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Matteo Fantuzzi – poesie (post di natàlia castaldi)

Da Kobarid (Raffaelli, Rimini 2008)

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Il portiere di riserva non esulta come gli altri

rimane fermo abbarbicato alla speranza

che quell’altro in calzamaglia se lo stracci un legamento

per entrare tra gli applausi, conquistare il proprio posto,

avere donne, case al lago, delle macchine potenti.

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Avere gloria finalmente. Il portiere di riserva

se ne gira col cappotto anche di luglio per non prendere un malanno,

perché una volta era il suo turno, ma lui era a letto

con la febbre, ed entrato il ragazzetto degli under 18

strappò un 9 alla Gazzetta, e oggi gioca in Premier

nel Newcastle, ed ha fatto anche la Champions.

E due réclames per gli shampoo.

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Perché volendo pure Modena è lontana

e allora uno si chiede: – Quanto tempo?

Un anno. E un anno è poco ma anche tanto,

se a casa sta una moglie a letto con le doglie

con la testa della bimba dietro al corpo col cordone

cinto attorno al capo ed urla “padre, padre”

e il padre sta a combattere la guerra

ad ammazzare i figli di quegli altri

a compiere gli stupri, in modo la sua razza sia difesa

e sia immortale: e salva sia la sua famiglia.

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Devi diventare più aggressivo col lavoro

perché oramai va forte anche l’usato

e un poco ovunque spuntano degli outlet;

devi andare (avrai capito) nei luoghi del dolore,

in clinica oncologica ad esempio, e dire:

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“Lei è incurabile per caso? E quanto tempo ha a disposizione,

un anno? E alla bara ha già pensato? Io le vendo da 20 anni,

importo il legno dalla Svezia, sono bravo, costo poco”.

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O ancora meglio ti dovresti fare forza e suonare

porta a porta nel paese, e chiedere a chi t’apre

se per caso è a conoscenza di qualcuno che sia morto

o lì per farlo o se quello in primis (pure in ottima salute)

non volesse già decidere la cassa.

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Perché tanto “quella” arriva e non fa sconti,

e per lo meno allora la tua bara sia economica e curata,

di buon gusto, fatta a mano, da un esperto del settore.

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Devo prendere gli antipsicotici,

è quello che ha detto Nazzoli alla clinica.

I motivi già li conoscete:

ho reazioni scomposte ed attacchi di panico.

Alle volte mi pare qualcuno mi fissi

sull’autobus, è a quel punto che cerco

di sfondare il vetro scappando per strada.

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Fingo d’essere un terrorista due volte ogni anno,

minaccio l’autista con il tagliaunghie,

gli dico di portarmi in Piazza dei Servi:

lui ormai mi ha presente (è lo stesso da anni)

in fretta mi lascia nel luogo richiesto,

chiede scusa alla gente sul mezzo

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e riparte. Ridendo.

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dimmelo mamma:

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che sono bellissima, come le ballerine alla televisione,

anche se in classe mi chiamano

scimmia e mi gettano in faccia le arachidi.

ma tu dimmelo. dimmi che io sono

intelligentissima meglio dei miei professori

che mi urlano “scema perché non capisci che è così semplice: è ovvio! ”

che mi hanno affidato a una tizia che insegna le cose più semplici.

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ed io te ne prego tu dimmelo: dimmelo

mamma, ti prego, e smetti di piangere. Basta.

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Precariato

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E non sai più cosa aspettarti

da questo borgo in mezzo alle montagne

dove la gente invecchia e non fa figli,

che si spopola. E tu che sei il becchino del paese

come tuo padre e il padre di tuo padre

(e che non vuoi, non puoi)

ti domandi come sarebbe meglio: che crepassero

in un solo colpo tutti per chiudere bottega,

oppure un po’ alla volta, goccia a goccia, per vivere di stenti,

ma nel contempo andare avanti, per resistere.

E sopravvivi in questa prospettiva di precario,

di chi lavora a termine, si attacca al calendario,

e quando senti un’ambulanza tremi e esulti assieme,

perché è così: oggi si mangia,

ma nel contempo non hai più un cliente,

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è un nuovo scatto

che procede e porta al baratro, ti annienta.

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Ode al Lexotan®

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Forse li avremmo avuti per più tempo

i Dino Campana o gli altri con quei farmaci:

io ad esempio, previdente, per entrar già ora

nella gloria ho iniziato con 10 gocce al giorno

prima di coricarmi; e ho intenzione

di protrarre tutto questo fino a quando

non saranno conclamati i tempi di dosaggio cronico

o non sarò riuscito più a trovare

un medico ben disposto nel prescrivermene.

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Vedi, pure il mio testo in questo modo si modifica,

ora è più lento, non fa male. Non mi assale nel protrarsi

nella notte. Ora questo testo non mi sbrana.

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Eppure non ne parla mai nessuno nei telegiornali,

e a me viene spontaneo sempre domandarmi

se in India o nel Centrafrica

si crepi poi realmente per gli stenti o solo per un raffreddore

e che non stiano quelli invece bene, come sulla costa romagnola

o nei locali sardi, come la bella gente

con i sandali griffati o con gli yacht da ottanta metri,

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perché altrimenti se qualcuno stesse male lo direbbero

senz’altro non parlerebbero del tempo o delle mode

dell’estate, cosa si beve o cosa fare verso sera.

Perché se no non lo farebbero:

e se un metalmeccanico italiano non arrivasse a fine mese,

fosse costretto a far la fila in Caritas per far mangiare

la famiglia tutti i giorni in tv ne parlerebbero,

perché anche questi avranno certo una coscienza,

un senso d’oppressione che li annienta

giunti a casa, chiusi nella propria stanza.

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Primo Levi

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Che ne direbbe oggi Primo Levi

di un uomo scarno, dalla fronte

china e dalle spalle curve

e sul cui volto e nei cui occhi

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non si possa leggere una traccia

di pensiero? Posto sul divano

come statua: tra i programmi

del secondo pomeriggio, tra le

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vicende della cronaca ed il gossip;

le televendite, il meteo pronto ad annientarci,

i corpi esposti a quarti appesi ai ganci,

ancora freschi, con il sangue.

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Aspetto davanti alla stazione di Bologna

un mio amico residente nel bresciano

e che non vedo ormai da tempo.

Non tutti i viaggiatori sanno che lì

c’è un orologio rotto: alcuni modificano

il proprio, mentre altri si rivolgono

agli addetti chiedendo spiegazioni,

lamentando il disservizio.

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E per certuni quella lapide è patetica,

porta tristezza alla mattina presto a questi

che si recano al lavoro. Gradirebbero piuttosto

un cartellone che la sostituisca,

qualcosa d’esplosivo, una pubblicità di sconti

eccezionali, di prezzi bomba, qualcosa

d’inimmaginabile, che colpisca le coscienze,

che sui passanti abbia un effetto devastante.

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Poesie della ripresa.

Da Versodove n.15

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1.

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Guido fa lo sciopero, non mangia

tra poco chiude la sua azienda

e questo è quanto. Degli altri

non sappiamo niente, dei più giovani

soltanto che a nessuno è stato confermato il posto.

Quelli da due mesi nel picchetto

sono consumati, più dei loro anni più della paura

di non avere da nutrire i figli, da pagare il mutuo.

E’ la paura di morire a 50 anni soli, lentamente

e non lasciare nulla a chi ti è stato accanto.

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Nel settembre dell’Ottanta, dopo le vacanze

il gruppo FIAT annuncia di dover tagliare

ventiquattro mila dipendenti (si licenzia sempre

dopo le vacanze, perché le ferie non godute costano,

d’altronde c’è un settore in crisi e per riprendersi

saranno necessari almeno un paio d’anni).

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Dopo 37 giorni di protratti scioperi e cortei, presidi

degli operai – degli impiegati pure – i dirigenti

dentro ai sindacati, nei partiti, della fabbrica

trovarono la quadra e tutto fu semplicemente fatto

come si fa oggi che nessuno dice quello che vorrebbe

e lascia la sua dignità si sciolga nei piazzali

dove si picchetta o si rimane

tra le presse, come accade sempre agli ingranaggi.

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2.

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(nei giorni successivi i taxi sono gratis per i parenti delle vittime, ricoverati dentro gli ospedali cittadini)

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come un padre che scava solo e a mani nude

un figlio fino a sanguinare e che non smette

se lo getta addosso e non lo lascia,

carne della carne. Pure se una gamba resta

sotto le macerie e Marco non potrà più essere

mezz’ala e correre veloce sotto la tribuna,

tra i distinti laterali proprio dove spesso stanno

i famigliari che applaudono comunque

qualsiasi cosa accada, pure dopo una sconfitta

come fa chi aspetta a casa con il fuoco

sotto la minestra e che comunque resta.

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3.

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Se pieghi lungo il viale,

oltre il ponte, oltre le file del mercato

vedrai la gente stesa a terra

che si guarda.

Saluta come chi ha deciso di partire

e ogni momento è quello buono

per prendere le cose dal tinello

(pochi ricordi, una conchiglia

qualche foto da ragazzi)

ed infilare tutto dentro al petto

nel doppiofondo del cappotto

prendere il cappello e andare

dritti nella nebbia fino a scomparire

a non lasciare traccia

come chi si porta dentro l’argine da solo

e lì rimane cosa ferma, dentro l’acqua.

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4.

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Salutare prima di partire

dare da mangiare ai cani

un bacio in bocca alla compagna

(che ora dorme).

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Chiudo a chiave come chi saluta

e si congeda, guarda nella stanza

mensole e tappeti per ricordare ancora.

Ma tu che fumi scalza sul terrazzo

e ancora non ritrovi la notizia

tra le cose che certe volte accadono

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ti passi tra le dita frutta fresca e resti

con l’orecchio teso alla Brionvega

e intanto aspetti che il giornale

si rimangi tutto, dica d’altri:

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non Bologna, non il treno, non quell’ora

ovunque, ma sia altrove. Non io vedova,

una madre che cresce il figlio senza un uomo

con le foto del marito in sala

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vestito bene il giorno del congedo militare

e tu da un lato – bella – pronta per la vita

assieme con l’abitino a gonna corta, con i fiori.

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5.

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Lettera ad Enrico.

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Caro Enrico, spero tu stia bene.

Qua le cose vanno fino a un certo punto

e poi si fermano. Tu non crederesti a quello

che è accaduto in questi giorni

e non ti parlo del partito. Le cose

non si sono ricucite ovunque, qua si cambia

per non cambiare niente e nelle stanze buie

se ne stanno ancora tutti quanti.

Io non so che dirti Enrico

non sappiamo nulla delle stragi dopo così tanti anni

che si perdono nella memoria luoghi, eventi,

fatti: e tutto vale quanto il suo contrario

ci accontentiamo di mangiare giorno dopo giorno

le bucce che ci scendono dal tavolo per terra

e che si sporcano di polvere. Enrico adesso

non si crede e basta, si pensa solo a respirare

a pelo d’acqua salendo sopra gli altri morti,

s’infierisce sopra i corpi senza compassione, senza pianto.

Enrico spero che a te almeno tutto vada meglio,

spero tu non soffra, spero tu non sappia perché credo

non vivresti come non facciamo noi nel quotidiano.

Ti saluto come con un padre ed un fratello

assieme, con l’affetto di chi non si conosce

eppure ti cammina accanto. Salutami Pier Paolo.

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Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista negli anni delle contestazioni e delle stragi. Morto a Padova l’11 Giugno 1984 dopo essere stato colpito quattro giorni prima da un ictus durante un comizio che comunque volle portare a termine. Al suo funerale parteciparono un milione di persone, quasi tutte con l’Unità sotto braccio.

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Matteo Fantuzzi

Matteo Fantuzzi (1979) è nato a Castel San Pietro Terme in provincia di Bologna. Ha pubblicato Kobarid (Raffaelli, 20082 – Premio Camaiore Opera prima, Premio Penne Opera prima). E’ redattore delle riviste Atelier, clanDestino e ALI, collabora con la rivista Le Voci della Luna, con l’Annuario di Poesia edito da Gaffi e col quotidiano La voce di Romagna dove ogni lunedì cura una rubrica dedicata alla Poesia Italiana Contemporanea. Suoi testi sono apparsi su molte riviste (tra cui Nuovi Argomenti, Yale Italian Poetry, Specchio, Gradiva e Atelier) in una quindicina di Nazioni tra l’Europa, le Americhe e l’Asia. Ha creato il sito UniversoPoesia e curato La linea del Sillaro (Campanotto, 2006) sulla Poesia dell’Emilia-Romagna.

11 risposte a “Matteo Fantuzzi – poesie (post di natàlia castaldi)”

  1. ricordo bene tre di queste poesie, per averle sentite, una domenica pomeriggio di qualche anno fa a Crema o Cremona. Non conoscevo Matteo come autore, ma mi rimasero impresse tre poesie: Il portiere di riseva – ode al lexotan – e aspetto davanti alla stazione di Bologna, che non ho più dimenticato. Per il resto fu una domenica di merda, ma questa è un’altra storia, finita. Molto bella anche Lettera a Enrico, che avevo già letto in facebook, forse. Complimenti

    gianni montieri

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  2. Caro Matteo, ti ringrazio per avermi regalato questi tuoi testi da condividere con chi passa da qui, magari in silenzio, per fermarsi ad ascoltare.
    Sono belle tutte, molto molto belle, piene, dense, vere, “tagliate” per cucirsi addosso, per dare una scossa alla coscienza di chi ha abdicato ad altri la capacità di fermarsi anche solo ad osservare il nostro tempo, il nostro sfascio.
    Come ti dissi in posta, la tua “Lettera ad Enrico” mi ha scossa particolarmente, riportando alla memoria una ferita mai chiusa, più ferite in una data. (qui puoi capire la ragione delle mie parole: https://poetarumsilva.wordpress.com/2010/06/07/11-giugno/ )

    Grazie per essere stato con noi. Buona vita.

    nc

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  3. seguo Matteo nel suo blog UniversoPoesia (ora un poco meno). Ha una potenza espressiva e comunicativa rare. Bel leggere e felice di ritrovarlo anche qui.
    antonella

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  4. grazie Natalia, di avermi fatto conoscere questo poeta capace di mettere in versi la vita e la società.
    ha una fluidità davvero eccezionale.
    ho letto e riletto e sempre con coinvolgimento profondo.
    Matteo Fantuzzi scrive e scava, filma la verità più dura, l’atrocità gli diventa parola poetica e comunicativa… niente di più difficile, ma a lui riesce.
    cb

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  5. certo che giocare nel newcastle, pure se in premier, non è poi ‘sto grande traguardo…e poi per me fantuzzi può essere redattore anche del vangelo di gesù cristo, ma resta il fatto che ‘ste poesie non dicono nulla di nuovo…

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