma so che devo tentare di scrivere ogni cosa finché rimane in me una traccia. Tutti sappiamo che molti sono sfortunati nel loro cammino attraverso il mondo, ma non conosciamo tutti quelli che lo sono. Il che in un certo senso giustificava tutto. Non avevamo nessuno. Il mio infermiere non può essermi nemico. Ho preso a volergli bene a questo controllore appostato dietro lo spioncino. Appena mi entra nella stanza, gli racconto vicende della mia vita; cosí, nonostante lo spioncino che gli è d’ostacolo, impara a conoscermi. Un grido attraversa il cielo. Non è la prima volta, ma ora è quasi inaudito. L’abitudine è necessaria; è l’abitudine di avere delle abitudini, di fare di una traccia un solco, che è necessario combattere, se si vuole rimanere vivi. Siamo continuamente incalzati dalla domanda: “E dopo? – Sì, ora capisco, ma dopo?”- Conosco solo il mio angolo e quel che mi passa davanti. Il giorno che mi hanno portato qui, ho notato solo un cancello aperto perché entrassi. Quando mi sono alzato, ho colto con l’occhio alcune gabbie che c’erano più avanti. Un tempo la mia cella doveva essere una lavanderia: la porta e la finestra danno sul cortile. Le sbarre della finestra sono state aggiunte all’interno in modo che non si possa arrivare al vetro e romperlo. Nascosti da una tenda ci sono i servizi igienici. Addossate a una parete ci sono un tavolo e quattro sedie fissate al pavimento, addossati alla parete di fronte quattro letti che si possono ripiegare. Tre sono ripiegati. L’impulso di condividere con qualcuno un’esperienza è irresistibile per me, e ridano pure alle mie spalle, gli altri. Non m’importa. Soffocherei se non parlassi. E, con tante visite, la porta di casa rimaneva aperta come nelle veglie funebri o come nelle case dove è accaduto qualcosa di grave. Ero sfinito, sfinito mortalmente da quella lunga agonia, e quando alla fine mi sciolsero e mi permisero di sedere, sentii che i sensi mi abbandonavano. La vera autenticità non sta nell’essere come si e’, ma nel riuscire a somigliare il più possibile al sogno che si ha di se stessi. In questa vita ci mostrano soltanto i trailer. Per questo bisogna reggere.

Questo succedeva molto tempo prima. Nessun poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo. Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto di farlo internare in un manicomio. Gli pareva, tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile. Che cosa c’era in lui di così complicato? Nel giro di qualche settimana già faticava a ricordare i nomi delle cose. Sono andato a trovarlo due o tre volte. Tre volte. L’ultima volta il giorno dell’esecuzione. Non ero tenuto ad andarci, ma ci sono andato lo stesso. E non avevo certo voglia. Oppure sarà stato un altro motivo venuto da chissà dove e poi scomparso dalla memoria, come scompare il seme una volta che la pianta è cresciuta. Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sotto i portici, di notte passate le tre. Qualsiasi forma di debolezza comporta sofferenze e umiliazioni, non importa come si manifesti o di chi si tratti. È stato straordinariamente semplice fuggire. Poiché la fortuna, a lasciarla fare, è quello che è. L’idea della sedia elettrica, poi, mi fa star male fisicamente, e i giornali non parlavano d’altro: titoloni che mi guardavano fisso a ogni angolo di strada e all’imboccatura di ogni stazione della metropolitana con quell’odore di noccioline stantie. È una metropoli quella che abbiamo sotto gli occhi. La vediamo attraverso lo sguardo di un uccello notturno che vola alto nel cielo. Di fronte a me c’è una donna coi capelli grigi. Ogni volta che l’infermiere guarda da un’altra parte schiocca le labbra, dice muta aiutami, ti prego aiutami. In faccia ha solchi profondi e sporchi. Gli occhi sono gonfi di paura. Sono quelli sulla metropolitana il cui sguardo indifferente ha qualcosa dentro che in un certo senso mette i brividi. Qualcosa di rapace. Un po’ come gli automobilisti che rallentano e restano a bocca aperta se vedono un incidente stradale: ci tengono molto a una concezione di se stessi come testimoni. Tutta la vita umana è profondamente immersa nella non verità. E’ buffo come i colori del vero mondo divengano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo. Il cinema è solo una moda passeggera. È il dramma in lattina. Il pubblico vuole vedere storie di carne e di sangue rappresentate in palcoscenico. Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica. Il cinema non è un mestiere. È un’arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca. E per Bergman, essere solo significa porsi delle domande. E fare film significa risponder loro. Niente potrebbe essere più classicamente romantico. Soltanto una vita vissuta per gli altri è una vita che vale la pena vivere. Una vita che miri principalmente a soddisfare i desideri personali conduce prima o poi a un’amara delusione. La vita non ha senso a priori. Noi non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso dei valori, delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. La storia della nostra società è come la storia di un uomo che si butta da un grattacielo e, man mano che precipita, si ripete per farsi coraggio: “Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.”

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