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Definire ‘bambino’ (e la guerra) in ‘Deaths and Entrances’ di Dylan Thomas

Di Andrea Carloni

 

Chi o cosa è un bambino e come l’essere bambini resista alla definizione o, proprio per questo, la renda necessaria. 

Ogni tentativo di circoscrivere il bambino si consuma nel paradosso: il bambino è già altro da sé, perché è promessa di un adulto che non esiste ancora, ma anche resto di un’origine che non può più essere raggiunta. È figura liminare, tempo allo stato puro, vita inconsapevole, che non sa ancora di essere vita e che la morte lo riguarda. Dunque definire il bambino significa toccare il limite stesso del linguaggio: ogni parola eccede, tradisce, cade. Forse il bambino non è che la ferita di ogni linguaggio, la soglia in cui la parola si scopre impotente davanti all’evidenza. Non si può che abbracciare il paradosso del vizio circolare nel definirlo interpellando il linguaggio che è la forma con cui l’adulto trasmette al bambino ogni definizione stessa. In particolare, il bambino vittima – corpo spezzato, voce interrotta – si fa epifania del non-dicibile: un reale che resiste a ogni concetto, un “altro” che nessuna filosofia potrà mai incorporare. Il bambino vittima lo è sempre, guerra o non guerra. Tentando una prima evidenza, più che definizione, potremmo azzardare che il bambino è colui che nasce senza aver mai autorizzato la sua stessa esistenza: soltanto esistere lo fa parte debole e offesa per definizione. Il bambino è vita prima di ogni possibile consenso. E laddove la circostanza in cui il suo nascere e crescere sono quelle della guerra che insiste su di lui, sono la violenza, il dolo, la coercizione (dunque non tanto il bambino) che, rivelando il loro volto più osceno, perché colpiscono non l’avversario ma la promessa stessa di futuro, dovrebbero essere oggetto di definizione. Definire guerra, definire bambino: soprattutto, definirli, assurdamente, insieme. Un bambino ucciso non è una vita che si conclude, ma un inizio che non si avvia, una porta che non si apre. Quella morte non appare come compimento, bensì come amputazione dell’inizio.
Mai come ora, che ci si interroga sulle vittime e sui bambini, è necessario scartare il rifugio nel solo confine concettuale, nel lessico della biologia o della politica, affrontando piuttosto il linguaggio che accetta di fallire, che sa oscillare tra canto e silenzio. È questo il gesto che Dylan Thomas compie in Deaths and Entrances: non ci consegna definizioni, ma figure; non formule, ma immagini; non concetti, ma visioni che dicono cos’è un bambino proprio in seno a quella circostanza che, per eccellenza, confonderebbe (e confonde) ogni possibile definizione: la guerra.

 

 

Deaths and Entrances di Dylan Thomas nella nuova traduzione italiana curata da Andrea Carloni (Eretica)

 

Bambino come preghiera e vittima

La raccolta di Dylan Thomas si apre con un doppio movimento che oppone e intreccia l’adulto e il bambino: The Conversation of Prayers. Non a caso, la prima figura infantile che appare nella raccolta non è memoria, né spettro, né destinatario diretto, ma voce di preghiera:

And the child not caring to whom he climbs his prayer / Shall drown in a grief as deep as his true grave 

[E il bambino incurante verso chi si levi la sua preghiera / Annegherà in un dolore profondo quanto il suo vero sepolcro]

Il bambino qui non è semplicemente colui che chiede protezione: è già la forma pura della preghiera, l’atto che si fa parola prima della parola, respiro condensato in goccia. In lui la lingua non è ancora retorica ma esigenza immediata. L’adulto, invece, prega con il carico del senso e della colpa. 

The sound about to be said in the two prayers / For the sleep in a safe land and the love who dies / Will be the same grief flying. Whom shall they calm? / Shall the child sleep unharmed or the man be crying? 

[Il suono che sarà presto detto nelle due preghiere / Per il sonno in terra sicura e per l’amore che muore / Sarà lo stesso volo di dolore. Chi di loro calmeranno? / Dormirà incolume il bambino o piangerà l’uomo?]

La definizione di bambino emerge allora per contrasto: essere bambino significa pregare senza saper pregare, dire senza possedere il linguaggio, articolare un bisogno che è insieme biologico e metafisico. Se questa prima poesia lo pone come soglia, la seconda grande figura infantile — A Refusal to Mourn the Death, by Fire, of a Child in London — lo getta nel cuore del trauma storico. La bambina arsa dai bombardamenti è per Thomas irriducibile a simbolo politico od oggetto di retorica.

Never (…) shall I let pray the shadow of a sound / Or sow my salt seed / In the least valley of sackcloth to mourn / The majesty and burning of the child’s death.

[Mai (…) lascerò pregare l’ombra di un suono / Oh spargere il mio seme di sale / Nella minuta valle di un saio per piangere / La maestà e l’ardere della morte della bambina.]

Si ricordi che Deaths and Entrances fu pubblicato nel 1946, quindi dopo la seconda guerra mondiale, e alcuni dei suoi componimenti più famosi e drammatici furono esplicitamente ispirati alle conseguenze dei bombardamenti e incendi in Inghilterra dei primi anni ‘40, che videro danneggiata anche la cattedrale di St Paul a Londra. In questi particolari versi il bambino non è definito da ciò che è, ma da ciò che non può essere: oggetto di lamento rituale, strumento di retorica. La bambina di Londra è “maestà e incendio”: due termini che annullano la distanza tra l’umano e il cosmico. Se nel primo testo il bambino era preghiera originaria, qui il bambino è silenzio imposto: non si può piangere oltre, non si può trasformare in emblema. È l’inizio e la fine insieme, la parola che eccede e che tace. La sua morte non è semplicemente una perdita individuale, ma l’epifania della fragilità assoluta. La frase finale, ormai celebre, “After the first death, there is no other [Dopo la prima morte, non ce n’è un’altra]”, è definizione in negativo: la bambina morta è l’assoluto, che non dovrebbe e non deve ammettere replica o misura. Prima limpida e inequivocabile definizione.

Bambino come assenza e promessa

Il tema si ripete in Ceremony After a Fire Raid, poesia liturgica, quasi un requiem in cui il bambino ucciso è di nuovo protagonista:

A child of a few hours / With its kneading mouth / Charred on the black breast of the grave / The mother dug, and its arms full of fires.

[Un bambino di poche ore / Con la sua bocca impastata / Carbonizzata sul nero petto della tomba / Che la madre scavò e le sue braccia colme di fiamme.]

La nudità e l’anonimato sottolineano ancora una volta la contraddizione: il bambino non ha bisogno di nome per essere assoluto, perché la sua condizione infantile è già definizione e destino. Essendo intenta a scavarne la tomba, la madre non può neppure tenerlo in braccio. Insieme alla terra, il raid ha rovesciato l’icona: una Madonna senza bambino, profanata, bruciata, strappata alla tradizione della natività per consegnarla a una parodia tragica. Il rito evocato dal titolo non è consolazione, ma cerimonia dell’assenza. Qui definire il bambino significa definire la mancanza, la ferita che resta aperta e si carbonizza: non può farsi cicatrice.
Ma non tutti i bambini della raccolta sono morti. In Fern Hill appare l’infanzia come mito edenico, dove “the children green and golden [i bambini verdi e dorati]” vivevano immersi nella grazia. Essere bambino significa allora essere principe senza regno, re senza corona: la sovranità assoluta di chi non sa ancora di essere finito. Ma il testo non si lascia chiudere nell’idillio: il bambino canta senza sapere che il tempo lo incatena già, e la fine del poema capovolge il mito nell’oscura consapevolezza che “Time held me green and dying [Il tempo mi manteneva verde e morente]”. Il bambino, dunque, è definito dal tempo e nell’opposizione tra la bambina arsa di Londra e il fanciullo edenico di Fern Hill emerge la doppia definizione di Thomas: il bambino come promessa spezzata e come promessa già corrotta dal tempo.

Bambino come verità e ricordo

In This Side of the Truth, Thomas si rivolge direttamente al figlio Llewelyn. Qui non c’è il ricordo né la vittima, ma il destinatario concreto:

This side of the truth, / You may not see, my son, / King of your blue eyes / In the blinding country of youth, / That all is undone

[Da questa parte della verità, / Forse non vedi, figlio mio, / Re dei tuoi occhi azzurri / Nel paese accecante della giovinezza, Che tutto è disfatto]

Il bambino è colui che percepisce la verità senza mediazioni, colui i cui occhi senza macchia non vedono ancora il compromesso del linguaggio adulto. Qui la definizione diventa etica: essere bambino significa essere misura di verità. Non come innocenza morale, quanto immunità al travestimento retorico. Il disfacimento adulto, camuffato da menzogna, macchia l’integrità del piccolo che attende il riscatto e lo mascheramento. Se nei testi precedenti l’infanzia era mito o trauma, qui diventa criterio e distinzione. È una ridefinizione sottile, che svincola l’infanzia dalla debolezza e la riconsegna alla forza epistemica: il bambino sa, anche quando non capisce.

In Poem in October, nel giorno del suo compleanno, Thomas rivede la propria infanzia:

I saw in the turning so clearly a child’s / Forgotten mornings when he walked with his mother /Through the parables /Of sun light /And the legends of the green chapels / And the twice told fields of infancy / That his tears burned my cheeks and his heart moved in mine. 

[Vedevo così nitidamente le mattine / Dimenticate di un bambino che camminava con sua madre / Attraverso le parabole / Della luce del sole / E le leggende dei verdi tabernacoli / E i campi dell’infanzia narrati due volte / Dove le sue lacrime bruciavano le mie guance e il suo cuore si struggeva nel mio.]

La figura infantile emerge come riflesso interiore, è memoria che ritorna, eco che accompagna l’adulto nel suo compleanno. Il fantasma bambino che attraversa il presente della coscienza dell’adulto e lo accompagna nel ricordo di non mancare, non perdersi, che l’adulto rievoca in sé stesso fra le molteplici stratificazioni dell’io. Definire il bambino significa allora ricordare se stessi.

Bambino come testimone di salvezza

Un’altra apparizione enigmatica si trova in There Was a Saviour:

There was a saviour (…) / Children kept from the sun / Assembled at his tongue / To hear the golden note turn in a groove

[C’era un salvatore (…) / Bambini allontanati dal sole / Si riunivano presso la sua lingua / Per ascoltare la nota dorata girare in un solco]

Qui il bambino non è l’innocente protetto, ma colui che viene trattenuto dal sole, avvolto in fasce come in una perenne natività che però non sboccia. L’immagine richiama l’iconografia del Messia bambino, però Thomas la rovescia: i bambini non sono qui destinatari di salvezza, bensì testimoni di una salvezza mancata, trattenuta, quasi abortita. Il salvatore stesso è fantasmatico, un anticristo che intercetta l’arrivo dei bambini e se ne fa circondare, ma non per condurli nel suo regno mancato, ma per trattenerli come eterni infanti in ascolto e attesa, prigionieri di una condizione che non si compie. La definizione di bambino diventa qui messianica: colui che attende un compimento che non giunge, colui che testimonia la sospensione della storia e della salvezza.

Bambino come nascita cosmica

Vision and Prayer spinge il discorso oltre ogni confine: qui il bambino diventa un evento cosmico, una nascita che eccede la storia e travolge il linguaggio stesso. Il poema si apre con un interrogativo che rompe ogni ontologia:

Who are you / Who is born / In the next room / So loud to my own / That I can hear the womb / Opening (… ) dark alone / Blessing on / The wild / Child.

[Chi / Sei tu / Che nasci / Nella stanza vicina / Così forte accanto alla mia / Che riesco a sentire il grembo / Aprirsi (…)  oscurità soltanto / Che benedice / Il selvaggio bimbo]

Il “nato nella stanza accanto”, così vicino da far vibrare i muri della coscienza, non è ancora individuo, ma rumore, forza che lacera i confini, che lacera il grembo come apertura del mondo stesso. La creatura selvaggia nasce come scossa metafisica primordiale; non è data alla luce ma al buio e da esso è battezzata. È una definizione estrema: l’infante come abisso inaugurale, forza che benedice attraverso il caos. Il testo procede in un crescendo liturgico, mescolando immagini di parto, fuoco, tempesta: colui che abbaglia il cielo (“dazzler of heaven”) viene partorito come un rogo nella bocca della madre che lo culla come una tempesta (“bore him with a bonfire in / His mouth and rocked him like a storm”). Qui l’infanzia diviene energia distruttiva, incendio che illumina e devasta. Il culmine arriva con l’esclamazione:

O the wings of the children!

[Oh ali dei bambini!]

Le ali sono la metafora ultima: non di leggerezza angelica, bensì segno di un’ascesa che si rivolge alla ferita. Il bambino cosmico nasce già nel segno della piaga, già sacrificato e offerto. La definizione non è più individuale, né sociale, né memoriale: è cosmologica. Il bambino è il principio che inaugura il tempo, la figura che porta con sé la luce e la piaga, il canto e la caduta. È il mito dell’inizio che non si compie nel suo cessare, perché ogni nascita è già iscritta nel destino di morte. Thomas ci consegna l’immagine più enigmatica e complessa di tutte: oltre ogni definizione, il  bambino si fa visione totale, preghiera che brucia, origine che implode nel proprio sacrificio. L’incastro di tante declinazioni non converge in un concetto unitario. Thomas costruisce piuttosto un mosaico: sottrae il bambino alle categorie e lo affida a un campo semantico mobile, una figura che attraversa la guerra e la pace, la vita e la morte, il personale e il cosmico. Ma soprattutto il bambino è colui che, messo davanti alla guerra, rivela l’assurdità stessa di ogni definizione, sopra la quale Thomas ci lascia forse un’eredità: continuare a cercare parole che falliscano, immagini che traballino, visioni che oscillino. Il bambino non è definito una volta per tutte: è dato ogni volta che la poesia tenta di dirlo e, nel tentare, lo lascia eccedere. La definizione di bambino – e, con essa, la definizione di guerra – non è mai neutra e conclusa, ma è un varco aperto. Chiede soltanto di essere rievocata e, conseguentemente, di generare un atto iniziatico: i bambini non possono dimenticarsi di noi se sapremo accoglierli prima di ogni guerra, oltre ogni definizione.

 


Andrea Carloni è autore del romanzo Lissy è stata qui e della silloge poetica Strepito da Camera. Come traduttore ha curato le Poesie di T.E. Hulme e diverse opere di James Joyce quali Musica da Camera, Po(e)mi da un Penny, Lettere a Nora e Lettere contro la censura.


In copertina: Candido Portinari, Ragazzi sull’altalena, 1960

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