E chi ha mai detto che l’amore è uomo? – L’erotismo – di Maria Grazia Lenisa (post di natàlia castaldi.)

“ … l’erezione non è affar nostro: stiamo così bene sulle spiagge. Abbiamo tanti spazi da distribuirci. L’orizzonte per noi non ha mai finito di girare, sempre aperte. Distese in una interminabile espansione, abbiamo tante voci da inventare per dire noi dovunque, anche nelle lacune che il tempo non ci basterà… Il cielo è tra noi.”

Luce Irigaray , Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, 1978.

 

Ennio Montariello – Erotismo – matita su carta

 

Il 21 luglio del 1990 fui colpita dal fulmine
(Nella liquidità azzurra del mare potrei avere altri zampilli… )
                                        A Luce Irigaray

Io lapidata?
       I colpi della grandine e sabotate le nubi
da angeli un poco sporchi, appiccicate l’ali, quasi
stramate dalla pioggia acida.
Là due creature
con l’ombrello immenso e molto strette, neppure
una goccia della gran doccia scatenata in alto.
E mi ha fermata d’improvviso il fulmine, non mi conosco,
non so la mia storia e l’amore s’inventa a poco a poco
il mio viso di verso, in fondo agli occhi proprio la luna
che diserta il cielo.
         Per quali sogni?
Il Vento le si forma come un corpo maschile per goderla
 in mezzo all’erba, sollevato l’orlo della veste segreta.
        E chi ha mai detto che l’amore è uomo?
Una chioma spiovente sulle spalle color di scudo,
quando batte il sole, gli occhi celesti, aperto sopra
il bruno quasi frinente di cicale(il petto) e così
caldo di pelle (di Imetto). L’amore è vento che ti porta altrove.
         E chi ha mai detto che l’amore è donna!
Ma no, è la Luna tormentata, il volto coperto dal vaiolo,
così lontana che ti pare bella: E’ la luna, la luna,
(non è quella!). O la nube che fugge così tonda a dire
corpi dissoluti e bianchi, amori di animali sconosciuti,
un happening di angeli drogati.

Cosa rimane del celeste Caos… Un amore che a dirsi non si presta.
                L’amore è questa voglia di far versi, sentirli
dentro tutti fra le gambe e ridendo un po’ gemere: mi penetraaa….
                L’amore non è niente, lo si inventa?

L’eros maschile appare come un battello esile in preda ai capricci, ai sereni del mare.

Quanto resisterà il battello, prima di essere schiantato, affondato? Tocca concedergli uno spazio sicuro, perché possa, non dico restare integro, ma essere amorosamente riabilitato, calafatato, dove sognare sempre la fortunosa avventura del mare aperto con i voli dei suoi gabbiani, i segreti nascosti, magari ascoltare il canto delle sirene nell’antico adagio di amore-morte, caro alla cultura occidentale.

E’ così piccola, in fondo la trasgressione, nonostante la monotona ripetitività, ma, per salvarsi, ha bisogno di quella baia ombrosa della pace (eufemisticamente del mare della tranquillità!), della rassicurazione che è lo spazio della compagna, del quale si sono opportunamente segnati i limiti. Lì si sente sicuro, fa le sue capatine per pescare i pesci più prossimi, sogna di possedere (e lo racconta) la balena azzurra e di farsi la doccia ai suoi altissimi spruzzi.

L’eros maschile è fragile, bisognoso di rassicurazioni circa la sua potenzialità, la sua bandiera pirata è patetica. L’eros maschile è un bimbo da far crescere che, miticamente, ancora si crede un gigante.

Ma l’eros femminile è il mare (“A ogni donna che amo/e dunque al mare…” – scrive Grytzko Mascioni in Appunto (da Poesia, Rusconi, 1984). L’universo erotico femminile è liquido, azzurro. In esso esistono isole e mostri, fortunali e ampie bonacce ed esiste, per rassicurare la precarietà maschile, la baia della tranquillità.

La donna tiene a bada in poca acqua (nei confronti della sua liquidità celeste) il mare da sempre e il suo eros, nel limite, è il miracolo del bambino che voleva far entrare il mare in una buca nella sabbia, per fede: la donna per amore. Ella è più forte, perché è capace di dare una stabilità che a torto è considerata il suo elemento, chiamando in causa paura o debolezza. Dice con un’ironia affettuosa, nascosta, perché non sia insostenibile, all’uomo: “io sono il mare vicino casa dove le acque sono basse (le scuoto solo un poco!) e puoi farti il semicupo”.

Ma l’uomo, disorientato, ha ormai perso la sicurezza di questa baia, ha scoperto, a sue spese, che nello spazio dell’eros misurarsi con la donna è abbastanza arduo. La donna è dolce e quieta appunto perché lo sa, l’uomo è anche violento, perché assegnato per sua natura, mai accettata, alla drammaticità di un sesso sgonfiabile, un piccolo canotto nell’azzurro o nel rombo di quelle acque.

E, se intorno ad essa non inventa incredibili storie di sirene, non cerca il salvataggio nella parola, tutto si riduce al coito animale che, fatto dalle creature senza intelletto d’amore commuove, ma ai fini di un remedium concupiscentiae nella specie umana è squallido.

Se la donna trova sbocco nel mare di cui è parte, se prende l’iniziativa, l’uomo è preso dal terrore; il suo interrogativo è se potrà non sgonfiarsi, prima di aver un po’ galleggiato. L’eros maschile è debole, precario, per perdurare sconfina nelle deviazioni. Lo stesso tradimento non è conoscenza, come si vorrebbe, al contrario un continuo rassicurarsi della propria potenza, in mare aperto, scegliendo peraltro il tempo e l’ora, ma con chi ci conosce, adire finalmente alla consolazione della culla, identificando la sposa con la madre.

Posta la distinzione tra i due eros: precario, vulnerabile l’uno, aperto ad ogni possibilità l’altro, si potrà capire come la condizione di “mancanza” dell’uomo o meglio di intermittenza che vuole testimoniarsi come potenza, renda il rapporto uomo-donna più difficile. La donna non ha qualcosa in meno, ma contiene tutto. E’ il mare. In questa condizione di disparità più o meno riconosciuta e capita dalla stessa donna, solo l’amore potrebbe mediare, assegnando da una parte l’umiltà, l’abbandono, dall’altra la capacità di sentirle come autentica prova d’amore.

Superato il distinguo tra i due erotismi, diremo che la sessualità genera vita, l’erotismo arte. Quanto siamo distanti allora nell’uso della parola amore dal gergo osceno, proposto da un piccolo eros che ha bisogno, per gonfiarsi come una rana davanti al bove, di considerare la donna spregevole, puttana, in una miseria che non le appartiene. Ella nell’universo è la trasgressione, l’avventura, la completezza dell’eros, qualora si sporga ed entri nell’altro spazio e lo penetri.

Il piccolo eros ha orrore della donna e di questa sua infinita possibilità di ricevere, perché non accetta l’amore come salvezza. La vita senza amore è come la parola senza la poesia, e, quindi altro è fare l’amore ed altro è essere amore. Se manca amore e arte, sesso e parola sono orizzonti quasi bui.

Il traguardo, sia dell’uomo che non trasgredisce sia dell’uomo che cerca freneticamente la trasgressione, è fuori dall’amore, nella solitudine estrema di Sade o del piccolissimo travet che non rincorre l’avventura per pigrizia, in quanto è richiesto un minimo di gradevolezza e sforzo. Quando un uomo attesta la sua solitudine è davvero o libertino o ligio all’orrifico dovere senza amore. Oltre il limite e nel limite gli altri esseri sono banditi, in nome dell’instabilità o della stabilità, dell’illusoria potenza o dell’impotenza.

L’amore, questo sconosciuto, però non è cieco (come si va dicendo), dà, al contrario, occhi al desiderio stesso che acquista coscienza di sé, quando nel caso del libertino tale coscienza è alterata.

L’amore è la giusta mediazione, ignota a Sade che mai pervenne alla chiarezza coscienziale, né libero, né prigioniero alla Bastiglia, simbolo di una concreta separazione dal mondo.

Quando invece Fromm segna la distinzione tra l’amare e il saper amare instaura la chiarezza, il desiderio di pervenire attraverso l’amore al compimento della coscienza.

Nel porre l’accento sulla parola d’amore, va chiamata in gioco la comunicazione, quel fluido che mancò a Genet e ne decretò il fallimento.

Comunicare quindi non è parlare: è unire le parole tue e dell’altro, per una reciproca comprensione, onde uscir fuori dalla solitudine.

La desolazione dei corpi, la desolazione delle parole sembrano essere la risultante di quella gioia di vivere che la civiltà dei consumi ci propone attraverso la sua anima venduta: la pubblicità.

Contatti di corpi belli, perfetti, sani in superficie e, dietro il sipario, il buio, il rantolo, il trascorrere di topi, la peste, il contagio mortale.

La comunicazione avviene allora con personaggi fittizi che non possono risponderci e si trasforma nella scelta di oggetti che ci entrano nel corpo e ci posseggono.

Sulla scena della vita la donna è accovacciata a terra, lontana dalle sue immagini proditorie, felici, della moltiplicazione dei suoi amori a recitare ancora per l’uomo la parte di preda facile che si concede o si nega: è la stessa cosa. Alle pareti delle stanze, non più segrete, il quadro di Renato Guttuso, dove a gambe aperte Lei si masturba, comunica con le sue acque morte, desolate.

Nella ricerca di una identificazione, guidata da un contesto non suo, comunque di comodo, a casa e fuori, la donna sta perdendo la sua identità, riappropriandosi dell’universo maschile più esteriore, evidente, che appartiene al maschio più per tradizione che per verità.

Così ella aggiunge il fittizio maschile al suo fittizio femminile, costretta a simulare, a fingere una gioia e una leggerezza dell’essere che non può avere, in tanta confusione.

Pur tuttavia la foglia di acanto sul fallo è scivolata nel momento dell’erezione (e nel momento sbagliato per lei!): alla donna piace l’elemento apollineo nell’uomo, del fauno (evocato da Vaneigem) ha semplicemente disgusto. La sua attenzione non è volta al fallo che per curiosità agli inizi della vita sessuale. Dapprima è sempre quasi timore di contaminarsi, finché non intervengono intorno all’offerta dei corpi altre valenze di innegabile forza psichica. Il corpo così diviene oggetto sacrificale dell’amore al quale aspira, del suo essere amore, prima di farlo.

Allora il sesso è davvero la chiave di risoluzione dei problemi d’amore?

Assolutamente no, è il modo più disimpegnato e più tragico di tentare di risolverli, nel ridicolo della sua insignificanza, escludendo ovviamente il valore della procreazione; è l’usa e getta della parola amore, la fine di ogni incanto.

“Mai così cedevoli le vagine, e mai così immemori. La rosa mistica, il bocciolo promesso al di là della battaglia contro il drago. Ad esso procedeva il cavaliere inastato… I miti fiabeschi ci mentivano, ma quale menzogna è più disarmante della nudità scevra di magia? Questi corpi desolati”. (Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, 1974).

Col sesso ci si assicura la salvezza fittizia proprio dall’amore in un abbandono del tutto provvisorio.

Dopo il mito di Don Giovanni, legato non all’amore, ma alla conquista che conferma la necessità dell’uomo di essere infedele, dopo quello del corrispettivo femminile (la mangiatrice di uomini!), toccherebbe riaccostarsi alla sacralità dell’eros per un convegno non solo di corpi, ma di anime, non solo di gesti, ma di parole autentiche davvero comunicanti, in un “progetto di comunicazione” che non ci spogli del mito.

Va ribadito che la sessualità genera vita, nel sessuale – come rilevò anche Baudrillard, il corpo trova il suo parametro di riproduzione; l’erotismo genera arte nel desiderio insaziabile.

 Credo che per l’erotismo tocchi risalire alle meditazioni di Lou Andréas Salomé che riteneva che amare e creare abbiano identiche radici: “ In ogni processo creativo è solo l’irresistibile amore per un soggetto stimolante, la traboccante sensazione voluttuosa da esso suscitata, a dar vita all’opera; si tratta di un vero e proprio atto amoroso, e, parimenti ogni amore è un atto creativo, autonomo, un entusiasmo creativo o procurato, sì, dalla persona amata, ma non per essa, bensì per se stessi” (La materia erotica, 1977).

Naturalmente è d’obbligo rassegnarsi all’intermittenza dei furori d’amore o della creatività, qui interviene per l’uno l’amicizia, per l’altra l’ascolto, e chiamano in gioco il saper amare, scegliere che l’intermittenza diventi noia è scongiurato dall’impegno.

Hanno fatto il loro tempo i collezionisti di avventure, gli amanti delle sensazioni forti; restano a margine le deviazioni nevrotiche, dovute ai condizionamenti del sociale, le quali sono il pattume dell’erotico non esso medesimo come vorrebbe Rops. E stolta mi appare anche la convinzione di Moravia, quando conclude che l’eros libero è più ricco dell’amore. Ricco di che cosa? Di carni, di dentiere, di peli, di fiati? O corpi vecchi mescolati a corpi giovani?

L’erotico, visto come arte del sordido, del maleodorante, quale ad esempio denuncia Velio Carratoni, con i suoi eroi negativi in una Roma-cloaca, è frutto di condizionamenti sociali, della mercificazione dei corpi. “Il corpo c’è – scrive in proposito Gaudio – ma ha perso il mondo o la carne gli si è appesantita”.

Siamo all’erotismo di consumo, “il corpo non è più lo strumento attraverso cui noi siamo nelle cose. Le cose sono nel corpo.” E’ la tragedia di quando non c’è più alcun mito.

Giunti a questo (e il poeta citato rappresenta o tocca il punto più basso) decelerante dell’erotismo consumistico (in una Roma di massaggiatrici, di incontri particolari, nel brulicare di una perversità odiosa), ecco farsi urgente l’amore e la necessità del mito che è recupero del corpo nella parola, possibilità di essere nelle cose e non invasi da esse.

Abbiamo citato Velio Carratoni, un autore niente affatto trascurato dalla critica, ma potremmo citare varie maleodoranti antologie in cui l’efficacia del reale è così intensa da non portarci il soave odore delle mele di Proust.

Tocca ripercorrere il cammino dei valori, salire un po’ più in alto, rizzarsi su due zampe.

Ci domandiamo quale sia la posizione della donna rispetto all’eros: libera o prigioniera rischia quasi sempre di fare il gioco dell’uomo.

E quanto all’arte, al femminile l’erotismo ha avuto rarissimi cantori, è emerso annegato come il cadavere di Ofelia. Comunque, sia al maschile che al femminile, qualora accada di essere nel dio, se ne resta dentro e remoti. Ne hanno coscienza, a tratti e con sgomento, le creature che hanno abitato il fulmine, onde la celiniana angoscia: “Je suis ni jouisseur, ni sensuel, je suis détaché, classique dans mon délire”:

Ma, al femminile, la dichiarazione assume, attingendo ironicamente al genere neutro (Questo sesso non è un sesso di Luce Irigaray)  la portata di una sconvolgente trasgressione; il sérieux diviene nel crescendo di un sorriso, ilarità. Per cui al femminile si potrà parlare di allegria di scrivere  ed utopisticamente di allegria a vivere l’eros.

Ben sappiamo invece che la poesia erotica maschile sia secolarmente afflitta da mal di teca, ossia nella teca viene chiuso quanto dà angoscia nella donna, la foemina simplex, capace di mettere in crisi le istituzioni, di contrapporre la sua a-moralità all’immoralità maschile che le dà la caccia sull’orlo della paura, sino a riscattarla divisa nella mater.

L’erotismo certamente genera arte ed in questo senso non è legato alla deperibilità del sessuale, al suo angusto corridoio genetico, mentre la sessualità, generante vita, come tale è legata al suo limite, all’esauribilità, alla morte.

Ecco che la poesia non può che essere il corpo magico in un’area di privilegio, quella erotica, da denominarsi sacra e cosmica. Ci si appropria per la rappresentazione dei misteri di uno spazio altro, con schizofrenia, sapientemente guidata, ma non tale da sconfinare dal sentimento di irrealtà alla follia.

Ogni poesia erotica, se autentica, ha in sé Venere e Marte, è coito di luce e d’acqua; l’elemento maschile e femminile sono in compresenza mistica. Quindi chi scrive d’eros, sente l’urgenza di appropriarsi il più possibile, di segreti sepolti sotto le istituzioni che pure gli appartenevano dal principio come verità di vita, se portati avanti con libertà di crescita e desiderio, che, però, incontestabilmente gli appartengono nello spazio di privilegio dell’arte erotica, in un raffinato piacere intellettuale. L’erotismo, in arte, non è malattia, ma misura, equilibrio, comicità, e giustamente bisogna rilevare come non ammetta il sentimento se non in vibrazioni miracolose, sotterranee come sorgenti dal di dentro a nutrire l’aridità.

Ogni uomo, ogni artista dovrebbe scoprire in sé il continente favoloso e imprevedibile della femminilità, riproponendo fortemente coesive forza e grazia.

Sempre parlando di poesia che ci corrisponde, la donna, se riesce a moderare il sentimento, nel suo comporre, tocca un erotismo smagliante, libero da tradizioni culturali maschili. Esce, per intenderci, dalla teca dove l’uomo rimane in ginocchio a pregarla e, alzando gli occhi, finisce per accorgersi che non è più là dentro, ma alla conquista dei suoi spazi.

“ Non più bocciolo promesso… “(Cesarano), non più desolata, ma tesa a rivelare il suo universo erotico, strappandosi i lustrini da principessa, sconfinando dai grandi quadri che esaltano la funzione sotirica del maschio.

Il sorriso resta sempre la sua arma, remota dalla violenza, atta a destarsi e palpitare nel vento della tenerezza che rivaluta l’essere, non necessariamente estraneo all’amore, in un inno alla gioia, nell’espressione di una più gentile e umana civiltà.

Alle donne spetta di “scaturire un ritmo nitido e vigoroso, direi femminile e maschile, cavato da un’arpa arcaica consegnata da sempre a loro…” (G.Arcangioli).

Speriamo allora che emergano tutte le compiante Ofelie, e, come la balena azzurra, alzino il loro ilare, altissimo zampillo nella spaziosità di Thalassa. E, ridendo, anticipino la chiusura delle porte del secolo, magari sigillandole con il romanzo “La principessa e l’antiquario” di Siciliano, dove è dettata la diagnosi apparente della loro morte, nel trionfo di quello che io chiamo mal di teca.

E, ritornando alla vita, Amore non è cieco ed il nuovo mito comincia qui, ora che ci mostra i suoi occhi azzurri di mare e non dice all’uomo: “Conosci te stesso” nei panni di Apollo, ma: conosci la donna in te, per amarla. L’oracolo si fa più chiaro ed il dio ci sorride tra amore e poesia.

Maria Grazia Lenisa

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3 risposte a “E chi ha mai detto che l’amore è uomo? – L’erotismo – di Maria Grazia Lenisa (post di natàlia castaldi.)”

  1. … sì, l’amore si inventa, s’improvvisa senza disegno…
    che bella scrittura… quanta profonda leggerezza in quei versi e “occhi ridenti”, ma non fuggitivi…

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