, ,

L’uomo fatto di letteratura: Kafka. Un mondo di verità, intervista a Giorgio Fontana (a cura di Annachiara Atzei)

“In un mondo di menzogna, la menzogna
non viene bandita dal mondo nemmeno attraverso il suo contrario,
bensì attraverso un mondo di verità”.
Kafka, Quaderni in ottavo

 

Notturno, splendidamente ingannevole, capace di raccontare cose inaudite senza effetti speciali ma solo con gli strumenti di un abile e raffinato narratore, Franz Kafka ha fatto della scrittura dato esistenziale e fonte di felicità, navigando le acque del paradosso e della contraddizione. Ogni soluzione narrativa, in lui, rivela il mondo sotto due logiche contrapposte, una manifesta e una segreta, fino a stringere un patto col lettore: quello di essere disposto a credere. Consapevole del fatto che un approccio completamente privo di influenze dalla numerosa critica fiorita intorno ai suoi scritti sia impossibile, nell’ultimo saggio, intitolato Kafka. Un mondo di verità (Sellerio), Giorgio Fontana – al quale abbiamo rivolto alcune domande – si chiede perché la scrittura dell’autore praghese si avvicini così tanto al limite tra ciò che è vero e ciò che non lo è e prova a ragionare da scrittore addentrandosi nel suo enigma con amore e cura. Come si può penetrare la verità di Kafka, allora? Diventando nuovamente bambini, cimentandosi nell’ingrandire il regno del quasi come luogo – prima di tutto immaginario – dell’avverarsi inaspettato, ma pur sempre possibile, del miracolo.

 

 


Kafka è un autore notturno, che appartiene al buio, ma la sua prosa è paradossalmente chiara. Come fa?

Kafka è un classicista nell’animo: i suoi eroi sono Goethe, Flaubert, Kleist, Grillparzer. Ama Dostoevskij ma la sua prosa è molto meno convulsa e febbrile; più in generale la sostanza notturna che gli appartiene non si rivela affatto attraverso la lingua, anzi. La pagina di Kafka è splendidamente ingannevole proprio perché è così tersa, trasparente, precisa: e qui assistiamo a uno dei suoi numerosi paradossi, ovvero la capacità di raccontare cose inaudite o terribili attraverso uno stile privo di ‘effetti speciali’. Il che non significa che Kafka scriva in modo piatto, ovviamente: a un’analisi attenta la sua chiarezza rivela molte straordinarie finezze tecniche – la cura nell’aggettivazione, l’energia sintattica, l’abilità somma nelle descrizioni e così via.

Essere scrittore, per Kafka, è un vincolo imprescindibile, una condanna che reca gioie immense. Anche qui c’è un paradosso?

Sì, è una contraddizione alla quale Kafka restò inchiodato per tutta la vita. Nella lettera a Max Brod del 5 luglio 1922, un testo disperato e fondamentale, confessa che “lo scrivere è un dolce, meraviglioso compenso […] per un servizio del diavolo”. E aggiunge: “Questo scendere verso le potenze oscure, questo scatenamento di spiriti legati per natura, gli abbracci ambigui e tutto ciò che ancora può verificarsi laggiù, di cui qui sopra non si sa più nulla quando si scrivono storie alla luce del sole”. Ciò detto: sulla pratica della scrittura come tortura autoinflitta in Kafka si è detto molto, fin troppo: dimenticando che tale vincolo era certo vissuto come un dato esistenziale – in una lettera a Felice Bauer si definì “fatto di letteratura”; – ma era anche fonte di felicità. In ogni caso la sua pulsione verso la pagina non va intesa come un qualunque processo terapeutico, un modo per risolvere i propri conflitti interiori: per quanto possiamo trovare cascami biografici nella sua opera, e per quanto i Diari siano una profondissima radiografia dell’io di un autore, l’etica della scrittura per Kafka ha a che fare con ben altro. Ha a che fare davvero con le cose ultime, non con sé stesso. Una lezione di umiltà che trovo particolarmente necessaria oggi.

 

Come è possibile approcciarsi alle pagine di Kafka senza essere influenzati dalla numerosissima critica fiorita intorno a esse?

Penso sia quasi impossibile. Chiunque ha sentito parlare di Kafka, chiunque ha usato l’aggettivo kafkiano, e la maggior parte di chi non l’ha mai letto o ha anche solo sfogliato la Metamorfosi ha già idee preconcette su questo scrittore, magari in forma di parole chiave: “angoscia”, “burocrazia”, “padre/figlio”; eccetera. D’altro canto, non bisogna nemmeno mitizzare l’idea di un’esperienza di lettura vergine, per così dire, come se il testo di Kafka si rivelasse da solo a chi non ha strumenti critici. Al contrario: come ho già detto, l’arte di Kafka è semplice solo in apparenza, e rivela strati su strati di complessità – e bellezza – a ogni nuova rilettura. Occorre dunque disporsi a una sorta di “seconda ingenuità”: fare tesoro dei molti ottimi studi su di lui senza perdere la pura gioia della lettura, il gusto della sorpresa e della meraviglia; e soprattutto evitando di eleggere una singola interpretazione come l’unica corretta. Il testo di Kafka rispedisce al mittente con una risata questi tentativi di impadronirsene: dovremmo innanzitutto rispettarlo e non prenderlo, per dirla con Adorno, come un “ufficio informazioni sulla situazione dell’uomo”.

L’opera di Kafka mette in discussione causa ed effetto del romanzo classico. In che senso questa è una ‘questione narrativa’?

Diciamo che nelle prose di Kafka il rapporto fra causa ed effetto è più lasco rispetto alla tradizione romanzesca cui siamo abituati. Nel saggio porto come esempio il terzo capitolo del Disperso: dopo mezzanotte – non a caso l’ora delle fiabe! – il “cattivo” della prima parte del romanzo, Green, consegna a Karl una lettera dello zio attraverso la quale il protagonista viene allontanato per sempre. Il problema è che non c’è una ragione precisa per una punizione tanto sproporzionata, né per l’odio di Green verso Karl – un ragazzo che in fondo nemmeno conosce. Grazie a questo allentamento del nesso tra ragioni e conseguenze (o appunto tra cause ed effetti) Kafka si permette di mettere in campo soluzioni narrative che in altri mondi letterari risulterebbero assurde o incoerenti; e che invece nel suo cosmo suonano stranianti ma credibili.

Cosa significa che, per immergerci nella scrittura di Kafka, dobbiamo essere disposti a credere?

Kafka chiede molto al lettore: che si accetti la possibilità di mutarsi in insetto in un appartamento piccolo borghese dei primi del Novecento; che una scimmia possa apprendere a parlare e addirittura fornisca una relazione per un’accademia; che i topi ragionino sul canto; che un figlio obbedisca alla condanna di morte pronunciata d’improvviso dal padre; che, insomma, il mondo sia la risultante di due logiche contrapposte – una manifesta e una segreta. Una volta accettato questo presupposto, tuttavia, Kafka ci apre uno scrigno di bellezze senza paragone alcuno e di enigmi che hanno la forza di antichi scritti religiosi.

 


 

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.