PHARMAKON

 

PHARMAKON

Ciò che sciama tramando informi trasparenze

ciò che scivola riproponendo il peana dell’esclusione,

ciò che occlude i pori usurando le giunture

di quell’anatomia sempre votata al disfacimento,

tutto ciò che tramortisce e insieme sgretola,

tutto ciò che diluisce e insieme dissolve

è segno indelebile dell’immanenza

forgiata nel solo inchiostro

che qui rinsalda la morsa

tamponando le ferite del derma decomposto.

Ascolta: quel che è bene è che il verbo sia

per l’appunto verbo, e che persista comunque

nell’insana pratica di ricomporre

ciò che non potrà mai essere riunito

se non nel supporto soggettile che tende al bianco

e sempre ripropone la parabola arcuata

ove sillabe concubine si sfibrano nella copula

sognando un orgasmo simultaneo.

Ciò che fibrilla sotto l’egida della scossa

e si inalbera all’avvento dello spasmo,

ciò che devia dalla strada maestra 

varcando le soglie ove riappropriarsi del sorgivo,

ciò che si attende solo anticipandosi all’a venire,

tutto ciò che si sacrifica trascendendosi,

tutto ciò che tonifica e insieme precipita

è traccia incancellabile di quell’inchiostro

che celebra l’avvenuto connubio

tra il sensibile e l’intelligibile

e da millenni sottende una mimesi

cercando di rendere il verso simile al vero.

43 risposte a “PHARMAKON”

  1. “….e da millenni sottende una mimesi

    cercando di rendere il verso simile al vero.”

    avrei voluto essere io a saper scrivere una COSA così, così, mi sfugge il termine tanto mi ha preso questo ultimo capoverso…
    erremme

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  2. C’è poesia, filosofia e un linguaggio – il tuo, che lacera, rimargina e trascina senza sosta. Prorompente la vitalità di suoni e immagini.

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  3. Inconfondibili lo stile e le immagini, Enzo.
    Eppure, quell’ultimo verso che chiude e chiosa l’intero componimento – effettivamente quest’ultimo costruito partendo dalla sua fine e per la sua fine, per pronunciare proprio quel verso che basterebbe anche a se stesso – quel verso che tanto ha colpito (perché colpisce, accidenti!) personalmente non lo condivido. Condivido piuttosto il contrario – il vero più simile al verso. Oppure, meglio, che il vero vada pure al diavolo assieme alla trascendenza, all’a venire ed alla sorgiva.
    Ma il mio è ovviamente solo un parere :)
    Luigi

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    • vediamo un po’….
      mi sembra di aver scritto “cercando di rendere il verso simile al vero” e non “rendendo il verso simile al vero”.
      la differenza è nel “cercare”.
      1) la ricerca è carattere imprescindibile della poesia, e quel tipo di ricerca cui si accenna è comunque una pratica che alcuni poeti perseguono (vuoi solo idealmente)
      2) scrivere una cosa non significa necessariamente credere in quella cosa
      3) il vero (o la verità) non è un assioma assoluto.
      la verità non è universale, casomai soggettiva; quindi il vero qui sotteso non ha nulla a che fare con la verità.
      in qualsiasi tipo di letteratura la verità è, sempre e comunque, un’idea di verità, plasmata e insieme fuorviata da tutta una serie di cose, attitudini, desideri repressi, fobie dell’autore.
      in tutto questo gioco di vero e verità, di verso e versi, in cui ci si fa il verso a vicenda, l’unica cosa che non può essere messa in dubbio è forse la mimesi, nella sua doppia accezione di imitazione e di camuffamento (da qui anche il “nascondimento” proprio della poesia).
      la poesia non è sempre e soltanto rivelazione, anzi, il più delle volte, è l’esatto e perfetto contrario.

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  4. Il testo suggerisce un approccio filosofico, ma, attraverso la visionarietà emerge il potere mitopoietico della parola che si fa slancio vitale. Quell’anafora, “ciò” che, iterata, suggerisce una “cosalità” infinita, è l’espressione più pura e, in un certo senso antiteticamente, spuria,originale, dell’essere della filosofia antica.
    Convivono perciò due spinte a dire in poesia. La prima sembra rivisitare Parmenide ed Eraclito. La seconda variabile ricorda che nel mistero c’è il tutto che si reifica nel “ciò “, nella tragica e splendida realtà trasfigurata, resa manifesto a se stessa, ossia immagine della vita nella sua interiorizzata fisicità. Il “ciò” è anche “qui” e “ora”, è sofferenza e gioia, non solo filosofia assente e sospesa nel vuoto delle forme pure e perfette. Si attualizza il discorso poetico, nell’urgenza di cogliere, universalizzandolo, il lato umano, attraverso la ritualità della ripetizione che è pure assiduo tentativo di ricerca, cammino di analisi e proposta di mimesi a metà strada fra la forma e il divenire totale, anche di se stessi. Marzia Alunni

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    • tra la prima e la seconda serie dei “ciò”, la chiave:

      Ascolta: quel che è bene è che il verbo sia

      per l’appunto verbo, e che persista comunque

      nell’insana pratica di ricomporre

      ciò che non potrà mai essere riunito

      se non nel supporto soggettile che tende al bianco

      e sempre ripropone la parabola arcuata

      ove sillabe concubine si sfibrano nella copula

      sognando un orgasmo simultaneo.


      pratica insana (nell’accezione più positiva del termine), impossibilità di ricomporre, il sogno di un orgasmo simultaneo: poesia!

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  5. “Ascolta: quel che è bene è che il verbo sia

    per l’appunto verbo, e che persista comunque

    nell’insana pratica di ricomporre

    ciò che non potrà mai essere riunito”

    Il cuore.

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    • ” Esangue al cospetto del sole
      mentre affissi alle pupille
      steli di rose andate a male
      mentre le labbra curvano
      verso il pianto e la preghiera
      verso l’ombra e i rami morti
      e quando poi
      ci si chiede cosa sia l’amore
      rispondersi che è groviglio
      dispersione d’anime
      ricciolo d’api da baciare sulle punte
      per poi rimanere punti
      ed essere invasi da miele doloso”

      (Antonella Taravella – “D’ogni esangue parola”)

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  6. Pur nel buon intento di testimoniare la potenza disvelante e filosofica del verso, questo testo rende per paradosso un buon esempio di ciò che non dovrebbe essere – a mio parere – Poesia, quando la cura sia propriamente il non eccedere, fuggendo così la tentazione di porsi sopra il lettore, piuttosto che al suo fianco.

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    • chiedo scusa, a tutti, per la presunta presunzione (e chi mi conosce sa che sono il perfetto contrario della presunzione), ma se il lettore non riesce ad affiancarmi non è un mio problema.
      se dovessi scrivere pre-occupandomi della fruizione sarei altro-da-me.
      grazie massimo!

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  7. Afferri e poi distogli. Tornerà, malato, il verso curato da chi lo scrive, a curare chi lo consegna.
    E non poteva essere che l’immagine che tu hai scelto.
    Un manifesto cesellato verso a verso.
    Grazie e complimenti.

    clelia

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      • ripartirà, ad aeternum, il verso.
        e verso chi o cosa non è cosa che incide più di tanto.
        ciò che è inciso è il verso scritto e consegnato alla posterità.
        tutto ciò che viene dopo è solo un’appendice.

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  8. …panacea e dolore.come un parto.come radice e bacca.verso come riverso.dang-va e silenzio.di quelli che tutti noi vorremmo avere.invece di leziose amenità diffuse con la biro…grazie,enzo.da sempre…

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  9. “…tutto ciò che tramortisce e insieme sgretola,
    tutto ciò che diluisce e insieme dissolve…” sono davvero versi dai molteplici contenuti. Ma la poesia è un grande mistero…

    Sempre bravo, caro Enzo!

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  10. E’ mio parere che la poesia è e deve essere mimesi, che le sue basi poggiano sulla ricerca del vero a partire dal concetto filosofico che rappresenta il poeta o che il poeta vuole rappresentare a prescindere dalla personale formazione. Se cosi non fosse, sempre a mio parere, quello che si scrive sarebbe solo cronaca o riflessione e nemmeno tanto pura.
    “La farmacia di Platone: cura e veleno insieme” eccellente definizione.
    Grande lettura Enzo, un altra lezione da ricordare!
    Grazie
    Sebastiano

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