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James Laughlin ( 1914-1997) Editore, promotore culturale, meraviglioso poeta, sciatore. Di Daniele Gennaro

E’ per merito di Ezra Pound se il poco più che ventenne James, accolto alla “Ezuniversity” di Rapallo ( una sorta di tutoring privato che il grande poeta concedeva a pochi prescelti aspiranti scrittori) per alcuni mesi nel 1935, è divenuto uno dei più importanti editori ed organizzatori culturali della scena letteraria statunitense. Pound infatti, dopo il periodo di apprendistato, cacciò di fatto James dicendogli di tornarsene ad Harvard per prendere la laurea per fare dopo “something useful”. Far qualcosa di utile significava darsi da fare, usando l’ingente patrimonio di famiglia, per mettere su una casa editrice e pubblicare quegli autori amici di Pound che, tranne Hemingway, non avevano ancora avuto uno straccio di editore disposto a farlo.
James riuscì a farsi finanziare dal padre, proprietario a Pittsburgh di un’acciaieria, e fondò “New Directions”. Il primo libro edito fu un’antologia poetica comprendente lavori di Pound, Gertrude Stein, E.E. Cummings, William Carlos Williams, Elizabeth Bishop e Henry Miller (1936).
Dal padre James ereditò anche il senso degli affari, il primo libro targato “New Directions” fu distribuito da lui personalmente ( 600 copie) ai bookstores del Midwest. Nel corso degli anni 40 la lista degli autori pubblicati con sempre maggior successo di critica e pubblico ( che tempi quelli!!)
incrementò in modo esponenziale, i nomi – solo per citarne alcuni – : Tennessee Williams, Randall Jarrell, Paul Goodman, Eve Merriam. La lista degli autori nel corso dei decenni successivi si fece davvero impressionante, fu Laughlin a pubblicare Lawrence Ferlinghetti, Robert Creely, Gregory Corso, Kenneth Rexton, Thomas Merton e Robert Duncan. In una bella intervista apparsa sul New York Times Book Revue nel 1986, così James descriveva lo spirito che animava il suo lavoro:”…gli autori pubblicati rappresentavano sempre il nuovo, quindi inizialmente non ci si aspettavano grossi risultati commerciali…cercavamo di precedere il gusto del pubblico sensibilizzando la giovane generazione di professori nelle facoltà di lettere, che diventavano via via sempre più curiosi e promuovevano i nostri autori nei loro corsi”. Per Laughlin lo scopo principale non era quello di ottimizzare i profitti ma produrre qualità, se poi , grazie alle sue indubbie capacità manageriali, arrivavano anche quelli, bene, si reinvestiva tutto in nuovi autori.
Una grande passione di James era lo sci, sport che lo portò spessissimo in Europa sulle piste alpine, la passione lo spinse ad aprire una struttura alberghiera-sportiva nella località di Alta nello Utah, dove per un certo periodo dell’anno soleva passare il suo tempo. Il binomio lavoro-piacere era l’unico possibile per James ed è stato probabilmente il segreto del successo di “New Directions”. Secondo Massimo Bacigalupo è stato proprio questo aspetto a fare della casa editrice una realtà unica nel panorama editoriale americano, un punto di riferimento sicuro ma defilato, come il suo editore.
Non dimentichiamo inoltre che grazie a Laughlin il pubblico americano potè apprezzare per la prima volta autori fino ad allora sconosciuti, pubblicando traduzioni di Montale, Neruda, Queneau, Lorca, Pasternak, per non parlare poi del fatto che “New Directions” pubblicò un ancora sconosciuto Nabokov, e poi ancora Siddharta di H. Hesse, per non citare che i casi più eclatanti.

James Laughlin è più spesso conosciuto e ricordato per il suo lavoro di editore, meno per quello di poeta e scrittore. E’ spesso percepito come un poeta”minore”, forse perché non ha pubblicato molto nel corso della sua vita; ciò risponde , come opportunamente sottolinea Bacigalupo, ad un’aderenza connaturata ai suoi principi di economia, tanto da far pensare che la riluttanza ad autopubblicarsi di James fosse legata al fatto che avesse pensato che i suoi libri non avrebbero venduto almeno quanto quelli dei suoi altri autori. In realtà la sua opera ha suscitato nel tempo un interesse crescente da parte di editori raffinati come City Lights, Copper Canyon Presse e Moyer Bell, che nel 1994 ha pubblicato le massicce ( e autoironiche) “Collected Poems”.

La poesia di Laughlin emerge dalle temperie sperimentale del modernismo e approda, fin dall’inizio ad una forma comunicativa sobria, essenziale, funzionale, tendente ad ottenere il massimo risultato con il minimo spreco (secondo la mai dimenticata lezione di Pound).
A questo punto passerei la parola a Massimo Bacigalupo, forse il massimo esperto italiano di Laughlin, che nell’introduzione della bellissima raccolta “Scorciatoie”-poesie 1945-1997- (l’unico libro disponibile in Italia, peraltro da anni irreperibile), così scrive a proposito della scrittura di James:..”.Poesie come quadretti imagisti, chiuse in una gabbia tipografica prestabilita più che in una metrica sillabica o accentuativa. Pare che il metodo scelto da Laughlin fosse di mantenere i versi dattiloscritti sulla stessa lunghezza (= numero di battute) con uno scarto massimo di una o due battute fra riga e riga. L’effetto è di una prosa saltellante, in cui molto è legato all’a-capo o enjambement. Ma i periodi e la sintassi sono semplici e non di rado parlati…sicchè si crea una tensione fra enunciati assolutamente colloquiali e gioco dell’a-capo (o segmentazione), il che aumenta la sorpresa e il piacere della lettura attraverso la posticipazione della conclusione, una sorta di suspance o blandizia amorosa che dilaziona l’appagamento. I quadretti di Laughlin…sono per lo più fatti veri, “realia” che sono rimasti impressi nella mente del poeta. C’è sempre un sentimento, che può essere ironia, satira, passione, nostalgia, e che viene, secondo il sempreverde principio eliotiano, “oggettivato”. Gli anni in cui si collocano le storie di Laughlin vanno dal decennio 1930 con la sua dolce vita alle soglie della tragedia, agli anni ’40 con le immagini dell’Europa in macerie, agli anni ’50 quando James mette a punto il suo linguaggio in raccolte di un certo spessore (The Wild Anemone, Selected Poems). Dopo una pausa piuttosto lunga, in “Another Country (1978) avvia la serie felice dei volumi pubblicati in età avanzata, con il poemetto eponimo in stile “Amarcord” con le sue tenere scene di vita da spiaggia, molto idealizzate ma indimenticabili: un idillio italiano creato con tanti piccoli tratti lucidi e commossi.
Nell’ultimo decennio di vita Laughlin ha cercato di dare una sistemazione narrativa al suo perenne viaggio nel passato…ha scritto diverse centinaia di pagine di un poema autobiografico, “Byways”, cioè “strade secondarie”, “viottoli”, “scorciatoie”…Gli argomenti sono gli stessi delle poesie, solo su una maggiore estensione: figure bizzarre, episodi dell’infanzia, maestri e amici (a William Carlos Williams è dedicato tutto un volumetto di sessantun pagine edito a parte) soprattutto amori. Anche riflessioni sulla poesia, le sue origini misteriose, la sua necessaria stringatezza e chiarezza. Si noti a questo riguardo la vena surreale che serpeggia volentieri fra i testi di Laughlin, una delle cui forme preferite è l’apologo…per lui lo scritto vale in quanto espressione formalizzata di un vissuto, interrogazione e risposta sul senso del vivere attraverso i suoi eventi grandi e piccoli. E come si vedrà, egli non esita ad affrontare momenti alquanto tragici, quali il suicidio del figlio, e ne esce dando prova ancora una volta di saggezza poetica e umana.
“Byways” ha suscitato delle critiche prevedibili per la sua impenitente prosaicità(“prosa tagliata a pezzi” la definiva uno scrittore accademico, come ve ne sono sempre tanti in America)…ma Laughlin ha da sempre una certa sovrana indifferenza per i trucchi della retorica e a volte sembra lasciare apposta in sospeso il discorso, senza una parola conclusiva che dia l’illusione della chiusura. In ciò egli è molto più aperto di tanti zelatori dell’indeterminazione e della semiosi illimitata; la libertà dall’ossessione di concludere è uno dei meriti della poesia leggera, un lusso che si può concedere solo un poeta che ha deciso di essere minore, ma che finisce con il catturare nelle sue pagine uno spaccato di vita di grande spessore e rappresentatività.
Laughlin è uno dei pochi poeti che non si possono mettere giù. Inoltre quello che apprendiamo non è solo un fatto specifico per quanto affascinante ma anche un atteggiamento nei confronti della vita, di disponibilità, accettazione, umorismo sornione, perenne freschezza. E qui passiamo dall’informazione, la funzione referenziale del testo, alla poesia”.

Di seguito una mia selezione di poesie. Tutte le traduzioni sono di Massimo Bacigalupo, tratte da “Scorciatoie” Poesie 1945-1997, Poesia del ‘900-Oscar Mondadori- 2003. Il libro a mio avviso non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni appassionato di poesia. Ringrazio l’amico Elio Grasso per avermelo fatto conoscere.

La selezione non è in ordine cronologico, ma piuttosto in ordine “narrativo”, nel tentativo di ripercorrere, con le parole di James Laughlin, la sua storia di uomo e poeta. Grazie a James, fonte continua di istruzione alla poesia.

Provo un certo orgoglio

per il fatto che nei miei versi
non è difficilissimo vedere
quel che sto cercando di dire.

Ezra

Poi venni a Rapallo,
era il 1934, ero uno studente
annoiato dalle convenzioni accademiche
di Harward che voleva arrivare alla sorgente,
imparare la poesia dal migliore
poeta vivente, e tu mi ammettesti alla
tua Ezuversità dove non c’erano tasse
d’iscrizione, il miglior pensatoio dai giorni
di Bononia (1088). La letteratura, dicevi,
“literachoor”, è notizie che restano
notizie, e citavi un certo nonnino
di nome Rodolphus Agricola:
Ut doceat, ut moveat, ut delected,
fà che insegni, che tocchi il cuore,
che dia il piacere. Tu mi hai istruito
e commosso e mi hai dato grande
piacere. La tua conversazione era
lo spettacolo più divertente in paese,
tutto quello che avevi mai sentito o letto
fresco come quando ti era entrato
in testa. I libri che mi prestavi
erano pieni di commenti ironici sul margine:
Frankie il Ciccio (cioè Petrarca)
aveva un assistente che inseriva gli aggettivi
nei suoi versi, non importa dove; e
Aristotele era Harry Stottle,
uno che tagliava a metà un capello
ma così bene che aveva ancorato il pensiero
umano per 2000 anni; e Aristofane era
Harry-Sotto-Sottane, gran belle pagine
su vespe e rane. Credevi di
essere la reincarnazione di Sesto
Properzio, il tuo poeta latino
preferito, dicevi che Properzio aveva
dormito come Rip van Winkle dal 16 a.C.
e riscrivesti i brani migliori dal tuo
idolo in inglese, aggiornando le idee
del buon Sesto secondo le tue
inclinazioni. Nel tuo studio,
per non perderli, appendevi
gli occhiali, le penne
e le forbici con fili sopra
la tua scrivania. Avevi due
macchine da scrivere perché una
era sempre da aggiustare per il
gran pestare che facevi: le
tue lettere erano spesso piene di
maiuscole per evidenziare. Leggesti
le mie poesie e cancellasti metà delle
parole dicendo che non servivano.
Mi consigliasti di non perdere tempo a
scrivere prosa perché Flaubert
e Stendhal e James Joyce avevano
fatto tutto quello che si
poteva fare in narrativa. Dicono
che eri scorbutico, sarà vero, ma solo con
gente che lo meritava, professori
sciocchi occupati a uccidere la poesia
e banchieri internazionali dediti
all’usura e mercanti di cannoni
che vendevano armi per far
cominciare un’altra guerra.
Elucidavi i misteri
eleusini che erano una chiave
della tua religione composita, tutta
la faccenda del dromena e della epopteia,
era l’epopteia a mandare lo sperma
su nel cervello dei maschi dandogli
intelligenza. Amavi i gatti e i gatti
amavano te. Certi giorni salivamo
per le salite sassose delle colline
sopra il paese, attraverso gli
uliveti e i piccoli orti dei contadini
dove i gatti erano fermi in cima
ai muretti di pietra; ti stavano
aspettando, sapevano che gli portavi
un sacchetto di avanzi dalla tavola
da pranzo. Li chiamavi:
“Micio, micio, vieni qua,
c’è da mangiare”. Un giorno
che distribuivamo il rancio
presso la chiesetta di San
Pantaleo abbiamo discusso cosa
avresti fatto con i soldi del
Premio Nobel quando finalmente lo
prendevi, pensavi che uno chef
sarebbe stata la cosa migliore perché
eri stanco di mangiare all’
“Albuggero” Rapallo, ma gli svedesi
non te l’hanno poi dato, erano
troppo lenti per capire
i “Cantos”. E quando lo scultore
Henghes ( cioè Heinz Winterfeld
Clussman ) fece a piedi
tutta la strada da Amburgo
a Rapallo per vederti perché
aveva sentito che eri stato
amico di Gaudier, e arrivò mezzo
morto di fame, l’hai sfamato e
fatto dormire nel grosso canile sulla
terrazza ( non c’erano letti
liberi nella mansarda) e lo portasti nella bottega dello
scalpellino che produceva pietre
tombali e gli hai fatto fare credito
per un blocco di marmo, in cui scolpì
il suo “Centauro seduto”, e glielo
vendesti alla Signora Agnelli,
quella della Fiat di Torino; e questo
fu l’inizio della fama e della
fortuna di Henghes (e il disegno per
il Centauro divenne il colophon di
New Directions ). Dicevi che ero
un poeta terribile. Era meglio che
facessi qualcosa di utile per esempio l’
editore, una professione per la quale
( lasciavi capire ) non ci voleva talento e
solo l’intelligenza limitata.
E dopo pranzo ti coricavi
sul letto con il tuo capello
da cowboy per ripararti dalla luce
della finestra con il grosso dizionario
cinese posato su un cuscino sul tuo
stomaco, e fissavi i caratteri,
cercando la traccia del significato
nella calligrafia. E anni più
tardi il professore chiese a tua
figlia di definire il tuo metodo
ideogrammatico di composizione di
Cantos e lei ci pensò un momento e
rispose che guardavi nel profondo
dei caratteri per trovarne la
verità, una risposta giustamente
confuciana. Così hai scritto le tue
versi dello “Studio integrale”
e delle “Odi” facendo innoridire i
sinologi, ma la lingua
è immortale. E amavi citare le
parole di Confucio : ” Tutti possono
compiere eccessi, è facile andare
oltre il bersaglio, è
difficile stare fermi nel mezzo.”

Eccomi qui.

che faccio colazione in cucina
e sulla mensola della finestra c’è

la saliera la scatola di zucchero di
canna il burro i vasetti di marmellata

di arance e pesche e la bottiglia
del ketchup Heinz (le cose

per il corpo) e fuori dalla
grande finestra panoramica

i frusoni beccano i semi di
girasole che Helen ha

sparso nell’erba e il grasso
riccio mette fuori la testa

dal suo buco sotto la legnaia
ma la ritira quando vede

gli uccelli oltre lo steccato
le pecore sfilano verso il

pascolo per brucare e qualche giorno
al margine del bosco una cerva

e il suo cerbiatto vengono a guardare
la nostra casa (le creature della na-

tura) e da qualche parte molto in
alto sono gli Olimpi e quelli che

dimorano sui Monti Sumeru e
Taishan angeli e apsara ( gli es-

seri che non possiamo vedere né
comprendere) ma solo lì che ci fanno

eseguire le loro volontà sì sono
con me tutte le mattine mentre

siedo e faccio colazione.

La fabbrica di poesie.

Le poesie stanno di nuovo parlando
fra di loro sono stufe

di me neel corso degli anni hanno
sentito tutto quello che ho da dire

sempre la solita roba nel solito
vecchio metro ( che del resto non piace

gran che a nessuno) le solite citazioni
classiche che non ce la fanno proprio

a legare con la parlata americana i
soliti vecchi piagnistei sentimentali

sull’amore ne hanno abbastanza
di me così ora si divertono

parlando l’una con l’altra
hanno inventato dei buoni ef-

fetti prendendo righe di diver-
se poesie per farne di nuove

mescolandole il prossimo
passo sarà di automatizzarsi

e fare poesie completamente
per conto loro senza il mio inter-

vento quello sì che sarà un bel giorno
(bello come il surrealismo) una robotica

Fabbrica di poesie tutta per loro.

Dylan.

Uno di noi doveva identificare ufficialmente il corpo
di Dylan all’obitorio di medicina legale
Brinnin e io facemmo testa o croce e io persi
Era un edificio malconcio nel complesso ospedaliero
su First Avenue e lo scantinato, con tanfo di
formaldeide, era una confusione di carrelli con
lenzuola di gomma sopra i corpi
Era di guardia un vecchietto con un grembiule di
gomma
Inforcò gli occhiali per leggere il nome che avevo
Scritto su un foglietto e si guardò in giro, cercando
Di ricordare
Sollevò il lenzuolo. “E’ lui? Non lo era
Due o tre altri che non erano “Old Messy”, il “vecchio
Pasticcione” dei pub di Soho e di Chelsea
Finalmente lo trovammo e aveva un aspetto orribile,
tutto livido e gonfio
“Lesione al cervello” diceva sul referto dell’autopsia,
troppe sbronze per troppi anni
Il vecchio mi mandò a firmare l’identificazione a
uno sportello dove stava una ragazzina alta sul
metro e mezzo, alle prese con i moduli, in mano
una matita rotta
Mi fece scrivere “Dylan” per lei sul modulo perché
non aveva mai sentito un nome così e non sapeva
lo spelling
“Professione?” chiese
Dissi che era un poeta; sembrò perplessa
“Cos’è un poeta?” chiede
Le risposi che un poeta è uno che scrive poesie
Prese nota, ed è così che sta scritto sul modulo:
“Dylan Thomas- un poeta ( scriveva poesie)”.

(1953)

Esperienza di sangue.

Non sapevo quanto sangue ci fosse
in un uomo finchè mio figlio si uccise

lo fece con un coltello da cucina col-
pendosi dappertutto e tagliandosi

i polsi poi si mise nella vasca da
bagno e morì nell’acqua fu lì

che lo trovammo ma se avesse cambiato
idea per un momento il pavimento

era un tappeto di sangue e sangue era
spruzzato sui muri il lavandino era co-

perto di sangue forse si fermò lì
guardandosi nello specchio chiedendosi

ancora chi era veramente e poi
ricominciò dovetti strofinare via

il sangue mi ci vollero quattro ore ma
non avrei potuto chiederlo a nessun altro

perché dopo tutto era anche sangue mio.

Sciando a Tahiti.

Certo che si può sciare a Tahiti
( si può fare quasi tutto nei

sogni) le ragazze con
addosso solo una foglia

di banyan scendono in slalom
per la spiaggia in stile perfetto

Gauguin ha piantato il suo
cavalletto e sta disegnando

furiosamente prima che la neve
si sciolga il nome

del quadro famoso ora esposto
al Muséè d’Orsay è

Muna ta Laguna ovvio
che si può sciare a Tahiti.

Stringhe.

La mia vita è stata una serie di stringhe
da scarpe slacciate. “Allacciati le stringhe,
caro, prima che andiamo da nonna”
dice mia mamma. “Alla nonna non
piacciono i bambini disordinati.”Non
lo facevo. La nonna è una vecchia gallina.
Passa le giornate coricata sul sofà
nel salotto al piano di sopra, dando
ordini alla servitù, che è un mucchio
di irlandesi pigri, tranne Thomas
il maggiordomo che mi passa
di nascosto i fumetti dei giornali
domenicali, che a casa sono
proibiti. Li leggo con Thomas
nella dispensa e lui mi dà
della gazzosa.

La gente dice sempre che inciamperò
nelle stringhe slegate e
farò una brutta caduta. Ma è
successo una volta sola. Eravamo
a New York in visita a certi
parenti. Inciampai e caddi proprio
davanti all’Hotel Vanderbilt. Quella
fu davvero brutta. Mi feci un taglio
così profondo che mi dovettero
portare al pronto soccorso
dell’ospedale per darmi dei punti. Così
siamo arrivati in ritardo a pranzo
dalla zia Patty al Vanderbilt e
questo la mise di cattivo umore. Poi
quello che feci nella sala da pranzo
la infuriò. Era la prima volta
che mangiavo delle ostriche. Avevano
un gusto orribile e le sputai lì
sul tappeto. La mamma mi portò su
in camera da letto di zia Patty e mi
diede una strigliata. Fu
la fine delle monete d’oro da dieci
dollari che arrivavano a Natale
da zia Patty.

Non vi annoierò con altre storie
di stringhe, tranne una.
Eravamo a Londra in uno dei
Nostri viaggi estivi di “educazione”,
così li chiamavamo. La mamma
era in campagna a trovare un’amica
di scuola, così mio fratello e io
eravamo soli con papà. Disse che
era stanco di pranzare al
Burligton, ci avrebbe portato al
suo club. Così lo chiamò,
il “suo club”. Era una casa in
bulstrode Street, nioente che ti
dicesse da fuori che non era
una qualunque casa di famiglia.
Un maggiordomo ci fece entrare e
accompagnò al primo piano in un
piccolo ascensore. Fummo accolti nel
salotto da una bella signora che
sembrava un po’ la Regina.
tutta in ghingheri. Lei e papà
sembravano amici. Si baciarono.
Non ci sedemmo ma la signora
regina uscì e poi tornò con la
ragazza più bella che avessi
mai visto. “Questa è Winifred”
disse la regina, “starà mezz’ora
con voi ragazzi”. Poi lei
e papà andarono via da qualche
parte. Di certo Winifred era una
principessa, portava un abitino
piuttosto succinto ma d’oro.
Questo accadde molti anni fa
ma ancora vedo come era bella.
ed era gentile. “Che si fa,
giovanotti” chiese, “dama o
scacchi”? Non avevamo mai sentito
parlare di scacchi, così
rispondemmo dama. Mentre stava
per prendere la scatola notò
le mie stringhe slacciate.

“Guarda guarda” disse, “il tuo
cameriere non ha fatto un buon
lavoro, ti sembra?”. E , se
riuscite a crederci (io ancora
non ci credo), questa stupenda
principessa si inginocchiò proprio
lì sul pavimento vicino a me
e non solo allacciò la stringa, ma
rifece il nodo anche all’altra. Poi
giocammo a dama e il maggiordomo
ci portò della gazzosa con “bitters”
come li chiamava. Immagino che
avrei dovuto essere imbarazzato,
ma non fu così. Non la dimenticherò
mai, e nemmeno la nostra visita
alla casa di Bulstrode Street.

Porte

Spesso mi trovo a pensare alle porte.
Porte aperte e porte chiuse. In casa nostra
la porta posteriore di solito rimane aperta perché
Rupert, il cane, possa entrare o uscire
senza abbaiare, o Allen, il giardiniere,
possa prendersi un bicchiere d’acqua nei giorni
caldi, o quando arriva il postino col suo
furgone con un pacco. Ma la porta davanti
è quasi sempre chiusa. I visitatori in-
attesi devono suonare il campanello. Questo ci
dà tempo di sbirciare dalla finestra per vedere chi
sono e se vogliamo fargli entrare.
Di notte tutte le due porte sono chiuse anche
se non ci sono stati furti in paese a memoria
d’uomo, ma non si sa mai, con i tempi
che corrono in America.

Le porte di casa non sono poi molto
interessanti. Quel che più importante sono
le mie porte Interne: la porta del mio
cuore e la piccola botola sul retro
del mio cervello da cui passano
le poesie.

La mia porta del cuore è come una porta
girevole, di quelle che si trovano nelle banche o
nei grandi alberghi. Questa porta ha continuato
regolarmente a girare per quasi
sessant’anni. Si aprì la prima volta quando
Verna, la ragazzina della casa
accanto mi portò nel bosco e mi
lasciò giocare coi i suoi capezzoli.

Da allora la mia porta del cuore ha
girato quasi costantemente. Potrà
sembrare scortese ma non riesco
più a ricordare tutte le belle,
e alcune non tanto belle, che
l’hanno fatta sussultare, e girare
e girare.

Poiché c’è di solito un pezzo di
carta rimasto con una poesia, mi è più facile
tenere dietro ai movimenti della segreta
porta del cervello nella mia testa.
Non gira. E’ come una
botola che sale e scende.
Non è molto grande, un topo
ci passerebbe appena.

La prima volta si aprì quando
avevo circa tredici anni, il mio primo anno
in collegio. La porta si aprì
e ne usci una canzone marinaresca in rima,
un soggetto che avevo copiato da John Masefield,
che era allora poeta laureato d’ Inghilterra.
Con l’orgoglio la mostrai al mio insegnante,
il signor Briggs. La lesse rapidamente e
la stracciò. “Giovanotto” disse,
” questa non è una poesia, sono solo versi.”
La porta nel mio cervello si chiuse di colpo.

Da allora la porta nel mio cervello deve
essersi aperta cento volte. Il signor
Briggs è morto da tanto tempo ma vedo
ancora i suoi occhi penetranti e sento
la sua condanna categorica. Si apre
si chiude, si apre si chiude. E tutte le
volte sono solo versi. Quella
porticina è la mia ghigliottina.

Prologo – Il Babbo Natale di Norfolk – Dawn

Spesso ormai da vecchio che dorme
solo quattro ore per notte, mi sveglio
prima dell’alba, mi vesto e scendo
nello studio e comincio a battere la macchina:
poesie, lettere, altre pagine
nel libro delle memorie. Qualsiasi
cosa pur di mettere in moto le parole,
per farle uscire dalla mia testa
dove spingono tanto per essere
liberate che quasi fanno
male. La finestra dello studio
dà a est, sui prati,
e stamattina vedo
che le pecore si sono sparse
per la collina, le loro macchie bianche
hanno la configurazione delle stelle
di Canis Maior, la costellazione
attorno al Sirio, il Cane,
che mio padre soleva indicarci,
chiamandolo per qualche
ragione che dimentico
Little Dog Peppermint.

Che tipo di versi sto scrivendo?
A scuola non sapevo mai scandire.
Certo non è il metro alcaico.
Né quello saffico. Forse è il verso
breve che usò Kenneth Rexroth
per Il drago e l’unicorno,
trasmessomi da dovunque ora sia
quel Vecchio Orso Brontolone
(ma gli volevo bene). In realtà è
solo una cadenza prosastica, spezzata
quando respiro mentre metto
in parole i pensieri; per lo
più sono ricordi tenuti in serbo,
in quella parte dove sta
memoria. Quale antico italiano
scrisse queste parole? Dante o
Cavalcanti? Cinque anni fa il nome
l’avrei avuto sulla punta della lingua
ma non ora. In India
chiamano un magazzino godown,
ma non c’è inventario
del mio godown. Non ce la faccio
a tener in ordine quel che contiene.
Tutte quelle persone nei libri,
da Krishna e i personaggi
dell’Antologia palatina,
fino alle ultime sciocchezze
dei decostruzionisti, vagano
nel mio cervello,
una sorta di “presente contunuo”
come lo chiamava Gertrude Stein;
il mondo nella testa mi
confonde le idee sul mondo
caotico in cui devo vivere.
Meglio gli dei ubriachi della Grecia
di una vita scandita dai computer.

La mia scrivania guarda ad est;
aspetto l’arrivo della luce
dell’alba, alzando gli occhi
d’ogni tanto dai tasti per
riposarli. C’è sempre un piccolo
rito, un attimo di invocazione
di Apollo, dio della lira;
chiedendo che mi tenga d’occhio
perché io non faccia delle grosse sciocchezze.
Apollo Febo, detto anche
Sminteo l’ammazzatopi
per la protezione che offre
al grano dei contadini. Le mie
albe non sorgono come tuoni
per quanto io sia stato a Mandalay
quell’anno che lavorai in Birmania.
Quel popolo gentile e tenero
perplesso della vita moderna;
gli uomini, i guerrieri, erano pigri,
le donne invece indaffarate, matriarche
che mandavano avanti la baracca.
E le ragazze si fasciavano il torso
perché non gli crescessero i seni;
chi iniziò questo costume, e perché?
Le mie albe si alzano con circospezione,
piano e senza far chiasso.
Era notte e in dieci minuti
è giorno, a meno naturalmente
che piova forte. Poi viene la
mia prima colazione. Non so cucinare
così prendo solo del tè, fiocchi di granturco
e biscotti della Pepperidge Farm.
Poi un sigaro. Il dottor Luchs
mi avvertì anni fa
che i sigari mi avrebbero ucciso
ma sono ancora qui. Ne
quid nimis scrive Terenzio
nell’Andria, moderazione
in tutte le cose. Così mi fermo
a tre al giorno;
uno dopo colazione, uno
dopo pranzo e uno dopo
cena. Un Bolivar è insieme
stimolo e consolazione.
Dicono che quel che addolcisce
tanto gli Havana è lo sputo dei cubani
che li leccano nell’arrotolarli.
Ma la foglia migliore per avvolgerli
cresce proprio qui nella
Connecticut River Valley.

Si, abbiamo le nostre meraviglie,
i nostri fenomeni naturali,
ad esempio l’ometto
vestito da Babbo Natale
qui a South Norfolk,
quando ci venni per la prima volta
a vivere nel lontano 1930.
Dimentico il suo vero nome,
lo chiamavano semplicemente
l’uomo Santa Claus.
Anche nell’afa di agosto
si metteva il costume rosso
e la barba bianca
e saliva fino alla spianata
dalla sua baracca
nel bosco dove viveva con
la pensione minima
per chiedere alla posta
se c’erano le lettere dal Polo
ma naturalmente non ce n’era mai.
Tutti gli volevano bene,
specialmente i bambini.
Aveva un borsone di caramelle
da un penny (si chiamavano penny candies
a quei tempi, non costavano cinque
centesimi come oggi)
e le distribuiva ai bambini
che lo seguivano a frotte cantando
come fosse il Pifferaio
di Hamelin e come la rapa
di Finney che cresceva dietro il fienile
cresceva e cresceva e non faceva
male a nessuno, Mr. Santa Claus
non faceva male a nessuno.
Era il nostro eroe locale.

La gente veniva da altre città
a vederlo e parlargli.
Ne scrivevano i giornali di
tutto lo stato… poi a un tratto
smise di venirci a trovare.
Lo trovarono morto
con la testa sfondata.
La polizia statale aprì la solita
inutile inchiesta ma non
trovò traccia dell’assassino.
Lo seppellimmo nel bosco
vicino alla baracca, che si
dovette bruciare, era così
sporca, aveva conservato l’immondizia
per tutti quegli anni.

Gli dei confondono chi
vogliono distruggere
e chi più amano
privano della ragione,
si tratti di Edipo che uccise
suo papa e giacque con sua mamma
o il nostro amato Santa Claus,
ora pressoché dimenticato.
Nessuno mi crede quando
racconto la sua storia;
ma ho tenuto i ritagli.
Se ne sta ora seduto
sull’Olimpo, novello Ganimede,
come lui rapito
dall’aquila di Giove,
un coppiere che versa
il nettare per quei beoni
scioperati, gli dei?
Chi verrà finalmente fuori
dal caos per punirli tutti?

E a proposito di coloro
che gli dei si divertirono
a distruggere , notevole
fu Dawn, di Santo, in Texas,
la faccia e il corpo più perfetti
che i miei occhi abbiano mai visto,
ogni parte pura perfezione,
modellata sulla Venere di Milo
e forse, chissà, poiché nessuno
l’ha mai vista, la stessa Ciprigna,
quella dagli occhi viola, nata dalla schiuma.
Il padre di Dawn cominciò a molestarla
quando aveva dieci anni; fu messa in
un asilo dove c’erano dei ragazzi
brutali e poca educazione.
Scappò a quindici anni e arrivò a Tulsa,
trovò il lavoro come spogliarellista,
conobbe uomini, troppi uomini
che ne vedevano solo il corpo,
non la persona dentro. Alla fine
ne comparve uno decente,
uno di New York
che la trattò con gentilezza,
la rispettò, un brav’uomo.
La portò a New York,
le prese un appartamento,
la mandò a scuola,
le diede libri da leggere,
la rese più sicura di sé,
le insegno a vestire.

Ma gli dei crudeli, intesi a distruggerla,
lo fecero morire.
Ricominciò da capo, disperata,
schiava del suo corpo.
Quando incontrai Dawn era
merce avariata. Mi maledì
mentre le parlavo gentilmente,
dicendo che ero come gli altri.
Insistei. Se non era amore
era un’ossessione.
Alla fine so che le diedi
un po’ di felicità, di
libertà dalla sua prigione, quando
fummo insieme in Italia e in Spagna.
Una notte a Milano mentre
tornavamo in albergo
dal ristorante cominciò
a piangere per strada, piano,
poi a dirotto. Disse
che io la avevo cambiata,
e quella notte fu davvero
una persona cambiata, tenera e
appassionata. Fummo felici
a Roma e Barcellona.
Ma non avevo previsto
Il risentimento degli dei.
Erano gelosi che mi fossi preso
una che consideravano tutta loro.
A Burgos, la crudele Burgos,
a un tratto divenne ostile
e muta, poi catatonica.
La misi in ospedale ma
le loro medicine non l’aiutarono.
Scappò dall’ospedale
e si gettò sotto un tram.

La seppellii nel cimitero
di Campo Sagrado, molto distante
da Santo in Texas. Quando guardai
nella sua valigia trovai che aveva
scritto delle piccole poesie. Strane
poesie che non avevano senso ma
avevano, in alcune frasi,
una loro bellezza surrealista.

BIBLIOGRAPHY
• The River, New Directions (New York, NY), 1938.
• Some Natural Things (poems), New Directions, 1945.
• Skiing East and West, with photographs by Helen Fischer and Emita Herran, Hastings House (New York, NY), 1946.
• Spearhead: Ten Years’ Experimental Writing in America, New Directions, 1947.
• Report on a Visit to Germany, Henri Held (Lausanne), 1948.
• A Small Book of Poems, New Directions, 1948.
• The Wild Anemone and Other Poems, New Directions, 1957.
• Selected Poems, New Directions, 1959 (published in England as Confidential Report, and Other Poems, Gaberbocchus, 1959 ).
• The Pig (poems), Perishable Press, 1970.
• In Another Country: Poems 1935-1975, City Lights Books (San Francisco, CA), 1978.
• Gists and Piths: A Memoir of Ezra Pound, Windhover Press (New York, NY), 1982.
• The Deconstructed Man (poems), Windhover Press, 1985.
• Stolen and Contaminated Poems, Turkey Press (Isla Vista, CA), 1985.
• The House of Light, woodcuts by Vanessa Jackson, Grenfell Press (New York City), 1986.
• The Master of Those Who Know: Ezra Pound, City Lights Books, 1986.
• James Laughlin: Selected Poems, 1935-1985, City Lights Books, 1986.
• Tabellae (poems), Grenfell Press, 1986.
• The Owl of Minerva: Poems, Copper Canyon Press (Port Townsend, WA), 1987.
• Pound as Wuz: Essays and Lectures on Ezra Pound, Graywolf Press (St. Paul, MN), 1987.
• The Bird of Endless Time: Poems, Copper Canyon Press, 1989.
• Random Essays: Recollections of a Publisher, Moyer Bell (Mt. Kisco, NY), 1989.
• William Carlos Williams and James Laughlin: Selected Letters,Norton, 1989.
• Random Stories, with an introduction by Octavio Paz, Moyer Bell, 1990.
• Kenneth Rexroth and James Laughlin: Selected Letters, edited by Lee Bartlett, Norton, 1991.
• Collected Poems of James Laughlin, Moyer Bell, 1992.
• Delmore Schwartz and James Laughlin: Selected Letters,edited by Robert Phillips, Norton, 1993.
• The Man in the Wall: Poems, foreword by Guy Davenport, New Directions, 1993.
• Ezra Pound and James Laughlin Selected Letters, edited by David M. Gordon, Norton (New York, NY), 1994.
• Phantoms, photographs by Virginia Schendler, Aperture (New York City), 1995.
• The Country Road: Poems, Zoland Books (Cambridge, MA), 1995.
• Remembering William Carlos Williams, New Directions Books (New York, NY), 1995.
• Henry Miller and James Laughlin: Selected Letters, edited by George Wickes, Norton, 1996.
• The Secret Room: Poems, New Directions, 1997.
• The Lost Fragments, Deladus Press (Dublin, Ireland), 1997.
• The Love Poems of James Laughlin, New Directions, 1997.
• Thomas Merton and James Laughlin: Selected Letters, Norton, 1997.

8 risposte a “James Laughlin ( 1914-1997) Editore, promotore culturale, meraviglioso poeta, sciatore. Di Daniele Gennaro”

  1. bè, ragazzi, come primo post forse ho svaccato un po’…scusate la prolissità! E’ che Laughlin è davvero uno dei miei riferimenti poetici più importante, spero che chi non lo conosceva lo sappia apprezzare.

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  2. Ciao Daniele, avevo adocchiato ieri il tuo post, aperto e (come da copione internettiano) richiuso.
    Sono tornata qui stamani, mente serena (si fa per dire) e determinazione a conoscere James che sconoscevo se non per avere letto il nome e cognome da qualche parte.
    Beh… beh, io ti ringrazio.
    Letta la breve presentazione ho iniziato a leggerne i versi. Pensavo, leggendo, quanto fosse vero ciò che lui afferma di sè e quanto si trattasse in qualche modo di
    “solo una cadenza prosastica, spezzata
    quando respiro mentre metto
    in parole i pensieri; per lo
    più sono ricordi tenuti in serbo,
    in quella parte dove sta
    memoria.”
    Ma, mano mano che proseguivo in lettura quel “solo” andava scemando e scemava anche la voglia di appellare in qualche modo i versi che andavo scorrendo. Si apriva il varco della poesia che non può avere collocazione, che nessuno può decidere di quale punteggiatura vestire nè in quale musica essere contenuta.
    Non sono una grande commentatrice, nè m’interessa esserlo. Ora e qui sono solo una lettrice che ti ringrazia, gran bel regalo questo post. Grazie.

    ” Le mie albe si alzano con circospezione,
    piano e senza far chiasso.”

    Ecco, forse così anche la sua poesia.

    clelia

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  3. quella di James è grande poesia, al di là di ogni schema riduttivo, ci sono pezzi di meravigliosa prosa poetica. solo in italia credo la poesia viene considerata come una cosa a sè, secondo me è poesia tutto ciò che in scrittura evoca possibilità “altre” di lettura, livelli di immedesimazione nel testo che esplodono in emozioni condivise, catapultandoci in un mondo parallelo, fatto di sogno, ma pur sempre reale.
    grazie Clelia, sono felice ti piaccia Laughlin. purtroppo il libro curato da Bacigalupo è da anni fuori catalogo (oscar poesia), ma se sei fortunata lo puoi trovare su qualche bancarella.
    ciao
    Daniele

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