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Nell’estate dei tuoi sudati tredici anni – La Cecilia

Di Annachiara Mezzanini


C’è un tempo, più o meno lungo, durante il quale quasi tutti gli esseri umani si sentono come esseri marini. Mollicci, informi, puzzolenti, scomodi. Si resta in bilico sullo scoglio prescelto, senza posa, in attesa che un’onda passi e ci travolga, per far cessare in noi questo pensiero latente, questa voglia di sparire, perché diversi. A riva, tutti sembrano correre felici nei loro costumi aderenti; non si curano della salsedine che appiccica le mani o dei grumi di capelli sulla nuca o della sabbia tra le cosce, che friziona ogni movimento. Tutto è gioco. Il sudore e il fastidio ne sono componenti normali. 

Il punto di vista dell’essere di mare è diverso, non compreso. Esso aborrisce il frastuono indiscriminato e il caos delle membra scosse al sole. Predilige la contemplazione e la quiete, senza increspature, come quando il nostro nome viene chiamato con tono sicuro da una persona amata e, immediatamente, in quelle brevi sillabe che scoccano sul palato, ci riconosciamo. L’agitazione che ci desta è minima, quella parola pronunciata siamo noi. Questo tempo ha una sua durata. Spesso si esaurisce con lo scadere dell’estate e, poi, tutto ritorna a scorrere, fino al prossimo cambiamento.

 

 

Cecilia è un essere marino. Anche lei ha trovato il suo scoglio, nella zona vietata alla balneazione, lontana da occhi indiscreti, e si lascia trasportare dall’odore del mare sotto il sole di fine giugno. Il suo corpo è un mollusco che a fatica riesce a riconoscere; la sua famiglia – mamma, papà e il fratello Luca – sono ostaggi dell’isola e del tempo scandito e imposto dalle corse dei traghetti dalla terraferma e dalle telefonate del padre attese e mancate. Lei sembra essere l’unica ad accorgersi veramente delle cose, che mutano sotto-pelle e assumono i connotati rancorosi di sua madre, stanca. Lei è l’unica che vede la fessura farsi sempre più grande, fino a divenire strada tra lei e il resto della casa. È l’unica che raccoglie i gesti lasciati distrattamente cadere nel vuoto dagli adulti che la circondano e, come amuleti, se li rigira tra le mani alla ricerca di un segreto che, in fondo, ha sempre saputo.


Nell’estate dei suoi tredici anni, Cecilia impara, a sue spese, cosa significa intrinsecamente indossare un’identità.



Perché se è vero che il nostro nome è un presagio, scintillio del nostro destino –
nomen omen – allora è vero anche che esso ne è la condanna. La cecilia, anfibio vermiforme, cieco ed ermafrodito, scopre così di essere anche persona, donna acerba alle prese con i primi irreversibili segnali della pubertà.

Siamo sull’isola di Ischia; il sole è quello di qualche anno fa, in un’estate madida di sudore di un decennio impresso nel passato, a cavallo fra due secoli. Il mare è sempre lo stesso, ma i corpi che si tuffano tra i suoi flutti sono diversi. Quello di Cecilia sta prendendo forma proprio tra le righe, muta e si dissocia, pericolosamente, dalle amate forme androgine che per tutta l’infanzia l’hanno caratterizzata. Il turbamento che ne consegue segnerà la sua intera estate e la condurrà lungo sentieri che, prima d’ora, lei non aveva mai sperimentato. La menzogna, la vergogna, il nuovo odore acre nascosto dalle pieghe della carne, le sinuose curve appena abbozzate di un altro essere marino, allo stesso tempo simile e terribilmente distante da lei. La consapevolezza di essere diversi e di non riconoscersi in stereotipi ritenuti personalmente come disumani; il ricrearsi un mondo a parte, in una cornice di isola lontana dalla solita spiaggia nota fin dall’infanzia; il riscoprirsi estranei al proprio nome, dentro al costume e al nome rubati al fratello, creandosi un alterego adatto agli sguardi dei propri ignari coetanei, ma decisamente asfissiante da sopportare. 

La Cecilia (nottetempo) è il romanzo d’esordio di Michela Panichi, giovane promessa letteraria originaria di Napoli. Il suo sguardo prende forma tra i primi giorni afosi e ansiosi dell’adolescenza della sua non-più-piccola protagonista e, attraverso una complicata e sofferta rete di relazioni amicali e familiari, si districa dentro e fuori Cecilia stessa, in una simbiosi perfetta di ricordi d’infanzia e dubbi esistenziali. Le parole che solcano la pagina creano uno stagno di pensieri proteiformi, all’interno del quale il lettore si ritrova e si ricorda, lasciando regredire la memoria ai giorni selvaggi tra l’innocenza della fanciullezza e il sudiciume della prima giovinezza. 

 


Michela Panichi è nata nel 2000 a Napoli. Nel 2020 ha vinto il Campiello Giovani con il racconto Meduse. Nel 2024 con La Cecilia è stata finalista alla XXXVII edizione del Premio Italo Calvino. Sempre nel 2024 ha partecipato alla v edizione del master RAI in Scrittura seriale di fiction.


In copertina: Artwork by Enrico Colombotto Rosso


 

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