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Un tempo senza un fine, senza una fine: La tregua di Mario Benedetti

Di Mauro Massari

 

È la teoria del piano inclinato: se metti una pallina su un piano inclinato quella inizia a scendere e, per quanto impercettibile possa essere l’inclinazione, inizia a correre sempre più veloce. Il laboratorio che ospita questo esperimento di fisica è una Montevideo attraversata dal ritmo cadenzato delle stagioni e lo scienziato si chiama Mario Benedetti, la più autorevole delle voci uruguaiane. A Martín Santomé “signore maturo, posato, quarantanove anni, ottimo stipendio” mancano solo sei mesi e ventotto giorni alla pensione, cullato dalla noia di una vita da impiegato, tre figli ormai adulti e una moglie morta troppo presto, annota sul suo diario il lento trascorrere delle sue giornate. Fa i conti con un vuoto quotidiano schiacciante, feroce, che impregna le pareti della stanza, assuefatto, devoto all’abitudine e quando (raramente) riesce a spostare lo sguardo sul futuro prossimo vede solo un angosciante, inevitabile, niente.

 

 

«Se mai un giorno mi suiciderò, sarà di domenica. È il giorno più scoraggiante, il più insulso. Vorrei starmene a letto fino a tardi, almeno le nove o le dieci, ma alle sei e mezza mi sveglio spontaneamente e non riesco più a chiudere occhio. A volte mi domando che cosa farò quando tutta la mia vita sarà una domenica. Chissà, magari mi abituerò a svegliarmi alle dieci». Allergico a qualsivoglia variazione sul tema della sua vita stantia, Martín è un uomo stanco che consuma pasti solitari, circondato da amici che non stima poi tanto, senza troppa certezza dell’esistenza di un Dio dalla sua parte, incarna perfettamente il povero diavolo che sceglie ogni giorno un “gratta e vinci” perdente, sfregandolo poi avidamente con una moneta all’angolo di una strada illuminata dalla luce fredda di un neon. Non c’è lotta interiore nel signor Santomé, non c’è niente che smuova l’animo assonnato, niente che cerchi di evadere, nessuna trama di lana bianca e nera che si intrecci a qualcosa di vivo, di urgente, come ragni chiusi in un boccale. Almeno fino all’arrivo in ufficio della nuova impiegata, Laura Avellaneda «dalla fronte ampia e la bocca grande, due caratteristiche che di solito mi impressionano favorevolmente». Dapprima solo l’immagine di un’impiegata senza troppa voglia di lavorare, lentamente poi, con lo scorrere delle pagine di questo diario (a tratti claustrofobico), un’idea, una semplice idea, resistente, altamente contagiosa, che mette radici, che si avvinghia, incontrollata “C’è in Avellaneda qualcosa che mi attrae. È evidente: ma cosa?”. La pallina adesso è sul piano inclinato e inizia la sua corsa: i dubbi, i tentennamenti legati alla giovane età di lei, le incertezze di un cuore rimasto arido per troppo tempo di lui, un gioco tra gatto e topo prende forma tra tentativi maldestri e inevitabili fallimenti. «Le ho anche sentito dire che di domenica va al mercato. Dovevo assolutamente parlarle, e così sono andato al mercato. Due o tre volte mi è parso di riconoscerla. D’un tratto, in mezzo alla folla, tra tante altre teste, scorgevo un pezzo di collo, una capigliatura, una spalla che sembravano i suoi, ma subito dopo la figura si completava, e persino il particolare del collo si integrava nel resto e perdeva ogni somiglianza con lei. A volte una donna, vista di spalle, aveva il suo stesso passo, i suoi fianchi, la sua nuca. Ma se all’improvviso si voltava, l’analogia si rivelava assurda. L’unica caratteristica che non inganna (presa da sola, voglio dire) è lo sguardo. Da nessuna parte ho incrociato i suoi occhi. E tuttavia (adesso me ne rendo conto) non so come siano, che colore abbiano. Sono rincasato stanco, stordito, irritato, deluso. Ma c’è un’altra parola più esatta: sono rincasato solitario». Pagine che provocano sentimenti contrastanti, gli oltre vent’anni di differenza, il capo che si infatua della sottoposta rimandano – anche inconsapevolmente – a sgradevoli giochi di potere che tutt’ora si consumano su qualunque posto di lavoro contemporaneo, eppure la domanda rimane, sussurrata, come una provocazione: “Al suo posto, alla sua età, saprei essere migliore di lui?”.

Romanzata o meno, e non senza romanticizzazione, inizia la sospensione dalla quotidianità di Martín Santomé, che in Avellaneda ritrova la giovinezza (cliché?), ritrova quel calore che una donna nel pieno della vita restituisce, progetti, a piccoli passi, torna a sbirciare l’idea appannata di un futuro. “Mi ha portato delle fotografie della sua infanzia, della sua famiglia, del suo mondo. Non è forse una prova d’amore?”. Una nuova casa, la pensione che si avvicina, Martín è come fermo sull’orlo, in pace, guardando l’acqua immobile oltre i canneti, oltre le insicurezze che si fanno tiepide, sempre meno invadenti sul suo domani, sulla donna che adesso ama. Fino alla frattura che spacca il ritmo. “Ha fatto pochi passi, si è voltata e mi ha indirizzato un allegro saluto con la mano. In fin dei conti, nulla di tutto questo ha poi molta importanza, ma nel gesto c’era familiarità, c’era semplicità. E io mi sono sentito a mio agio, ho avuto la certezza che tra me e lei esiste una comunicazione, ancora insicura, forse, ma davvero autentica”. Un tempo senza un fine, senza una fine. Una parola non proseguibile, l’ultima cena, l’ultima volta, l’ultimo minuto della partita. Ogni variante di ciò che è finale si addensa nel loro ultimo incontro. Come un rumore di treno che gli gioca uno scherzo disperato.
La casa editrice nottetempo, nella traduzione di Francesco Saba Sardi, ci restituisce questo grande classico della letteratura sudamericana. Bob Dylan, con i suoi occhiali scuri, sornione nel suo mezzo sorriso iconico e la voce nasale che ha segnato un’epoca, l’avrebbe cantata come a Simple Twist of Fate, per Mario Benedetti, al profumo di mate, è semplicemente La tregua.

 


In copertina: Infinity mirror, by Mendez art


 

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