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Il professor Nabokov sale in cattedra e smonta Cervantes solo per salvarlo

 

Nel 1952, invitato a tenere ad Harvard la seconda parte di un corso di storia della letteratura, Nabokov si trova costretto a partire proprio dal Don Chisciotte. Professore ormai rodato, ma sempre insofferente alle convenzioni accademiche, coglie subito l’occasione per sovvertire le attese. Con un gesto quasi provocatorio, liquida rapidamente – e con una punta di sarcasmo – quelle coordinate storiche, letterarie e geografiche che ogni docente “serio” considererebbe imprescindibili.
Ma per Nabokov la serietà sta altrove: nell’arte, non nella cronologia. Con lo zelo quasi maniacale del filologo e la puntigliosità del detective, Nabokov si dedica a schedare meticolosamente i quaranta episodi in cui Don Chisciotte agisce da cavaliere errante, arrivando a computare con cura maniacale vittorie e sconfitte. Ma è davvero lì che si annida il cuore del romanzo?

 

 

Di Mauro Massari

 

 

Per anni ho pensato che Don Chisciotte fosse una mezza truffa. Un libro troppo lungo, troppo citato, troppo usato per sembrare davvero vivo. Quando ero adolescente, mi fu regalata un’edizione illustrata con Sancio in veste di porco e l’hidalgo ridotto a una caricatura. Non ridevo, mi annoiavo e basta.

Poi ho letto Lezioni sul «Don Chisciotte» di Vladimir Nabokov, e ho capito che anche lui, in fondo, sospettava qualcosa di simile.

Queste lezioni, tenute ad Harvard negli anni Cinquanta e ora pubblicate da Adelphi, sono il racconto di una conversione imperfetta. Nabokov non ama davvero Cervantes. Ma lo studia con il rigore cieco la furia di un uomo costretto a mettere da parte i propri pregiudizi.
Ne nasce un confronto violento, brillante, talvolta comico, in cui il professore russo si trasforma in cavaliere, brandendo la penna come una lancia.

Nabokov odia la lettura morale del romanzo. Diffida di chi vede in Don Chisciotte un eroe dolente, un precursore dei santi. E ancora di più detesta chi lo considera un libro umano.
Al centro della sua analisi, c’è una parola: crudeltà. «Mi limiterò a illuminare solo un angolo della sala delle torture con una piccola torcia» scrive Nabokov, iniziando il catalogo degli scherzi, dei pestaggi, degli inganni orchestrati contro il suo protagonista. È un’enciclopedia della sofferenza: non solo fisica ma mentale. Nella seconda parte del libro, la violenza si fa sottile, sadica.
I duchi – e con loro Cervantes stesso – trasformano il cavaliere in un giocattolo da manipolare: «mistificazione e incantamento diventano strumenti di dominazione», spiega Nabokov, mostrando come anche lo scudiero Sancio partecipi al grande inganno.

 


A chi accusa il professore di non cogliere l’umorismo del libro, lui risponde con disprezzo:
«il Chisciotte di certo non fa ridere. Lo scudiero, malgrado il prodigioso repertorio di vecchie massime, fa ancora meno ridere del suo padrone». 


 

Nabokov rintraccia in Cervantes un autore esausto, incoerente, incapace di costruire. La struttura è zoppa, disseminata di «episodi da solfa», come quello di Rocco Guinart o del moro Ricote. Ma ciò che tiene insieme il libro è il suo fantasma centrale: Don Chisciotte, una figura che proietta un’ombra lunga sui posteri, da Dickens a Tolstoj, fino a Flaubert.
«Flaubert fu un autentico Don Chisciotte, con l’onestà di un’arte inflessibile» scrive il russo, che anche nello stile trova una forma di ossessione. Predica l’attenzione maniacale al dettaglio – «Accarezza il dettaglio, il divino dettaglio» – e si sofferma sulle luci nella descrizione di Lucinda, o sull’oscillazione affettiva di Dulcinea. Il Don Chisciotte non è un capolavoro, dice, ma è pieno di finestre che brillano nel crepuscolo della tradizione.

Alla fine delle lezioni, Nabokov non si è riconciliato con il libro, ma ha fatto qualcosa di meglio: lo ha smontato, ha mostrato dove fa male, dove mente, dove brilla.
Ha spiegato che leggere non è un atto di amore cieco, ma di consapevole conflitto. E che ogni grande romanzo è anche una forma di illusione.
La chiusa in un’immagine: Don Chisciotte e Sancio che si allontanano su un sentiero polveroso, come due superstiti di un’epoca che non esiste più.
«Le loro ombre si sovrappongono fondendosi in un’unica entità».
Ed è lì, forse, che vive ancora una certa letteratura.


In copertina: Honoré Daumier, Don Quijote, 1868

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