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La torta e il piede grosso – da “Picasso’s frame” di Enzo Campi (post di natàlia castaldi)

Cosimo di Mariano Tori, detto “Il Bronzino” – 1503-1572 – particolare dall’Allegoria di Venere

Stavo rientrando a casa. Era molto tardi. Avevo appena superato Rue Cardinale quando incontrai quella che a prima vista sembrava una prostituta. Non so perché ma cominciai a seguirla sistemandomi appena dietro di lei.

La donna parlava a voce alta come se volesse farsi sentire:

 “Il mercato centrale alle cinque del mattino pullula di giovani scaricatori che esibiscono i loro corpi villosi. Una puttana come me sa che questa è l’ora più adatta per racimolare qualche franco con prestazioni veloci. Tra le casse di pesce fresco appena arrivato dall’Atlantico e i cesti di frutta delle campagne della Charente è tutto un susseguirsi di ansimi, grida e risate. Con quello che guadagno tra le cinque e le sette del mattino potrei anche smettere di battere la sera sotto i lampioni del Boulevard du Palais nell’Île de la Cité, ma Mignon  se ne avrebbe a male. Sarebbe capace di picchiarmi e, ancor peggio, non verrebbe più a letto con me”.

Si infilò le mani in tasca e tirò fuori del denaro. Poi cominciò a contarlo separando le banconote dalle monete e riprese a parlare:

“Dunque, vediamo un po’, stamani ho incassato otto franchi in più di ieri. Voglio proprio vedere se Mimosa e Castagnette hanno incassato più di me. Mignon sarà contento”.

Si fermò improvvisamente e si girò di scatto. Il movimento fu così inaspettato che finii per investirla. Cercai di chiederle scusa per la mia goffaggine ma lei mi zittì dicendo:

“Ma tu bel signore, che mi guardi con quegli occhi da gitano, cosa vuoi da me? Un servizio veloce così tanto per iniziare la giornata nel miglior dei modi e senza impegno, o forse mi vuoi portare a casa tua?”.

La donna aspettava una mia risposta, ma io non dissi una   parola. Così continuò:

“Io non vado mai a letto prima di mezzogiorno. Sono le sette e mezza, quindi abbiamo più di quattro ore tutte per noi. In quattro ore posso resuscitare un morto o ammazzare un vivo. Tu sei vivo o morto?”.

Fu a quel punto che mi decisi a parlare: “Hai sorelle?”.

Lei mi guardò stupita e continuò:

“Non vedo che importanza abbia. No, non ho sorelle. Beh, a dire il vero, io sono sorella di me stesso. A buon intenditore poche parole”.

La cosa non mi era molto chiara. Feci per dire qualcosa ma la sua mano sinistra mi tappò la bocca. Aveva delle mani enormi, quasi maschili. Si avvicinò sfiorando con le labbra la guancia e, modulando la voce,  cominciò a sussurrare alcune parole al mio orecchio:

“Permettimi di presentarmi, io sono Louis, ma preferisco farmi chiamare Divine. Qui al mercato però tutti mi conoscono come La torta, questo perché sono golosa e fin dal primo giorno che ho cominciato a bazzicare in questi luoghi tutti mi offrono pezzi di torta. Devo farti una confessione: a me piacciono gli uomini con dei grossi piedi. C’è una donna che si fa chiamare Françoise e che talvolta, spacciandosi per mia cugina, mi ruba i clienti più giovani, nonostante il suo alito puzzi sempre di cipolla. Vuoi mettere la differenza tra un alito che profuma di crema e cioccolato e un alito che puzza di cipolla? Io ancora non capisco come gli uomini possano preferirla a me. Comunque, Françoise prima di andare a letto con un uomo gli misura i piedi. Se il piede è troppo grosso manda via il cliente. Ecco perché ho imparato ad amare gli uomini coi piedi grossi: una volta che Françoise li rifiuta loro vengono da me. Tu che piedi hai? Sono sufficientemente grossi?”.

Chinai il capo come per invitarla a guardare i miei piedi ed esclamai:

“Questo è quello che ho, ma il problema non va posto in questi termini. I miei piedi non contano, a meno che tu non riesca a mangiarli”.

La torta, senza scomporsi più di tanto, replicò:

“Beh, bisogna prima tagliarli a pezzetti e poi passarli in padella con aglio e lardo. Infine si devono condire con latte d’asina e un trito di erbe aromatiche. È così che vuole la tradizione, e io non sono una rivoluzionaria, né tanto meno un rivoluzionario. Ci tengo che le cose vengano fatte nel migliore dei modi”.

Feci appena in tempo a notare che la donna faceva un po’ di confusione nell’apostrofarsi talvolta al maschile e talvolta al femminile, quando la mia attenzione si concentrò su un fischiettio che proveniva dalla mia sinistra.

La torta sorrise e mi disse:

“Lo senti anche tu? È Lucien, un macellaio che lavora qui dietro l’angolo. Gli ho appena fatto uno dei miei lavoretti di bocca. Se vuoi possiamo chiedergli di tagliarti i piedi. Poi appena più avanti c’è la locanda di Marion che è ancora aperta. Vedrai che non avrà difficoltà a prestarci la cucina. Anche lei è una mia cliente. Sai, il fatto di essere sorella di me stesso mi permette di poter soddisfare sia gli uomini che le donne”.

Cominciai a capire che La torta non era una donna ma uno di quelli che qui, nell’argot metropolitano, chiamano mâle, ovvero un travestito. Ed anche lei comprese che avevo messo a fuoco la situazione perché, con uno sguardo di sfida, prese la mia mano e se la portò tra le gambe. Così ebbi la conferma. La torta mi fissò lungamente senza proferire parola. Mi sentivo un po’ a disagio e per mettere fine a quella situazione apostrofai:

“Io non andrei da Marion né dal macellaio. I miei piedi devono essere mangiati crudi. Se tu non sei in grado di farlo non sei la donna o l’uomo che fa al caso mio”.

La torta rimase interdetta per un attimo e poi replicò:

“Guarda che sono disposta a pagarti. Magari ne tagliamo uno solo. Che ne dici del piede sinistro?”.

Feci un cenno di dissenso col capo e lei visibilmente indispettita cominciò a strapparsi i vestiti da dosso. Poi urlò a gran voce il nome di Lucien che sopraggiunse in pochi secondi con in mano un grosso coltello ancora sporco del sangue del vitello che stava disossando. Lucien chiese cosa stesse accadendo e La torta rispose che io avevo tentato di violentarla. Poi chiese al macellaio di darmi una lezione e di tagliarmi il piede sinistro. Vidi il coltello levarsi nell’aria e mi svegliai di soprassalto sbarrando gli occhi.

Mi trovavo in terra in un vicolo adiacente a Rue de la Boétie con la camicia macchiata di verde e letteralmente intontito. Pensai che prima o poi avrei dovuto smetterla con l’assenzio.

Mi alzai e mi incamminai verso casa che distanziava poco più di un centinaio di metri. Una volta arrivato vidi che sull’uscio c’era già il giornale del mattino. In prima pagina svettava, a caratteri cubitali, la notizia della morte di Harry Crosby [1].

Harry era stato trovato morto a letto insieme a Josephine Bigelow in una camera dell’Hotel des Artistes. Entrambi avevano i piedi nudi mentre il resto del corpo era completamente vestito. Harry aveva sparato un colpo di pistola alla tempia di Josephine e solo dopo diverse ore si decise a farla finita sparandosi un colpo in testa. Sul letto furono trovati tutti i libri di Baudelaire, dei fiori neri,  un paio di bottiglie d’assenzio vuote e una torta intatta sulla quale spiccavano i resti di una grossa candela consumata. In terra un manoscritto con un’illustrazione di Alastair e la trascrizione della poesia La mort des amants [2]. La cosa che aveva più colpito il giornalista che firmava l’articolo consisteva nel fatto che la stanza fosse pregna di un profumo mai sentito prima, quasi soprannaturale.

Ezra Pound spese parole di elogio difendendo quella morte e rivestendola come di un’aura salvifica. Scrisse che si trattava di una necessità e che bisognava che tutti gli artisti compiessero atti portatori di messaggi. Solo così, anche attraverso eventi sacrificali, si poteva avere fiducia per un avvenire migliore e sperare in una sorta di giustizia divina.

Comunque, a parte le estremizzazioni di Pound e la morte che io, per principio, cercavo sempre di esorcizzare, ciò che mi procurava disagio e preoccupazione era la presenza di una torta e il fatto che i loro piedi fossero nudi ed esposti, come se fossero davvero portatori di un messaggio.

Forse Pound aveva ragione, del resto ognuno di noi filtra le cose e gli avvenimenti attraverso la propria sensibilità. Crosby attraverso il suo suicidio mi aveva mandato un messaggio figurato: i piedi nudi.

Voi credete ai segni del destino?

Anche se era stato solo un sogno fui contento che il macellaio non fosse riuscito a tagliarmi i piedi.

Vidi che il forno di André era già aperto. Comprai una torta e mi tolsi le scarpe. Poi aprii completamente il giornale, vi poggiai con cura la torta e le scarpe facendo in modo che chiunque passasse potesse vedere quella sorta di improvvisata natura morta.

Aprii il portone e mi incamminai, a piedi nudi, su per le scale.

Enzo Campi


[1] L’americano Harry Crosby e sua moglie Polly Peabody (conosciuta come Caresse) intorno agli anni venti vissero per qualche anno a Parigi. Erano entrambi dediti all’assenzio e Harry, che aveva velleità da poeta, era totalmente succube della poetica baudelaireana tanto da assumere uno stile di vita decadente.

[2] “Avremo letti pieni di profumi leggeri / e divani profondi come tombe / e, sopra dei ripiani, strani fiori, / nati per noi sotto più ameni cieli. // Coi loro ultimi ardori, a gara, bruceranno / il tuo e il mio cuore come grandi torce / la cui duplice luce imiteranno, / specchi gemelli, i nostri due intelletti. // In una sera rosa e azzurro mistico / ci scambieremo un unico bagliore, / lungo come il singulto degli addii; // e un Angelo, più tardi, dalle dischiuse porte / ravviverà con fedeltà radiosa / le specchiere ossidate, il fuoco morto” (Charles Baudelaire, La mort des amants, in id. Opere, trad. Giovanni Raboni, Einaudi, Torino, 1996 e 2006, p.257).

***

Il racconto “La torta e il piede grosso”, espunto da un libro in lavorazione che avrà titolo “Picasso’s frame”, narra episodi ed aneddoti della vita di Pablo Picasso, immaginati e giocati da Enzo Campi su una scacchiera di mosse e pedine che, tra surrealismo ed ironia, si vanno ad intessere su un grande ed approfondito lavoro di ricerca e ricostruzione di fatti, incontri ed episodi reali, che l’autore reinventa sulle tracce di uno dei più grandi artisti del secolo – oramai – passato.

Tra mistero ed ironia, l’apertura del racconto nell’atto di superare Rue Cardinale introduce il lettore in una dimensione surreale tra vicoli francesi che odorano di pâtisserie, boulangerie, boucherie, una sorta di “barrio” da “Irma la dolce“, laddove tutto, nonostante la sua realistica crudezza, appare gustoso come un soffritto con trito di speziato che annulla il lato cruento della “fame”, stuzzicando ed invitando edonisticamente al gusto, in modo sì naturale ma non privo di un certo morboso feticismo che, attraverso la trama di sguardi e dialoghi, si scopre e si compiace della sua freudiana e “svelata” ambiguità che s’incentra, appunto, “fallicamente” sull’attenzione per il piede, … grosso.

Che sia sogno, immaginazione o realtà, l’“incontro” è sempre una commistione di percezioni, e questa pagina fa di esso una giostra di sensi:

La scena onirica si dissolve nel – provvidenziale – risveglio di soprassalto del protagonista al presentarsi della prima vera immagine cruenta data dall’accorrere – coltello alla mano – del fido macellaio Lucien, giunto in soccorso alle “isteriche” grida dell’appetibile “Torta”; e qui l’abilità di Campi nel condurre il racconto, con l’espediente letterario del “risveglio”, da uno stato di surrealtà onirica ad un livello di sopra-realtà letteraria:

l’assenzio e la notizia dell’omicidio-suicidio d’amore di Harry Crosby e Josephine Bigelow sono anch’essi trama ed intreccio per introdurre altre gestualità fissate e composte in un disegno artistico di “nature morte” quale estrema rappresentazione/composizione Baudelaireana d’arte. È dunque qui che il viaggio surreale tra i sapori della Torta acquista il senso della premonizione, dell’anticipazione dei simboli dell’estremizzazione artistica del suicidio degli amanti: l’assenzio, una torta, i piedi, nudi.

Dunque l’esigenza di far proprio il “senso” del viaggio attraverso una propria “composizione” da esporre simbolicamente esorcizzandone l’estremizzazione del suo compimento: un giornale, un paio di scarpe ed una torta fresca formano una “natura morta” da lasciarsi dietro le spalle, percependo il marmo delle scale di casa sotto i piedi.

E parafrasando il senso del mio viaggio attraverso questa lettura, potrei concludere che “forse Enzo ha ragione, … ognuno di noi filtra la realtà e gli avvenimenti attraverso quella cosa che chiamiamo “sensibilità” e che può manifestarsi, così come avviene in pittura, attraverso qualsiasi parte del corpo: “Crosby attraverso il suo suicidio mi aveva mandato un messaggio figurato: i piedi nudi”.

natàliacastaldi 

 

41 risposte a “La torta e il piede grosso – da “Picasso’s frame” di Enzo Campi (post di natàlia castaldi)”

  1. Ma che meraviglia,che meraviglia!!! Proprio il genere di racconti che più amo. Accidenti che bel sabato sera alle 23.15…..; ) Grazie davvero e complimenti all’autore e a Natalia. Un saluto caro
    Federica

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  2. Avevo già letto questo racconto, Enzo, non ricordo dove. Bello, ben costruito. Mi porta a pensare a Edgar Allan Poe, (del quale ero fan nel lontano tempo della mia post adolescenza) per tempi e sorpresa finale, per quel che c’è di sospeso tra l’horror e l’onirico. Per l’inevitabilità della sorte…che ac-cade.
    Riporto come sopra il commento lasciato su facebook, anche per avere l’occasione di esprimere i complimenti all’autore e aggiungerne per Natalia per il commento e gli approfondimenti letterario-sensoriali.

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    • sì Loredana, questo racconto è già stato pubblicato su Nazione Indiana e su Filosofi per Caso.
      Come accennato da Natàlia, nella sua splendida e perspicace presentazione, è uno dei racconti di un libro in costruzione titolato “Picasso’s frame”.

      prima ancora di parlare di Picasso parliamo di frame.
      frame=fotogramma=istantanea.
      fissare un istante per poi concedersi il lusso di penetrarlo.
      qui si tratta di entrare dentro l’istante per guardare, sentire, toccare, annusare, gustare il contenuto. come se guardando una fotografia (o un quadro) si potesse immaginare la storia e gli accadimenti che hanno portato a quello scatto, a quel “fissaggio” di una porzione di tempo. non un’apologia della memoria, ma una sorta di disvelamento drammatizzato.
      perché Picasso?
      Picasso è l’io narrante.
      ho immaginato che Picasso, vicino alla morte, fosse ossessionato dall’urgenza di raccontare al mondo alcuni episodi della sua vita mai resi pubblici prima.
      naturalmente si tratta di un falso.
      ciò che qui viene raccontato non è realmente accaduto, ma è infarcito di riferimenti ad avvenimenti reali ed è “vissuto” con quelli che erano i suoi “veri” amici e conoscenti.
      in un certo senso la realtà, la fantasia e, soprattutto, la trasfigurazione di entrambe le peculiarità narrative formano un crogiuolo ove tutto ciò che accade (ma anche ciò che si “sospende”), per quanto puzzi di menzogna, si rende quantomeno verosimile.

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  3. In un momento storico in cui mai prima fu tanto evidente il superamento della realtà sulla fantasia, alla Letteratura non resta che reinventare la realtà, riscrivendola. Speriamo giunga presto la sconfitta del genere ‘fiction’.

    Luigi

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  4. Davvero ben scritto, una costruzione impeccabile. Affascinante la lettura di Natalia.
    Ancora complimenti

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  5. …lasciare sul giornale quella “natura morta” era un modo per esorcizzare il pericolo scampato (anche se nel sogno)e un modo per manifestare agli altri il messaggio ricevuto da Crosby, passaggio di testimone. E’ vero: “ognuno di noi filtra le cose e gli avvenimenti attraverso la propria sensibilità”: c’è chi cerca di mistificare la realtà, chi rappresentarla agli altri attraverso la poesia, la prosa, la pittura e altre forme d’arte.
    Bravo Enzo! Ciao

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    • grazie Emilia!
      la realtà artistica dei primi decenni del novecento era praticamente tutta concentrata a Parigi.
      e qui si cerca proprio di restituire il “sopra le righe” di quella “realtà”. per quanto paradossali, surreali o incinsueti possano sembrare questi avvenimenti, la chiave di svolta sta nell’innestare nel lettore la possibilità che fossero comunque cose all’ordine del giorno e che quindi nessuno ci vieti di pensare che possano essere realmente accaduti.
      certo, si può parlare anche di mistificazione, ma fatto sta che tutte le correnti, i generi, le sperimentazioni artistiche a cui oggi siamo oramai abituati devono molto alle avanguardie storiche di quel periodo.

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  6. da un pc di fortuna vi ringrazio tutti…
    ho la fortuna di assistere alla gestazione di questo libro che spero veda la sua luce presto, davvero un gran bel lavoro che – come ben sottolinea Luigi – riscrive la realtà senza cadere nella “fiction”, restituendo alla fantasia la sua valenza letteraria e – perché no!? – storica.

    spero di risolvere i miei problemi informatici entro oggi pomeriggio. intanto grazie a tutti.

    Enzo… aspetto gli altri capitoli :)

    nc

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  7. Davvero geniale “l’anamnesi del frame”,mi aggiungo ai complimenti per Natalia,a te dico soltanto “incantata”!

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  8. “Tutto è felice come in un dipinto” sostiene Maria Grazia Lenisa in una sua poesia. Nel tuo racconto infatti appare proprio la perfezione, una sorta di equilibrio dettato dall’esuberanza dell’immaginare un incontro virtuale, nel luogo onirico dove arte e quotidiano non devono coincidere per forza. E’ la dimensione splendida dell’eccesso che si autogoverna e scopre con stupore le proprie regole. Una logica che convince perchè inusuale, plastica nella sua pretesa di concretezza materiale (la torta, i piedi) eppure posta su un piano parallelo, metarealistico. Nessuna paura del macellaio che taglia, non può venirne alcun male! Quì gli eccessi solleticano, con infinita ironia, spingendo, con la godibilità delle allusioni, fino a reinventare un mondo, una dimensione spazio-temporale, il mercato, la locanda, nella quale tutto può essere senza dolore. Si Articola piuttosto con molta invenzione il tuo atto creativo, al contrario di ciò che accade nella vita con le sue magagne. Essa è troppe volte ordinata e qualunque, eppure capace di ferire assai di più degli intraprendenti e trasgressivi personaggi del racconto.

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    • grazie Marzia!

      troppo buona, soprattutto per quanto riguarda la perfezione e l’equilibrio.

      sto lavorando su questo libro da due anni e direi che per la fine dell’anno (forse anche prima) sarà pronto.

      è un libro complesso che richiede documentazione, cura e attenzione.

      l’intento è anche quello di rievocare l’atmosfera parigina dei primi trent’anni del novecento in una serie di avvenimenti che, per quanto immaginati, possano essere considerati plausibili.

      hai ragione: i personaggi non vogliono ferire nessuno, ma per quanto siano intraprendenti non credo che siano trasgressivi, non più di tanto almeno.

      la realtà di quei tempi era già, in sé, sovradeterminata. si viveva sopra le righe, sempre e comunque.
      in uno dei racconti Picasso scrive una lettera ad Apollinaire (in una sorta di omaggio per ricordare l’amico deceduto) e cita una frase di Gertrude Stein che è emblematica in tal senso : “Il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno, la terra quindi ha uno splendore che non hai mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo” .
      tutta l’arte, dal dopoguerra in poi, si è nutrita di quelle che oggi definiamo avanguardie storiche ed è cresciuta all’insegna di tutti quei “sopra le righe” che artisti di tutti il mondo (ma confluiti per affinità elettiva nella Parigi di quegli anni) hanno disseminato come “atti quotidiani”, come vita di tutti i giorni, come modo d’essere e come modalità di sopravvivenza.
      la distruzione cui accenna la Stein è in realtà una nuova costruzione volta ad esplorare, a creare un qualcosa che possa donare un valore aggiunto alla vita di tutti i giorni.
      e se ciò dovesse sconfinare in quello che definiamo surreale, allora ben venga la surrealtà.

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  9. Ho letto questo racconto dall’inizio alla fine senza fermarmi, affascinata dal contenuto e impaziente di sapere come la storia si sarebbe conclusa… Ed alla fine della lettura posso dire che mi è piaciuto molto, sei prorio bravo Enzo, mai banale o noioso. Complimenti a te e a Natalia Castaldi per l’eccellente recensione.

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  10. Che bella!
    Chiarissime le spiegazioni di Natalia sul significato “vero e profondo” delle parole.
    Grazie, un abbraccio!

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  11. riporto qui, come ulteriore contributo, un commento che ho lasciato su facebook in riferimento alla meta-letteratura.

    Natàlia Castaldi, nella presentazione, parla di sopra-realtà letteraria. Ebbene: uno degli intenti di questo libro (di “Picasso’s frame”) è proprio quello di creare una letteratura che possa richiamare, evocare e soprattutto RIALLOCARE altra letteratura.
    Così per esempio, in uno dei racconti, troviamo Picasso e Olga a Roma (durante la realizzazione del balletto “Parade” di Diaghilev) in un locale “futurista” : “La Venere e il cane” , dove tutto quello che accade (a partire dal manifesto che svetta all’entrata con testi di Marinetti impaginati secondo lo stile dei calligrammi di Apollinaire) è riconducibile alle atmosfere di “Tra Venere e cane”, uno dei capitoli della “Messalina” di Alfred Jarry.
    In un altro racconto Picasso e Pound , rievocando tra gli altri Eliot e Yeats, sonO impegnati a decodificare un’iscrizione su una vecchia lamina che riporta alcuni passi poetici di William Blake.
    Ne “La torta e il piede grosso”, per esempio, quei quattro nomi (soprannomi) solo accennati (Mignon, Divina, Mimosa e Castagnette) rimandano alle atmosfere fumose delle banlieu parigine decantate da Genet (nella fattispecie il riferimento è a “Nostra Signora dei Fiori”).
    E via dicendo.
    Picasso, oltre ad avere scritto egli stesso una quantità considerevole di testi (poesie, scrittura automatica, pezzi teatrali, lettere), amava circondarsi di scrittori (da Casagemas a Apollinaire, da Jacob a Cocteau, ecc).
    E l’impostazione in termini meta-letterari è nata quasi istintivamente fin dalle prime battute proprio come naturale prosecuzione a quello che era l’interesse primario della vita di Picasso: la pittura.

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  12. Ottima l’atmosfera e la “resa” sensoriale, olfattiva visiva… in questo racconto onirico, surreale. Avvincente davvero. Ottimo anche il “click” allargato di Natalia. Un piacere leggervi.

    Un carissimo saluto a entrambi.
    Doris

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  13. e soprattutto grazie a Natàlia che ha inteso riproporre questo racconto con la sua pregnante lettura.

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  14. Coinvolgente ed affascinante… ho apprezzato davvero molto! Auguro anch’io buon lavoro ad Enzo :-)

    E complimenti a Natàlia, che ha un dono particolare: sa “leggere”, sa entrare nel testo…

    grazie davvero!
    stefania

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