Poesie di Giuseppe Nava
[Con Giuseppe Nava continua la seconda fase della rubrica di poesia contemporanea di poeti nati negli anni ’80. In ordine sono stati pubblicati Fabio Teti, Greta Rosso, Valentina De Lisi, Chiara Daino, Domenico Ingenito, Simona Menicocci, Carmen Gallo, Francesco Terzago, Tommaso Di Dio, Mariasole Ariot, Luca Minola e Alessandro Giammei, Anna Ruotolo, Michele Ortore, Alfonso Maria Petrosino, Sergio Garau e Marco Bini. Per ciò che concerne i testi di Giovanni Catalano, Luigi Bosco e Luciano Mazziotta, in quanto redattori di Poetarum, si rimanda ai link di altri blog: Stroboscopio per Bosco, Imperfetta Ellisse per Catalano e La dimora del tempo sospeso per Mazziotta. Sempre su Poetarum Silva, sono stati inoltre segnalati da G. Montieri e N. Castaldi Riccardo Raimondo e Nadia Tamanini. Si ricordano inoltre le due pubblicazioni di Natalia Castaldi focalizzate sui poeti di aerea sicula Domenico Stagno e Andrea Cangialosi.]
a deeper kind of slumber
mentre dormivo i grandi castelli
mostrarono fondamenta di carta
e sotto le carni ossa di gesso
e orbite vuote dietro gli occhiali
scuri e tutto cominciò a sfarsi
la sabbia della fiducia a infilarsi
sotto le palpebre tremanti di rem
la polvere dei nervi logorati
la ruggine delle parole scritte
sullo strato di minio dell’abbaglio
quei nomi ossidati nel piombo e fusi
fino a farli credere veri e giusti
e dicevo serio andrà tutto bene
cosa mai può accaderci di male
– e non pensavo ancora al farsi mute
ogni giorno delle voci stonate
non pensavo al crepitio al disturbo
al digrignare dei denti la notte
che sfoga compiaciute ignoranze
con quel vuoto masticare di niente
non pensavo e non volevo pensare
al malcelato ammiccare dell’ansia
al malessere di sapere vera
la sabbia della fiducia infilata
nel cemento dei monumenti delle
strade delle case dello studente
– la sabbia il detrito spinto dal vento
che fa lacrimare un poco gli occhi
– non è niente dormi è ancora buio
*
mentre dormivo i treni son partiti
e resto incerto tra i binari morti
i vagoni vuoti le rotaie unte
con la mia borsa ancora indecisa
tra l’indispensabile e l’inutile
con l’eco dei viaggi immaginati
ancora impresso nella retina
immersa nel sonno mentre lo speaker
mi invita a stendermi a lasciar perdere
con affondi indifferenti come
quanti anni è che prendi la rincorsa
cosa farai adesso che i legamenti
si sono irrigiditi ora che il mondo
ti tiene stretto forte alla sua voce
– come la voce dagli altoparlanti
sembra vera ma sai che non lo è
con quello scivolare sugli accenti
sulle pause e quel tono saccente
lontano senza vergogna nemmeno
nell’annunciarti la morte il danno
innato – come questa voce adesso
che sovrasta si espande come gas
l’onda di una maligna ninna nanna
che smussa i picchi sempre più piatti
sempre più piani livella le curve
allenta la presa dei desideri
finchè non convieni che è giusto così
– mi difendo cammino senza fretta
avanti e indietro sulla banchina
brandendo sigarette contro il tempo
e contro il freddo
– ma l’attesa è tanto lunga
ti prende un tale sonno
*
mentre dormivo i bambini più svegli
han trovato lavoro fatto figli
e famiglia hanno acceso mutui
spento contatti speso soldi e tempo
hanno sacrificato come aztechi
agli altari di dèi sanguinolenti
sull’unta piramide dei bisogni
nero sangue scorre giù dai gradoni
impregna il sonno sempre più profondo
il corpo spugnoso il midollo i gangli
tira a fondo nella terra che drena
assorbe asciuga secca fino a che
non restiamo io e te a fregarci gli occhi
per non scivolare ancora più giù
– giù nella bocca nera sbadigliante
di una vecchia miniera nel deserto
dove attendono i nostri baccelli
(come in quel vecchio film in bianco e nero
che non abbiamo mai visto finire
– ci siamo sempre addormentati)
*
mentre dormivo ho perso la pelle
come un serpente senza parole
senza coscienza ho fatto la muta
dal mare al derma d’inverno normale
dai grandi sogni ai sogni senza senso
addormentato come ogni altra volta
la bottiglia finita i libri sparsi
la pelle vuota là sullo schienale
accanto alla camicia ai pantaloni
*
mentre dormivo mi sono perduto
come i bambini tedeschi in spiaggia
tra file colorate di ombrelloni
giallo verde blu rosso giallo verde
blu rosso assimilati nel torpore
mi sono perduto ma nessun annuncio
è stato dato nessuno è stato
chiamato per altro che non sorrisi
come in un sogno tutti parlavano
una lingua uguale ma diversa
fatta di parole disidratate
rimasticate svuotate del succo
uno scorrere di sassi di pietre
attraverso secoli di erosione
e ora i calcoli non fanno più male
si può pisciare senza più pensare
ci si può avventurare nel bosco
del sonno profondo come quel tale
con i sassi in tasca e l’illusione
di poter tornare di essere ancora
vero di essere ancora proprio
– insisto a perdermi sulla soglia
a concentrare la mia voce come
un grido nell’alta notte feroce
un discorso acceso a fiamma bassa
due parole irregolari in banca
qualche graffio su braccia depilate
qualcosa come un alito cattivo
sull’ora dell’aperitivo come
qualsiasi cosa pur di non dormire
pur di non affondare –
è di nuovo
ora di tornare a lavorare –
*
(quant au monde, quand tu sortiras, que sera-t-il devenu? En tout cas, rien des apparences actuelles)
*Biobibliografia
Giuseppe Nava è nato in provincia di Como nel 1981 e vive a Trieste. Nel 2008 ha pubblicato “Un passo indietro” per l’editore Lietocolle. Nel 2009 ha vinto il premio di poesia DePalchi-Raiziss. Fa parte della redazione della rivista Bollettino ‘900, sulla quale ha pubblicato “Oscure ragioni”. [http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/Nava3.html] Altri suoi testi si possono leggere sul portale Absolute Poetry. [http://www.absolutepoetry.org/Figli-degli-anni-80-n-III]
7 risposte a “Poesie di Giuseppe Nava”
mi piace.
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scrittura densa, ricca di belle immagini.
bella proposta
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Grazie a Morfea e a Vincenzo.
Un grazie anche a Luciano Mazziotta per l’invito :)
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Poesie (o “macchine”, forse, per la generale coerenza strutturale) molto sicure, che vanno a rischiare un tono monocorde (per prosodia e andamento generale) continuamente riscattato dalla nettezza degli enunciati e delle immagini. (e ciò è perfettamente in linea, direi, con la stessa dialettica riscontrabile sul piano dei contenuti, dove lo “slumber”, il dormiente, deve portare il suo stato di partenza – in qualche modo negativo – a possibile motore del conoscere e del dire).
complimenti e un saluto,
f.t.
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Grazie Fabio, sono contento di ciò che hai notato. Credo che questa mia fissa per il sonno come “resa” venga da una fascinazione di lunga data per le veglie di Rimbaud (che non a caso ho citato nella chiusa): anche se qui la veglia non è certo una forma di dérèglement de tous les sens, o un atto sciamanico di conoscenza, ma piuttosto l’idea di una forma di resistenza. C’è come un livello di superficie, a cui affiorare in un tentativo ininterrotto di non annegare nello “slumber” – il sonno profondo, l’abulia a cui siamo spinti. E’ là che si prende fiato per sopravvivere e conoscere e dire.
Saluti!
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