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Greta Rosso – Dimore precarie – silloge

Ho conosciuto Greta Rosso e la sua poesia l’inverno scorso, in una splendida serata al Circolo Sud di Milano, fu una serata molto bella. In un circolo gremito Greta e altre due poetesse (tutte molto giovani) seppero conquistare il pubblico con la freschezza emotiva dei debutti (o quasi) e la forza dei proprio versi. Le poesi della Rosso, mi colpirono molto per originalità e per quella capacità (rara) di incidere a fondo usando un linguaggio a volte scarno, ma deciso e intenso. Vi propongo qui in lettura la sua silloge: DIMORE PRECARIE.

@ gianni montieri

1

una lunga camicia da notte a fiori. 

una corda.

le venature delle mani.

nessuno saprebbe stabilire quando ho iniziato.

nessuno potrebbe stabilire se ho mai finito.

ora dovresti portarmi un libro. 

poi un altro.

poi ancora uno.

portare libri ininterrottamente.

fino a murarmi fra due pagine ugualmente usurate. 

e io troppo a lungo ho pensato.

sottratto tempo al tempo degli oggetti.

il letto mi è andato in frantumi sotto al sogno più lungo.

ma io non mi amo. 

io mi arrangio con quello che posso.

nel gas denso delle 8 di mattina scaldo il latte.

preparo una colazione che puntualmente dimentico di consumare.

poi succede questa cosa.

una mattina mi dimentico di preparare la colazione.

quando me ne accorgo è troppo tardi. 

dove ho sbagliato, qualcuno me lo sa dire?

lui risponde non posso farci niente.

gli dice bravo continua pure per la tua strada tanto non importa dove andremo a parare.

lui risponde vedi che urlo come un cane e sono condannato per tutta la vita.

gli dice smettiamola almeno di lavarci se le cose stanno così.

ecco lui risponde.

6

poi rileviamo che le visioni stesse

s’arrestano disfatte e scomposte come in un

fermo immagine mal impostato. 

7

io invoco il vetro

invoco le foglie, il tempo e la polvere

che mi siano testimoni

che sappiano, almeno loro,

quanto ogni cosa di me permarrà intatta

in questa stanza, davanti alla finestra.  

8

di punto in bianco, decompressi

oltre le bave del sonno

riapparivano i pomeriggi più riservati.

io mi addomesticavo per srotolarli più lentamente

ugualmente ne ricavavo pochi fotogrammi

pochi segni d’unghia o strisciate di polvere

fra un occhio e l’altro. 

9

in questa e mille altre

quando le guardiamo

due infanzie riprendono da dove interrotte.

i cespugli si ritirano

l’intonaco sale

noi riacquistiamo quel tanto di corsa che serve

a recuperarne un altro pezzetto.

10

tu che mi mostri cose impossibili.

io che mi faccio scudo con i giorni.

ieri luce.

oggi no.

domani luce.

 

11

intervalliamoci con immagini meno moleste.

così entrando in una stanza a caso

non rischieremo ogni volta di inciampare negli spigoli di noi

potremo forse traversarla da muro a muro, agevolmente

e immaginare di sederci, accomodare gli arti, conversare.

12

io non uscirò mai.

già gli intrichi di me attraversano porte ogni giorno

per infittirsi in ogni cosa che so fuori.

13

guardami dentro la pancia.

dentro ci tengo

ben in ordine

i torti subiti

accanto al sapore delle torte di quand’ero bambino.

stesso contenuto della testa.

14

l’uso era quello di spillare nuovi elementi verbali da ogni edificio.

così s’inoltravano, palpitanti, incauti, negli stomaci disadattati delle costruzioni,

ne palpavano le funzioni, ne accarezzavano il disuso, ringraziavano

quegli uomini che dimenticano case, piccole colonie, fabbriche

come portachiavi posseduti un solo pomeriggio d’estate,anni fa.

15

i miei anni non si avverano,

non si avvereranno mai.

16

l’unica via per la mia sopravvivenza prevede la traduzione degli spazi in senso piramidale.

mi spiego: basta disporre

tre sedie immobili sul pavimento

sopra le sedie due appliques cieche

sopra le due appliques un lampadario muto.

quindi rispettare il triangolo, in silenzio,

senza premettere che nulla lo turbi.

17

 

sono cieca

ai miei occhi mancano le pupille

ma non come a un cranio consunto.

piuttosto le sostituisce il degrado del ricordo

così che la vista che m’impone il pensiero

è una vallata rovinata da incessanti frane

dove nessuna radice pretende di porsi a dimora.

18

se provassimo a cucire gli orli del giorno

resterebbero fuori i fili spaiati della sofferenza

quante volte ci siamo detti basta e siamo andati avanti

fuori dalle nostre porte restano ammucchiati i nostri vani sistemi di adattamento

arrugginiti e inservibili.

*******

NOTA BIOGRAFICA:

Greta Rosso è nata a Casale Monferrato nel 1982 e ha sempre vissuto

fra Piemonte e Valtellina, dove si è appena stabilita. Scrive da

una decina d’anni. Alcune sue poesie sono state pubblicate nei siti

“NazioneIndiana” e “Absolutepoetry”. Ha pubblicato nel 2009 Cronache

Precarie, suo libro d’esordio, per la casa editrice Aìsara (Cagliari).

11 risposte a “Greta Rosso – Dimore precarie – silloge”

  1. Trovo la poesia di Greta Rosso veramente molto interessante.
    Asciutta, determinata e concreta. Tranne alcuni sintagmi – ma è proprio con la “sovrastruttura” che il testo poetico deve dialogare per avere una propria vitalità – veramente “poetici”, si mantiene lontana dal poetese. Cercavo il suo primo libro l’altro giorno alla fiera di pisa, ma mi è risultato impossibile averlo. Spero di ottenerlo al più presto. Mi interessa il suo percorso ed il suo fine. La sua “testualità”, gli “scivolamenti” e la schiettezza rispondono ad un mio interesse, giacché nella lingua costruiscono quella figura “precaria” che è il nuovo “tipo” della letteratura. L’inetto che ha attraversato il novecento – in parte superato dalla Neoavanguardia (Sanguineti soprattutto, ma anche Pagliarani…se pensiamo che uno dei soi personaggi è Carla che da inetta passa ad “educata alla cielo di metallo di Milano”, e Rudi…un arrivista tuttofare) – viene sostituito dal precario. Noi, nati negli anni ’80, dobbiamo solo stare attenti a non creare una “mitologia del precario”, così come molto cinema italiano, troppo italiano. Questo sarebbe rischioso. Su questo, invito tutti a riflettere, così come su un’intervista ad Aldo Nove, condotta dall’onnipresente Cortellessa, sulla figura del precario nell’arte moderna…più o meno. Un libro che dovrebbe diventare il nostro classico (per le intro più che per le storie interne che, volenti e soprattutto nolenti, noi degl anni ’80 v iviamo quotidianamente), dovrebbe essere “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, di Aldo Nove.

    L.

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  2. Grazie a Gianni per lo spazio regalatomi qui e per la foto bellissima (mi pare di riconoscere Genova, esatto?).
    Grazie Luciano per il commento preciso, chè io mi sento proprio così, lontana dal poetese cui mi è difficile adattarmi. Il libro lo puoi ordinare su ibs, o anche attraverso il sito dell’editore (www.aisara.eu). Oggi pomeriggio, a casa davanti a un computer che è decisamente più comodo dell’iphone, sarò contenta di visitare le pagine della tua scrittura.

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  3. La cosa che più mi attrae di queste poesie è una sorta di movimento contrario. C’è un soggetto sempre più vano, come tendente allo sfocamento, che sembra apparire d’improvviso in certi battiti di palpebre (l’intensità della 17, ad esempio), poi si sgonfia nelle stasi (la 16), si frammenta in mozziconi di dialoghi. Dall’altra parte, però, è un soggetto che trova la sua continuità nella sequenza dei testi, legati non tanto da qualche corda metrica, ma, direi, da una “condizione ritmica”, una cadenza che, anche nella gran varietà prosodica dei versi, non si interrompe mai. Mi ha colpito soprattutto “ieri luce. / oggi no. / domani luce”, perché questa costruzione rapida, da rap tutto sostantivale, l’ho incontrata spesso in testi letti di recente su internet, e se non sbaglio gli autori erano proprio nati negli anni ’80 (Padua, Cava, Teti). E’ qualcosa di diverso dalle strutture della neoavanguardia, perché qui mi sembra si stia costruendo una sorta di narratività di fondo, una narratività inesistente, solo ritmica, ma che riesce a muovere in un teatrino fantasma le marionette del soggetto poetico, ancora incapace di rifondare sé stesso dopo il post-moderno. Ecco, rispetto agli altri autori citati, ho apprezzato particolarmente i tuoi testi perché mi sembrano quelli in cui anche l’elemento contenutistico sia più vicino a una “ricostruzione”. A presto rileggerti!

    Michele

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