Racconti inediti: T51 aversa-pineta mare – di Mario Schiavone (post di natàlia castaldi)

Penso che lo spostarsi fra stradoni e viuzze di città e paesi, appartiene alla vita di ogni persona.

Però quando penso a quello che vedo guidando ogni giorno, mi metto la mano destra sulla fronte e la strofino, come un gatto che si carezza gli occhi appena sveglio. Perché io, pur non essendo un animale, di occhi ne ho più di due.

Quelli in più li porto nascosti sotto i capelli che coprono la nuca. Servono, gli occhi in più, a coprirmi le spalle anche quando non posso voltarmi. Ho sempre paura che il marsigliese e i suoi compari vengano a farmi visita: quando ho debiti con lui gli “amici” del marsigliese vengono a trovarmi ovunque, vogliono solo sincerarsi che io stia bene e lavori per pagare i debiti.

Guido. Sudo. Rallento, freno. Poi accelero di nuovo.

Frenare: Solo il tempo di sentire le punte delle dita dei piedi che fanno male, perché sotto le unghie la pressione del sangue spinge.

Accelerare: Il vento che entra dal finestrino e fischia nelle orecchie.

Mi chiamo Enzo Coronella, e sono nato e cresciuto qui ad Aversa. Mi chiamano Enzuccio “o’ zingaro” perché ho la pelle olivastra, i capelli corvini e gli occhi scuri come due teste di chiodi arrugginiti. Non mi spiace questo soprannome, ma non dice di me la verità perché io non ho mai allevato cavalli, né lavorato lo stagno, né suonato strumenti musicali costruiti a mano.

Ho fatto le scuole fino al diploma dell’ istituto agrario e dopo qualche anno trascorso alla facoltà di sociologia – alcuni esami e vari lavori in nero con cui guadagnare un po’ di soldi- sono andato a fare il servizio militare dove ho preso la patente DK.

Porto i soldi a casa guidando il pullman, da più di quindici anni. Non ho moglie né figli e con i soldi che prendo riesco a pagare appena l’affitto del monolocale in cui vivo ad Aversa. Perché gioco forte a poker, e perdo tanto perché la fortuna è come un topo di campagna in cerca d’uova di gallina: arriva sempre quando sei distratto.

Da quando gioco a poker non so se affonderò come plancton che si posa nel buio dei fondali oceanici o se rimarrò a galla in attesa che il sole ci consumi come pesci morti sulle acque del fiume Volturno. Per non pensarci guido.

Sul mezzo che guido passano decine di vite, tutte con una propria direzione.

Non ho né mappa né bussola per dare loro consigli di viaggio, ma porto sempre con me un taccuino su cui annoto (oltre ai miei debiti di gioco) quello che vedo. Lo faccio solo perché mi piace rileggere le mie giornate, magari anni dopo aver preso appunti. Per vedere se ho incontrato gente che mi ha lasciato qualcosa dentro; in fondo sono pur sempre un traghettatore di vite che, a volte, mi raccontano la loro storia.

Per alcuni passeggeri lo stare sul mio autobus può durare alcuni minuti in una sola vita, per altri tutta l’adolescenza, e per altri ancora un periodo di tempo indefinito: tempo che non tornerà più indietro, come tronchi d’alberi caduti in un fiume e spinti dalla corrente verso la foce.

“Io vengo qua, mi siedo al primo posto. E guardo la strada che scorre, mi pare di andare sulla carrozza a cavallo della reggia di Caserta come quando mi sono sposato con Carmelina.”, mi dice Armando, un pensionato di Casal di Principe. Da quando ha perso sua moglie sale sul mio pullman ogni giovedì dei mesi primaverili per andare al cimitero a leggere frammenti di romanzi sulla tomba di sua moglie Carmelina.

“Cosa leggete a vostra moglie?”, gli domando ogni volta. Lui non risponde mai, guarda oltre il vetro con i suoi occhi verdi come noci che hanno ancora la scorza morbida.

Voglio bene ad Armando, perché è solo ma non si lamenta mai del suo stare al mondo senza avere le istruzioni per l’uso della vita che gli rimane ora che è anziano.

Quando faccio il primo turno, dalle sette alle tre di pomeriggio, esco di casa la mattina presto. Guido la mia auto verso lo stazionamento di Teverola e dopo aver parcheggiato timbro il cartellino.

Ritiro le chiavi del mezzo e il foglio con il numero di vettura: devo compilarlo durante la giornata, per registrare le andate e i ritorni: spostamenti da un capolinea all’altro che noi autisti chiamiamo, in una sola parola, “corse”

La lamiera azzurra della carrozzeria cotta dal sole e ammaccata lungo le fiancate fanno del T51 un vero scassone ambulante, anche per chi non è mai salito a bordo. Eppure, al suo interno, passano vite che lasciano odori, tracce, segni.

Registro nella mia mente ogni conversazione, ogni argomento: li uso per distrarmi quando sono teso al tavolo da gioco.

Nei mesi d’autunno, verso le sei del mattino, durante il percorso di andata -da Aversa (Viale Kennedy), a CastelVolturno (interno Villaggio Coppola, via Rio Blu)- il cielo è ancora buio e non raccolgo nessun passeggero. La corriera è vuota, i finestrini sono chiusi e l’odore è lo stesso che senti quando sei vicino le bancarelle che vendono pellame finto.

Metto in moto ad Aversa per poi attraversare Frignano Maggiore, San Marcellino, Villa di Briano, San Cipriano d’Aversa, Casal di Principe e Villa Literno prima di giungere al capolinea del Villaggio Coppola di Castel Volturno.

Al ritorno incontro i miei primi passeggeri della giornata.

Alla fermata-capolinea di Via Rio Blu, interno Villaggio Coppola, proprio dove la pineta confina con il mare, non sale mai nessuno. E’ una fermata che si trova vicino ad un parco acquatico abbandonato: una costruzione che pare presa pari pari dal set di un film horror di Lamberto Bava. Per questo, sui percorsi che fanno per noi quando cambiano i capilinea, c’è la nota “fermata fantasma, in caso di cattivo tempo è possibile anticipare la partenza di alcuni minuti.”

Pure se è bel tempo anticipo sempre la partenza. Non mi piace stare da solo in un luogo spettrale come quello: il mare liscio e sporco come un foglio di catrame scolorito dalla pioggia, la sabbia che pare composta con frammenti di lingua malata di una creatura primordiale, e i rumori delle barche a motore che gettano in quel mare reti illegali mi ricordano i sogni che facevo d’estate da piccolo durante la punizione: mi scoprivano sempre quando scappavo con i ragazzi più grandi che frequentavano il mio quartiere. Andavamo a fare tuffi dai piloni di cemento che reggono il ponte che dà sul fiume Volturno.

Uscito dal Villaggio Coppola, percorro la Domitiana per poche fermate: schiaccio il pulsante delle porte ad apertura pneumatica e salgono le giovani nigeriane. Indossano top scollati su seni grossi e flosci ricoperti di ragnatele di smagliature. Gonne corte su gambe ingrassate e macchiate dai geloni che infiammano a chiazze una pelle liscia e quasi priva di peluria.

In chiusura una donna che pare un freak da circo: ha due occhi che sembrano voler schizzare via dalle orbite incollati su un viso peloso e ricoperto di pustole:

non nasconde mai il suo aspetto né mostra parti delicate del suo corpo.

Mentre le ragazze di colore salgono sul pullman gli automobilisti passano e suonano il clacson a festa. Le nigeriane rispondono mimando movimenti di moto a luogo con le mani e gridando frasi in una lingua a me sconosciuta. La “sorella” meno bella che controlla il gruppo frena la loro stizza con un cenno di mano e loro, silenziose e ordinate, salgono fissando le punte delle loro scarpe colorate.

Una notte ho fatto un incubo. C’erano le nigeriane dentro.

Mi trovavo seduto davanti la televisione, a guardare un cartone animato. Nei disegni animati ci sono guidatori d’auto della Domitiana con una macchina da presa al posto della testa. Mentre guidano ghignano, producendo il suono di una testina rotta che graffia un vinile.

Ai bordi delle strade manichini con seni grandi quanto sacchi di patate e gambe larghe quanto marmitte di scappamento delle auto. Un guidatore ferma la macchina, sporge la testa-macchinadapresa dal finestrino e filma l’immagine a distanza ravvicinata.

Cade pioggia e soffia vento, ma quei manichini solo in apparenza sono inerti, perché il vento li fa vibrare: sui corpi spogli color ebano c’è un cartello che dice: ” ri-prendimi sono tua “.

Mi sono svegliato tutto sudato e fuori pioveva davvero.

Prima di uscire dalla Domitiana, sono obbligato a fare un fermata abusiva poco dopo aver svoltato in via Delle dune: sono i gruppi di giovani tossici che escono dalla pineta del villaggio coppola per prendere il treno che li riporterà per lo più nel basso Lazio o in altre città laziali confinanti con la Campania: vengono fino a qui per comprare roba scadente ad un prezzo molto basso.

Basta contare gli articoli dei morti di overdose che escono sui quotidiani locali ogni giorno, per capire che da queste parti qualcuno ha allestito un discount della droga.

Quei ragazzi, quando salgono, sanno di essere nel torto perché sprovvisti di biglietto. Salutano mettendo troppa enfasi nei loro “Buongiorno capo”, “Grazie Zio”, “Siete l’unico che ci prende sempre fuori fermata, grazie assai” e altre formule di saluto-nonsaluto-salutofinto che hanno adottato come schema fisso ad ogni salita.

Ciò che più colpisce i miei sensi sono le sudorazioni chimiche che la loro pelle emana: emanazioni di sudore che confondono, impastano, diversificano la fiera degli odori presente fra i sedili. E’ un meccanismo fisiologico che ha luogo, mi ha spiegato uno di quei tossici, nei momenti di forte tensione emotiva. Quasi sempre nelle ore che precedono il recuper della dose giornaliera.

Non so se la spiegazione del giovane tossico è fondata su basi scientifiche o meno; però di una cosa sono certo: i loro corpi emanano un odore fetido che ricorda quello che sentivo da piccolo a casa dei miei nonni in campagna, odore di polli immersi nei pentoli di acqua bollente prima di subire la spennacchiatura.

Non capisco cosa li unisce alla droga, perché lo fanno. Però so che non sono diversi da me che dipendo da una droga peggiore della loro: il gioco.

Tossisco, quando il fumo degli altri avversari del tavolo mi arriva in faccia.

TossiSco e gioco, sono un tossico pure io. C’è una S di differenza, e qualche mattino fa l’ho segnata sul mio taccuino. Poche ore dopo, durante la mia pausa, ho provato a giocare con quella lettera, come si gioca con la mente cercando soluzioni a questioni più grandi di noi:

“”””Solo stavolta, sento spiegare. Solo stamattina sarò senza scrupoli: spingerò sostanze sottopelle, stringendo solo ‘sta siringa.

Succhierò saliva, sentendo sensazioni.

Solari? stellari? se sapessi spiegarle saprei sostenermi, senza sostanze solventi.

Sono…

senziente? sieropositivo?

Sarò solo, stasera e stanotte. Schifatemi, signore e signori, se sanguino.

Sorridetemi se strillando semino spavento.

Se sono strafatto significa sempre e solo… Sono ‘sto scarto Sociale.””””

E dopo tutto questo pensare senza pausa né regole non ho trovato la mia risposta. E mi sono sentito ancora più solo.

A Villa Literno salgono gruppi di studenti e studentesse delle scuole superiori: i ragazzi mostrano i capelli cristallizzati con grammi di gel che mettono in testa, l’odore diventa chimico: come di acqua vaporizzata che esce da un ferro da stiro. Le ragazze hanno capelli lisci e privi di fronzoli, poche linee di matita sul viso e piccoli orecchini ben lavorati sui lobi delle orecchie.

Uno dei ragazzi, dal nome degno di un protagonista di soap opera made in USA, si chiama Carlo Riccio ed è figlio di un italiano che ha sposato una donna italoamericana: nonostante il suo sangue sia italiano quasi al novanta per cento riesce lo stesso ad essere una perfetta parodia dei quindicenni americani.

Carlo Riccio indossa pantaloni larghi da skater che mostrano strisce elastiche di boxer colorati, felpe col cappuccio e uno zaino che riempie di tela a rotoli, pennelli e colori ad olio.

In tasca le bacchette per la batteria, che all’occorrenza usa per grattarsi quei punti della schiena non raggiungibili con le mani.

Un giorno, dopo aver osservato la vecchia “sorella” nigeriana -capelli poco curati, denti guasti e una folta lanugine che le macchiava parte delle guance e del collo, Carlo ha ghignato prima di gridare qualcosa in slang americano.

Arrivati davanti al liceo artistico di Aversa, l’americano si è messo in fila per ultimo e prima di scendere, toccandosi i pochi peli che ha sul volto, mi ha detto: “Capo hai visto quella nera signora…aveva molto più di questo, molto più di me”.

Alcune delle ragazze che salgono alla fermata di Carlo Riccio sembrano le più diligenti della corriera, e forse lo sono davvero.

Portano sempre un libro e una matita fuori dallo zaino, mentre fanno segni sui caratteri stampati nei loro libri ripetono a bassa voce la lezione da portare a scuola come se recitassero un rosario.

Un giorno ho trovato il diario dimenticato da una di loro su un sedile. Non potendo resistere alla tentazione l’ho aperto.

Nella prima pagina c’era scritto:

“Più guardo i grandi e più mi accorgo che fanno cose tristi. Le loro vite sembrano pietre di montagna ricoperte di muschio: appaiono vive ma non ha alcun legame con la vita vera. Questa città mi fa schifo da quando sono nata, non vedo l’ora di fare diciotto anni e di andarmene via, io non voglio vivere come quelle che stanno vicino casa mia”.

Sotto queste parole c’era un disegno: ritraeva corpi di ragazze che parevano quelle bambole in vendita sui banchi del mercato delle pulci: ogni ragazza era goffa ed obesa, cinta da abiti da sposa. Tutte le bambole-ragazze disegnate sedevano davanti ad un televisore.

Sotto il disegno la didascalia recitava: “Ecco cosa sognano le figlie delle mie vicine di casa. E’ vita questa?”

A Casal di Principe salgono gruppi misti di ragazzi. Alcuni di loro cantano ogni mattina la stessa litania che vede protagonista una certa Carla.

“Signore ti preghiamo affinché tu renda casta e pura la nostra Carla”, dice uno del gruppo. “Ascoltaci o’ signore”, rispondono gli altri in coro.

In realtà prendono in giro un ragazzo effeminato, passeggero saltuario del pullman, che abita vicino la chiesa “Spirito Santo” di Casal di Principe.

“Se potessero capire la sventura di nascere diversi mozzerebbero le loro lingue con le forbici da potatura”, mi ha confessato Carlo, una domenica mattina in cui era l’unico passeggero dell’autobus a tenermi compagnia.

Avrei voluto dirgli qualcosa, ma in certi momenti mi limito ad accendere l’autoradio del pullman e a cercare una stazione radio che produca meno fruscio delle altre.

A quel gruppo che intona cori fanno parte adolescenti di cui ha trattato un mio ex compagno universitario nella sua tesi di laurea dal titolo ” Il futuro (in) veste i giovani?”.

Portano con loro solo penna e quaderno e indossano finti abiti griffati provenienti dalle case degli “amici degli amici” che millantano contatti diretti con questa o quella fabbrica di griffe del nord-italia. Non sanno che quei capi sono più falsi di uova di tortora macchiate ad arte per somigliare a uova di quaglia.

La posa informale è sempre la stessa: giacca-camicia-pantaloni di tessuto.

La qualità mediocre di quegli abiti è celata solo in parte dalla perfetta opera di stiratura che vede impegnate madri e sorelle: abili e laboriose casalinghe di famiglia, che a detta di un mio collega nato e cresciuto qui, non entrano mai nei bar di paese, per paura di essere additate come donne facili.

Questi giovani dalla mano adatta al trasporto di un solo quaderno e di una sola penna, frequentano istituti tecnici per geometri o istituti professionali. Il più delle volte, quando non finiscono a lavorare nei negozi dei loro padri, finiscono per impegnare il loro tempo leggendo annunci che cominciano dalla formula super accattivante che ho annotato nel mio taccuino: “Cercasi giovani brillanti, abili comunicatori e di bella presenza da avviare ad una carriera imprenditoriale orientata verso NOTEVOLI guadagni economici.”

E’ certo che non tutti sono così. E’ come bleffare sostenere che a Casal di Principe esistono solo ragazzi come quelli che vedo io in autobus: penso questo da quando ho stretto amicizia con Matteo Salzillo.

Matteo è un edicolante di diciotto anni che parte ogni mattina da Casal di Principe, domeniche e festivi inclusi, per andare ad Aversa -via corcioni- dove c’è l’edicola in cui lavora. Non si è ancora diplomato ma gli manca poco: frequenta una scuola serale. Mi ha colpito fin dalla prima volta che l’ho visto perché somiglia in modo impressionante al fratello di una ragazza con cui sono stato per anni. Non è lui, lo so per certo, ma provo lo stesso una forte simpatia nei suoi confronti.

Ho stretto amicizia con lui quella mattina piovosa che i controllori volevano multarlo perché l’inchiostro dell’obliteratura del biglietto si era sbiadito.

“Il titolo di viaggio è irregolare, non fare il furbo giovanotto”, aveva detto un controllore a Matteo.

Lui, senza protestare né curarsi della forte pioggia che cadeva in strada aveva risposto: “Voi non mi credete. Questo biglietto è buono, ma fa niente.

Chi vi vuole combattere a voi che fate solo multe. Io scendo, vado a comprare un altro biglietto e aspetto il prossimo pullman”.

Il controllore aveva afferrato Matteo per il braccio e s’era pure messo a gridare pretendendo i documenti.

Non me l’ero sentita di stare a guardare e dopo aver parcheggiato avevo barato alla grande, giocandomi quasi il posto di lavoro: ne valeva la pena per uno che andava a lavoro pure il 25 dicembre.

“Matteo è mio cugino. Gli pare brutto dirlo, perché non vuole farmi perdere il posto. Se potete, solo per stavolta, lasciate correre la cosa”, avevo detto io.

Quelli, i tre controllori napoletani che lavoravano sulle linee di Caserta, c’erano cascati davvero.

Uno di loro, aveva addirittura dato a Matteo il suo nome e cognome e il numero di cellulare perché “Non si sa mai, se giri per Napoli e ti senti perso e vuoi una mano o qualcosa..”

Matteo il giorno dopo la scenetta con i controllori si era presentato con una copia di tex e una lettera, dicendomi solo: “Il fumetto è un regalo. Il foglio che sta dentro buttatelo quando lo avete letto… e grazie per ieri.”

La sera, rientrato a casa, mentre ero in bagno a sfogliare il tex gli occhi erano caduti sulla lettera di Matteo:

Gentile autista del T51, grazie per avermi evitato una multa che non meritavo. Guadagno poco con il mio lavoro. Voi siete sicuro di voler fare l’autista? Credo che come attore siete proprio bravo! Grazie ancora… ps chiudo questa lettera con una mia pagina di diario scritta in fretta e piena di errori, prendetela come il vero regalo: Tex è nulla se penso a quello che voi avete fatto per me, un estraneo come tanti, rischiando pure il lavoro.

Diario di un edicolante senza diploma, di Matteo Salzillo.

Leggo tanti libri e fumo così tanto che l’odore del piombo d’inchiostro viene coperto da quello della nicotina: quando ho scoperto questa cosa mi sono sentito come un alchimista. Ma così come la merda non diventa oro le pagine di libri non diventano vita vera: nemmeno se nutri i personaggi che vivono in quelle pagine con grandi quantità di nicotina rilasciata dai polpastrelli di indice e medio ingialliti dal fumo. Dita che usi sfogliando le pagine.

Anime di carta che non balzano dalla pagina nemmeno con le briciole di pane che cadono dal mio panino quando leggo in pausa pranzo bevendo il caffè-l’acqua-la cocacola con cui innaffio quelle pagine durante le mie solitarie pause sulla panchina del Parco Pozzi di Aversa.

Per oggi è tutto, torno a lavoro. Ho molte riviste da rendere, spero di finire presto per poter andare a scuola stasera.

Questa pagina di Matteo, non è un discorso da nobel, ma la tengo con me da anni. Mi piace pensare che alle fermate di Casal di Principe ci siano tanti ragazzi come Matteo.

Fra San Cipriano di Aversa e Villa di Briano salgono due albanesi: Burim e Baskim. Li vedo scendere da furgoni sporchi di calce, guidati da caporali che raccolgono operai edili in nero con abiti sporchi di catrame,calce,gesso.

Operai che vengono da ogni parte del mondo. Quando sento i discorsi di alcuni di loro che prendono il mio autobus la sera avverto la monotonia delle conversazioni: parlano di case dai salotti infiniti e di mercedes di ogni colore e lunghezza.

Sognano tutto questo o lo raccontano come di un miraggio apparso loro sui cantieri di lavoro? mi domando, quando sono più povero di loro e ho perso gran parte del mio stipendio al tavolo.

Fra San Marcellino e Frignano Maggiore mi aspettano, sotto le pensiline della fermata. alcune badanti rumene e quelle polacche che vanno a pulire le scale dei palazzi signorili d’Aversa, quando salgono sul mio T51, salutano alzando appena la mano: quasi si vergognano di essere le prime a salire.

Le mani delle ragazze polacche mostrano dita consumate dalla candeggina: centimetri di pelle squamosa e ingiallita, come la pelle di una carpa morta da qualche giorno.

Le unghie corte corte sembrano gusci di telline di mare malate.

Gli incisivi delle donnone rumene emanano piccoli bagliori, formati di una lega metallica simile all’oro ma più economica: hanno un luccichio privo di vigore, come quello delle punte di lampadine che compongono scritte luminose alle feste di paese.

Parlano usando una lingua ibrida: italiano e dialetto. Si scambiano consigli su questa o quella carta internazionale da comprare per chiamare verso i loro paesi ad un prezzo economico. Ogni loro conversazione, prima dell’ultimo saluto, si chiude con l’augurio di non morte per gli anziani che accudiscono e per i custodi di palazzi che sorvegliano la loro borsa quando lavano le scale.

Forse sono proprio loro a vegliare l’ora allegra (lavando le scale su cui giocano i bambini nei palazzi) e l’ora tarda e triste della vita (gli anziani sempre più soli e malati). Ore di lavoro che annotano su calendari ricevuti in regalo nei bar in cui lavorano altre donne dell’est europeo.

Quando arrivo ad Aversa la prima corsa è finita. Parcheggio allo stazionamento vicino l’ippodromo con il pullman vuoto. Prima di scendere guardo due volte il retrovisore, perché ho sempre paura di trovarmi qualche amico del marsigliese alle spalle. Prima o poi perderò qualche dente se sono fortunato o la falange di una mano. E troverò sicuramente un altro tipo di gioco con cui drogarmi e non pensare alla solitudine che mi prende quando non lavoro.

Quando non mi tocca andare avanti e dietro, a traghettare vite. Guardo queste vite e mi sento solo un testimone. Non posso fare nulla per loro. Il pullman è come il corridoio della casa infestata dai mostri, che troviamo allestita in alcune zone dove montano le giostre. Paghiamo il biglietto per entrare, vediamo quello che accade, proviamo rabbia paura indignazione e poi usciamo. Diretti verso la prossima giostra. Forse, in una altra vita, ero anche io un nomade che guida uno dei carrozzoni delle giostre. O uno zingaro. Anche io cerco un luogo dove fermarmi, in attesa di dimenticare i fantasmi che ogni giorno incontro sul mio pullman. Ma è come giocare a carte, non riesco mai a smettere: a starmene solo, senza poter incontrare altre persone capaci di raccontarmi storie ancora più incredibili di quelle che ho sentito in questi anni guidando, mi sentirei davvero come un esploratore caduto da una nave in un mare coperto da un cielo senza stelle.

Eppure, anche se non guardo le stelle per orientarmi, io percorro ogni giorno la stessa direzione, nella speranza di incontrare gente nuova.

Guido il mio T51 e stringo le mani al volante, per sentirmi vivo qui: nel mio sud.

_______________

nota biografica:

Mario Schiavone nasce ad Aversa nel 1983.
Ha pubblicato il suo primo racconto “Binario 24” sulla rivista elettronica Nazione Indiana, a cura di Francesco Forlani; ed un altro più breve, a quattro mani con Gaya Cenciarelli, sempre per i tipi di  Nazione Indiana.
Ha frequentato una scuola di scrittura e dato qualche esame presso la facoltà di scienze politiche.
Attualmente sbarca il lunario facendo il libraio in giro per l’Italia.

9 risposte a “Racconti inediti: T51 aversa-pineta mare – di Mario Schiavone (post di natàlia castaldi)”

  1. Questo ragazzo ha talento, Natalia. Hai avuto buon fiuto.
    …e poi, ha scritto delle zone in cui lavoravo fino ad un mese fa…

    "Mi piace"

  2. Oggi sono salita anch’io sull’autobus T51, due posti dietro Armando il pensionato.
    E ho visto la vita scorrere dietro il finestrino. Ne ho sentito i profumi, ne ho visto i colori, ne ho percepito le pulsazioni.
    Per saper scrivere bisogna avere letto, e per saper leggere bisogna saper vivere. Come Mario.

    "Mi piace"

  3. Cominciare a leggere un racconto mentre fai altre 10 cose su internet e poi bloccarti sulla pagina per sapere cosa ci sarà dopo; vedere ogni singola parola in quei luoghi che conosci ma non hai mai pensato che nessun altro possa vedere così: pieni di vita e di bellezza in ogni angolo, dolorosi e vivi perchè c’è la tua vita in quei posti dove non serve Dio nè la Madonna, ma solo parole che possano esser visti anche da chi non sa nemmeno immaginarli. Raccontiamolo questo sud!!! Raccontiamolo a tutti! Grazie per ogni metafora, Mario, sei davvero bravo!

    "Mi piace"

  4. Mario,
    ho appena finito di leggere il tuo racconto, sei veramente bravo, hai molto talento.
    Grande!!!

    ciao

    "Mi piace"

  5. Veramente bello! Soprattutto i pretesti letterari per far scrivere i racconti degli altri nel tuo racconto( il diario della ragazza, il biglietto di ringraziamento dell’ edicolante; veramente un bel modo di filtrare la banale,anonima anche squallida,realta’ quotidiana, rendendola artistica, lirica, letteraria, e quando in quella realta’ ci sei tu, quelle persone, quelle strade, quegli odori, ti arrivano forti, ti balzano fuori dallo schermo, tanto forte che per un attimo devi ritrarti, come quando schioppetta improvvisa una scintilla dal fuoco che stai attizzando.

    "Mi piace"


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: