A cura di Annachiara Atzei
“La nostra storia inizia con una casa, diventa la storia di una casa, finisce ed è la storia di due case. Si trasforma, nel mentre, nella storia di quattro storie e nella storia di un viaggio; in entrambi i casi, però, non esistiamo più noi”
Eleonora Daniel, La polvere che respiri era una casa
La polvere che respiri era una casa, romanzo d’esordio di Eleonora Daniel per Bollati Boringhieri, è la storia di una relazione sentimentale narrata nel momento in cui si infrange e, al contempo, è la storia di un difficile tentativo di ricostruzione, prima di tutto personale, che si misura con il fallimento, le crepe, il lento allontanamento tra due persone che un tempo si sono amate. Racconta, anche, la vicenda di una casa, che da nido accogliente diventa luogo che respinge: metafora di rifugio, prima, poi di vuoto, disagio, separazione e incomunicabilità.
Con un’esposizione stratificata, che vede il sovrapporsi di mondi diversi e lontani tra loro, e in cui la voce narrante muta di continuo, l’autrice milanese descrive come il “noi” talvolta può dissolversi e lasciare spazio alle singole identità, pur con sofferenza, aprendosi al coraggio di chi prova a riconoscersi e ad accettarsi nonostante le opposte visioni e la mancanza di dialogo con l’altro che si trova accanto.

La polvere che respiri era una casa racconta senza falso romanticismo ma con delicatezza la storia di una ordinaria relazione tra un ragazzo e una ragazza. C’è un noi e poi ci sono due individui: chi sono Margherita e Riccardo?
Il romanzo nasce con un “noi” e il racconto inizia dalla coppia: per me la prima protagonista è sempre stata lei. I due personaggi, presi come singoli individui, rimangono paradossalmente poco delineati, per quanto in fase di stesura mi sia stato utile ragionare su come si sarebbero comportati rispetto ai temi che volevo trattare e alla stessa trama. Sulla pagina però sono molto più presenti come coppia e in quanto coppia hanno i loro elementi discordanti e dissonanti. Diventano, poi, singole identità – soprattutto Riccardo – e credo che ci sia un momento nella storia, così come nella loro relazione, in cui hanno due visioni opposte, e non solo perché sono due persone diverse che vedono cose diverse, ma soprattutto perché a Riccardo manca un pezzo. Lui è spinto dal tentativo di ricucire e costruire qualcosa, mentre lei percepisce solo il problema e non più la soluzione, né le interessa trovarla. Volevo raccontare il momento in cui ti rendi conto che parli una lingua diversa rispetto alla persona che hai davanti e non puoi abbattere il muro che talvolta si alza e che, credo, non c’è per forza una colpa nell’accettare il vuoto né nell’imporlo all’altro.
Nell’incipit scrivi: “La nostra storia inizia con una casa (…)”. Poi che succede?
Il romanzo è la storia di una relazione sentimentale o, meglio, del momento in cui quella relazione inizia a rompersi. I due protagonisti si sono amati, poi le cose sono finite. Per questo è anche un libro malinconico, nostalgico o addirittura triste, perché racconta la fine del legame, dicendo a posteriori – come in un ricordo – quello che pure di bello c’è stato tra i due. Ma è anche, come dici, la storia di una casa. Il racconto si apre, infatti, con la costruzione materiale dell’appartamento che poi accoglierà Riccardo e Margherita e farà loro da nido.
Lo definirei un romanzo sulle crepe, sulla rottura ma anche sulla costruzione, o almeno sui tentativi di costruzione, nonostante il fallimento.
Nello specifico, la casa da luogo accogliente diventa il luogo che respinge. Mi è molto caro questo tema: in generale, in tutto il romanzo c’è tanto di ciò che amo come lettrice, ma anche come spettatrice o ascoltatrice. Credo che negli esordi spesso si voglia dire qualcosa di sé, è il primo modo che esiste di presentarsi al lettore, e trovo che in questo ci sia forse una dose di ingenuità ma anche di dolcezza a cui non mi sono sottratta (non con tutta questa consapevolezza!). Le case sono rifugio, nido familiare, insieme intoccabile di mobili, luogo dell’ordine o del disordine, luogo di esposizione di sé agli ospiti. Oppure anche luogo del crollo, dei fantasmi, tanto nei romanzi gotici quanto nelle nostre vite quotidiane: ricordiamo chi ha ingombrato determinati spazi e in che maniera anche quando non c’è più.

Quanto sono complesse le relazioni moderne? Quanto sono difficili le decisioni che dobbiamo affrontare e quanto conta il progetto individuale nella vita di una coppia?
Vorrei avere una risposta a questa domanda: il confine tra me e l’altro, sempre che di confine si possa parlare, è un mistero, e io non ho risposte. Nel mio romanzo, anche attraverso la scelta di raccontare al plurale, attraverso il “noi”, c’è il tentativo di vedere la coppia come entità esterna, superiore: la coppia ingloba l’individuo e se ne nutre e, ciononostante, rimane composta da due persone. Credo che esista un momento in cui amarsi significa scegliersi continuamente e trovare l’equilibrio tra l’individuo e il noi, e credo anche che i miei protagonisti semplicemente smettano di amarsi e non accettino più il compromesso, perché, soprattutto per Margherita, il tempo del compromesso è finito.
Parlando della complessità delle relazioni moderne, per quanto ogni singola relazione sia diversa, sentiamo spesso parlare della tendenza a mettere l’individuo al primo posto. Non credo che sia per forza negativo: scegliere sé stessi rispetto all’altro è anche una spinta ad accettarsi e ad accogliersi al di là di chi hai accanto; allo stesso tempo, non siamo più disposti ad accettare certi gravi squilibri di coppia come succedeva in passato.
Tu scrivi che il dolore di ciascuno non combacia mai con quello dell’altro, così come pure la felicità e la gioia. Questo cosa comporta e soprattutto come incide sulla vita dei protagonisti?
L’allontanamento tra Riccardo e Margherita non è dovuto tanto all’inevitabile fatto che sono, appunto, persone diverse, che non possono davvero provare esattamente la stessa cosa: potrebbero condividerla. Quello che manca tra loro è proprio la condivisione. Non c’è colpa nel riconoscere dolori diversi e vivere dolori diversi, ma può mancare la comunicazione, il tentativo di parlarsi.
Nel libro, la narrazione passa liberamente dalla terza persona al noi e l’intreccio – oltre il filo della storia principale – comprende altre storie, altri racconti, quasi in un mescolarsi di vicende che allontanano e riavvicinano il lettore al cuore dei personaggi. Come hai lavorato alla stesura e qual era l’intento?
Volevo introdurre dei racconti dentro il romanzo perché amo le storie metanarrative, le mise en abyme e altri artifici letterari, in cui i mondi si sovrappongono. D’altra parte, ero terrorizzata dall’idea di scrivere un romanzo e gestire la forma lunga, ragionare su una trama che ha tempi e spazi diversi da quelli del racconto. La polvere che respiri era una casa non ha una trama complessa: la stratificazione, la complessità, è data, se vogliamo, dai diversi aspetti formali più che contenutistici.
In questo rientra anche la scelta del narratore al noi, che continuamente si apre alla terza persona, anche se parlarne come di una scelta mi fa sempre sorridere: per me è stata un’intuizione spontanea che ha accompagnato il primo germe del romanzo. Volevo raccontare un noi senza un io o un tu, perché si tratta del punto di vista di una coppia che include i due singoli come dall’alto, come dicevamo prima, e che dall’alto continuamente li osserva e racconta. Forse è una forzatura grammaticale, ma spero funzioni agli occhi del lettore.
C’è, nel libro, la coincidenza di vita vissuta e letteratura – come se l’una andasse ripetutamente a finire nell’altra – perché i due protagonisti decidono di scrivere dei racconti in attesa del figlio che tanto desiderano, apparentemente come modo per insegnargli qualcosa della vita e del mondo. È così? Ci sono degli autori padrini di questo libro? E che ruolo ha la letteratura nella tua vita?
Ho scelto di fare dei libri il mio lavoro, anche se lavorare così tanto con le storie e con i libri sa essere sfiancante per la creatività personale. Non so come funzioni la spinta scrittoria dopo l’esordio, se sia giusto dedicarsi subito a un nuovo progetto o se sia meglio aspettare: credo sempre che le cose abbiano il loro tempo e che quel tempo sia quello giusto. Per ora, aspetto. Credo anche che esista un modo di vedere le cose che ti consente di esercitare la scrittura anche non scrivendo: guardarsi intorno pensando che un dettaglio possa dare il via a una storia, appuntarlo, ripensarci. Per ora è quanto basta.
Quando ho scritto La polvere che respiri era una casa, non pensavo a una funzione catartica della letteratura, ma di sicuro volevo parlare anche di creatività e generatività. Margherita e Riccardo decidono di scrivere dei racconti per accogliere il figlio che vorrebbero. Io credo che ci sia una spinta generosa e affettuosa nel raccontare le storie alle persone che amiamo. È una componente molto umana e dolce dei due protagonisti.
Per Riccardo, poi, scrivere inizierà a coincidere pian piano con la consapevolezza che anche lui ha una storia personale e diventa, quindi, un’ossessione, un tentativo di rivincita, qualcosa che suoni come: “Anche io ho una voce e ora grido, anche io ho una storia e ora la racconto”.
Non saprei indicare degli specifici modelli letterari di questo libro, ma ci sono, in generale, nella mia vita di lettrice: penso a Oltre il confine, di Cormac McCarthy, ma anche a Mari, Savinio, Frost, Rosselli, O’Connor, Kristof…
A proposito di Frost, mi viene in mente una sua poesia che amo molto, Home Burial, e che racconta di una donna che guarda fuori dalla finestra la lapide del suo bambino, sepolto dal marito nel giardino di casa. Frost racconta la loro incomunicabilità ormai inarginabile anche attraverso gli spazi che occupano in casa, e mi sono resa conto solo a posteriori che, se vogliamo, c’è molto in comune con La polvere che respiri era una casa. Forse essermene resa conto a posteriori significa che tutto quello che leggiamo è un seme? Forse sì.
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Eleonora Daniel è nata a Milano nel 1995; vive a Roma, dove si è specializzata in editoria. Alcuni suoi racconti e articoli sono apparsi su «Doppiozero», «Lucy», «Altri Animali», «retabloid» e «Cattedrale». È caporedattrice e editor di Accento edizioni.
In copertina: artwork by Hale Asaf


Una replica a “La polvere che respiri era una casa – Intervista a Eleonora Daniel”
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