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Il marmo non ha ciglia – La cattiva strada di Sébastien Japrisot 

Di Annachiara Mezzanini

 

Quando la lettura ha avuto inizio, subito, le parole si sono scontrate con le immagini che la mia mente già conosceva. Una in particolare è affiorata dalla nebbia dei pensieri, mescolandosi alla storia del romanzo.  Sia nella finzione sia dentro di me, lo sguardo ha preso il sopravvento, sottraendosi e moltiplicandosi con quello dei personaggi, unendosi poi a quello dell’artista. Il segno è inciampato sulle prime parole, tra gli scalini lustri dell’istituto, il primo giorno di scuola dopo la pausa estiva, e ha continuato a rotolare instabile lungo i capitoli, interrotto dall’immagine di quel dipinto che la voce del narratore stava evocando. Più mi addentravo nella lettura, maggiore era il grado di nitidezza del quadro che si sovrapponeva alla vicenda raccontata da Sébastien Japrisot ne La cattiva strada (Adelphi).

Lo scenario si apre sull’ordine inalterato di un’istituzione, un collegio religioso maschile parigino, e si sofferma su di un particolare che, racchiuso tra la descrizione materiale degli spazi, potrebbe scivolare inosservato. Il dettaglio è lo sguardo: distratto, assorto, curioso, malizioso.
È il punto di vista degli alunni, disinteressati ai cambiamenti, abituati alle regole da spezzare durante le ore di studio.
È il punto di vista dei sorveglianti, istruiti al controllo, impegnati a mantenere un rigore apparente, utile principalmente a loro stessi.
È il punto di vista di Denis, affamato di mondo, desideroso di essere, a sua volta, visto.
Sono gli occhi ciechi di un amore immaturo e non compreso, pericoloso e proibito.

 

 

Il piccolo cosmo della scuola appare, sotto le dita e gli occhi del protagonista, immutato e difficilmente penetrabile. Il suo nome è ancora segnato di rosso sul registro, il suo comportamento indisciplinato è il medesimo ogni anno, l’apatia e il rimprovero nella voce dei docenti smuovono sempre meno le orecchie anestetizzate della classe. Lo sfondo è tinto con i toni cupi di un ambiente indefinito, uguale a mille altri, stretto nella disciplina controllata dell’istruzione macchiata dalla religione, intaccata qua e là dall’alone opaco della ribellione adolescenziale. Un contorno di caffè, marrone chiaro, cerchia le giornate tutte uguali, segna il passaggio tra un prima e un dopo che, per il momento, sembra ancora non arrivare. In lontananza, però, una nota azzurra rischiara il cielo sopra Parigi, promettendo a Denis il tanto agognato cambiamento. 


Tra le righe affiora un volto


È quello del quattordicenne imberbe che non conosce altra forma d’amore se non una particolare miscela di violenza fisica e apparente distacco emotivo. Ma gli occhi curiosi di Denis si sovrappongono a quelli vuoti di un’altra figura, bellissima e distante, archetipo della meraviglia giovane e delicata. Sono i caratteri dell’Apollo del Belvedere, sono i suoi occhi a essere resi ciechi dal marmo che li plasma, ma allo stesso tempo sono le pupille di Denis a non vedere, accecate da un bagliore pericoloso e, proprio per questo, affascinante. Oltre una porta socchiusa, in un luogo altrettanto vacuo e simile a tanti altri come il collegio, suor Clotilde appare per la prima volta a Denis e al lettore in attesa. L’ingenuità quasi fastidiosa del suo personaggio si imbatte, così, nella fragilità della prima adolescenza di Denis, ammaliato dal dolce profilo della sorella e dalle sue lunghe ciglia dorate.
Il richiamo che entrambi avvertiranno divampa tra i viali invernali dell’ospedale cittadino, lungo le corse interminabili dei tram, dentro all’appartamento al numero 16 di Rue Woudoux. Tutto sembra terribilmente sbagliato, ma i due imparano ad amarsi in fretta, nel divenire costante delle stagioni cadenzate dal rombo della guerra in sottofondo. La Storia incombe oltre le finestre chiuse del rifugio bucolico dei due innamorati,  i quali si ritrovano immersi nella loro cecità a tal punto da trarre giovamento anche dalle bombe esplose sulle teste dei civili. L’amore, si dice, non ha occhi con cui guardare e, così, gli sguardi di Denis e di suor Clotilde si abbassano sui loro giovani corpi intrecciati, senza prestare attenzione alla scottatura che da essi sale, nel punto in cui gli sguardi altrui cominciano a insinuarsi e bruciare.
La bellezza ieratica della fanciullezza – rappresentata dalla statua del Belvedere, una testa mozzata che occupa buona parte della tela – è affiancata da una sfida ormai lasciata cadere, una battaglia perduta, un’unione rassegnata delle carni, lasciate appese agli attimi fugaci di contatto, come guanto scarlatto inchiodato al muro. La stabilità della realtà rimane a bordo pagina, un elemento di arredo della scena, pronto a rotolare da un momento all’altro, riprendendo il proprio moto perpetuo.
La città rimane immobile e irriconoscibile, svuotata dal conflitto bellico, chiusa oltre la porta sbarrata del sentimento irrazionale che lega i due personaggi. In lontananza, il vapore di una locomotiva preannuncia il loro futuro e la loro disperata e imminente separazione. Denis e Claudie, ovvero la ventiseienne bionda e minuta che si cela sotto il velo di suora, si lasceranno sulla banchina della stazione tra gli sguardi di disapprovazione della famiglia di lui  e della Chiesa, la famiglia di lei.
In quell’ultimo anno, quello che, in principio, era per il ragazzo un mero agglomerato di mesi sempre uguali tra loro, egli alla fine perde tutto: la propria famiglia, il primo acerbo amore, l’amico migliore, morto tra le schegge di un ordigno inesploso.
Ora, dove andrà a posarsi il suo sguardo distaccato? Su quali corpi? Su quali colori?

Finito il libro, rileggendo le prime parole come fossero le ultime, il quadro metafisico si è materializzato nel suo ultimo tocco. Come per la vicenda de La cattiva strada di Japrisot, così Canto d’amore di de Chirico ha compiuto il suo ciclo, divenendo opera compiuta. Gli oggetti giustapposti e i loro significati, gli oli sfumati dalle pennellate, gli occhi assenti del dio della poesia nella sua più nota espressione di bello ideale, il presagio ignoto delle stanze vuote e dei vapori distanti. Tutto si tinge di un’eco melodrammatica, sovrapponibile all’esperienza straziante degli ormai lontani quattordici anni di Denis. 


In copertina: Canto d’amore, Giorgio de Chirico

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