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Cinzio e suo figlio – Di Luca Tosi

Cinzio aveva un figlio e voleva che diventasse calciatore di Serie A, così l’aveva iscritto alla scuola calcio della Savignanese all’età imberbe di sei anni. Il bambino, che a malapena sapeva correre senza inciampare nelle proprie caviglie, si era subito contraddistinto nel non eccellere in nessun ruolo: magro, di statura bassa, non era né veloce né tecnico, usava solo il piede destro, col mancino mancava puntualmente il pallone. Cinzio si presentava nella tribunetta del campo non solo alle partite della domenica, bensì anche agli allenamenti, e gridava al bambino incoraggiamenti e moniti come «Forza!», «Attento!», «Vai!», «Di più!»; era raro che esprimesse apprezzamenti o si producesse in applausi. Il figlio giocava al meglio che poteva, però disorientato dalla pressione e dalle aspettative del padre alle volte si smarriva, non capendo più qual era la metà campo avversaria e confondendo i colori delle maglie e il cielo con l’erba. Per non parlare dei prepartita: deglutiva molta aria e molta saliva, così poi finiva per patire  aspri mal di pancia, che quando andava bene attenuava attraverso potenti scoregge, quando andava male gli toccava rivolgersi al cesso. Eppure, dopo aver espulso una cascata di escrementi liquidi non è che giocasse meglio, più libero, esentato dalle ansie; no, restava scarso e impacciato come al solito. Non dimentichiamo che Cinzio, pelato, stava sempre in piedi, in tribunetta; lì si attirava le occhiate brute e i commenti sottovoce delle mamme e dei babbi degli altri bambini. Guardava solo il figlio, non aveva occhi e nemmeno orecchi per il resto, ma un solo obiettivo in testa: fare del suo piccolino un grande campione.
Cinzio di mestiere era un casellante e la seconda moglie, la madre del bambino, era morta quattro anni prima lasciando zero eredità a entrambi. A maggior ragione il bambino era l’unica risorsa per incanalare un’eventuale svolta, così investiva tutto su di lui.
Dopo i primi due anni di scuola calcio, un giorno che Cinzio non era andato a vedere l’allenamento perché malato di tonsillite, il figlio si era avvicinato quatto quatto all’allenatore per proporsi come portiere. L’allenatore, che si chiamava Cono Fusco, e che aveva collezionato molta esperienza nei settori giovanili di mezza Romagna e nei rapporti coi padri ingombranti, aveva avuto compassione del bambino.
«Ma sei sicuro?» gli aveva chiesto, alludendo al padre. Notando la sua convinzione l’aveva poi mandato in porta con un paio di guantoni marca Uhlsport.
Al che aveva disposto gli altri in fila indiana per organizzare una scarica di tiri, così da testare le sue capacità fra i pali. Il bambino aveva, di primo acchito, sofferto l’impressione che la porta fosse ben più grande di come la vedeva da fuori, però comunque gli erano riuscite delle belle parate, ma tutte eseguite sul suo lato destro. Sul lato sinistro non riusciva a tuffarsi, si sentiva bloccare, frenare nell’istinto.
A fine allenamento, piuttosto soddisfatto, aveva chiesto su questo delucidazioni a Cono Fusco; Fusco, dopo avergli risposto che a parare era portato e che l’avrebbe schierato titolare, gli aveva spiegato che ogni portiere ha il suo lato preferito, e che per migliorare sul lato opposto serve tantissimo allenamento, estenuante pratica e serie infinite di tuffi costretti, cosa a cui avrebbe provveduto, negli allenamenti successivi, il preparatore dei portieri, un certo Olivieri che proveniva da un passato glorioso in serie C2.
Il bambino aveva visto altre volte Olivieri allenare i portieri delle squadre allievi e primavera. Cono Fusco aveva già deciso: lo avrebbe aggregato ai più grandi, un po’ perché sul serio aveva intuito in lui un talento, un po’ per prevenire ed attenuare lo scatenarsi delle ire di Cinzio, appena fosse venuto a sapere del cambio di ruolo.
Quella sera Cinzio aveva scatarrato forte, tossito l’anima e consumato tutto uno spray al propoli per reggersi in piedi e cuocere sofficini e bastoncini Findus al figlio, che era rincasato alle sette di sera, borsone in spalla, senza rivelare la novità e riassumendo il racconto dell’allenamento con un: «Tutto bene, babbo. Sono stanco». Cinzio se l’era fatto bastare. Il bambino sperava che la malattia del padre durasse almeno sei mesi, e che magari peggiorasse fino a farlo schiattare, ma così non era stato. Due giorni dopo Cinzio, ancora rauco e con trentasette e mezzo di febbre, aveva accompagnato il figlio al campo, si era poi accomodato in tribunetta e da lì aveva scoperto l’arcano. Il bambino si era subito sistemato in porta, indossando i guantoni Uhlsport, e aveva parato tutti i tiri sul suo lato destro con tuffi e colpi di reni da prodigio, mentre sul lato sinistro si erano susseguiti i gol. Alle espressioni basite di Cinzio si erano alternati sbraiti e urlacci. Ovviamente Cinzio non aveva notato la differenza fra destra e sinistra, però registrava che il figlio parava con una percentuale del cinquanta percento, che secondo i suoi standard era bassa.
Finito l’allenamento, Cinzio e il bambino erano andati a cena fuori al Sottomarino giallo, in centro a Savignano. Entrambi avevano ordinato le penne fumé, unico piatto decente di sette pagine di menù, e nell’attesa si erano messi a chiacchierare di portieri: da Zoff a Buffon, passando per Kahn e Taffarel, fino ai più moderni Čech, Neuer e Donnarumma. Cinzio istruiva già il figlio sulle uscite a palla alta, sul posizionare la barriera per i calci di punizione e sui calci di rigore; il bambino fingeva di ascoltarlo ingurgitando i grissini, senza mai accennare alla difficoltà di tuffarsi a sinistra. Guardava gli occhi del padre come fossero separati dal resto del suo corpo: avrebbe voluto tirare due schicchere a quelle biglie di pupilla, per lanciarle lontano e non averci più a che fare. 

L’indomani Cinzio aveva accompagnato il figlio a comprare dei guantoni da portiere in un negozio non di catena, che sovraprezzava ogni cosa. Il bambino aveva scelto un modello Uhlsport, simile a quello prestatogli da Cono Fusco; il fatto è che Cinzio voleva che avesse dei guantoni suoi, personali, perché così facevano i grandi portieri citati sopra.
L’allenamento seguente, a cui Cinzio era mancato per un appuntamento al CAF dedito a ottenere il bonus affitto, il figlio l’aveva sostenuto non con la squadra, bensì con l’allenatore dei portieri, Olivieri; Olivieri aveva da subito registrato le qualità e i limiti del bambino, costringendolo poi, in un esercizio, a tuffarsi a ripetizione solo sul lato sinistro. Infine, lo aveva allenato sulle uscite da calcio d’angolo e sui rinvii da fondo campo. Il bambino non era male sulle uscite, ma sui rinvii era una schiappa, non aveva la potenza necessaria nel piede; perciò, non arrivava a lanciare il pallone fuori dall’area di rigore. Olivieri gli aveva detto, prendendolo da parte: «Sentimi bene, tu sei più forte di quelli più grandi di te, hai capito? Sei l’unico, qui, che se s’impegna può ambire a fare il portiere sul serio, avere una carriera. C’è un problema, però».
«Che problema?».
«Non hai personalità».

Questo giudizio si era incuneato nei timpani del bambino fino a raggiungere il cervello e insediarsi lì; non ne sarebbe uscito mai più. Non capiva bene cosa intendesse Olivieri e come avrebbe potuto reagire per dimostrargli il contrario, perché in fondo sentiva che era un giudizio vero e irreversibile. Negli allenamenti successivi Olivieri se la prendeva molto col bambino, era esigente a livelli massimi e rigorosissimo, tanto che aveva proibito a Cinzio di pronunciare il minimo urletto dalla tribunetta a costo di sospendere l’allenamento. Cinzio, che di allenatori così non ne aveva conosciuti prima, aveva da subito provato una grande stima per Olivieri, e non solo era rimasto sempre zitto da lì in poi, ma si era anche messo seduto.
Il bambino parava ogni giorno più palloni, sul lato destro ormai praticamente tutti, mentre sul sinistro continuava a subire gol anche ridicoli. Ogni volta che la palla toccava la rete dietro di lui biascicava: «Non ho personalità, non ho personalità…».
Olivieri gli urlava addosso, assumeva l’espressione di un’autorità in divisa; così, nel giro di poco il bambino si era ritrovato addosso i sintomi che lo attanagliavano già prima di diventare portiere, ovvero l’ansia, le scoregge e le diarree. Però stavolta era diverso: spurgare sul cesso gli serviva per tornare tranquillo, poi giocava meglio, sentiva che la sua personalità si forgiava a ogni tiro di sciacquone. Olivieri godeva come un riccio nel vederlo parare anche a sinistra, e nel tempo di due mesi lo aveva promosso alla squadra di quelli di tre anni più grandi, tanto era forte e temprato.
Il bambino aveva quindi debuttato in campionato. Era titolare inamovibile; la squadra era di medio-basso valore, vinceva contro le squadre più scarse e perdeva contro quelle più forti, come succede quasi sempre nel calcio. Cinzio era contento, con chiunque gli capitasse di parlare raccontava delle gesta del figlio, dei suoi guantoni Uhlsport, del fatto che giocava coi più grandi e che era allenato da un “vero uomo” come Olivieri. Poi però arrivò l’inverno: da novembre inoltrato il bambino conobbe una nuova difficoltà. Dato che le partite si svolgevano la domenica mattina alle nove, dopo appena venti minuti gli si congelavano i piedi e via via tutto il corpo; gli altri correvano, sudavano, mentre lui impalato in porta ghiacciava solo soletto, tanto che quando poi giungevano dei tiri, sia a destra che a sinistra, era così intirizzito che ne parava uno su quattro. Per non parlare di calciare: che si trattasse di un rinvio dal fondo o un semplice passaggio, il suo piede surgelato soffriva il solo contatto col pallone. In più, le tensioni del prepartita unite al gelo gli aizzavano i sintomi gastrointestinali, costringendolo a canottiere della salute e calzetti doppi o tripli, ma non bastavano.
La sua personalità si stava formando, sì, al contempo, però, aveva delle crisi di pianto a scuola, non studiava più, non vedeva gli amici e si rintanava in camera sua a guardare il soffitto per ore e ore; ripensava spesso alla mamma, alla pelle della mamma, così pallida e liscia che la associava al paradiso, o meglio, s’immaginava che il paradiso, se davvero esisteva, fosse proprio un luogo dove ogni cosa aveva quella consistenza. Gli capitava anche di pensare che se sua mamma non fosse morta e l’avesse accompagnato nella crescita, lui una personalità l’avrebbe già avuta da un pezzo, e magari avrebbe fatto tutt’altro, nella sua infanzia, al posto di intercettare palloni diretti verso una rete.
Cinzio era contentissimo di vedere suo figlio giocare coi più grandi e certe sere, adesso che era guarito dalla tonsillite, dalle placche e dagli strascichi legati ad antibiotici sbagliati, andava in garage e con due forchette suonava sul telaio della sua bici come un batterista. Mai era stato, nella sua vita, più contento di così: avere un figlio dotato di un talento precoce, in via di espressione, lo metteva in pari coi suoi grandi ritardi, lui che non era mai valso granché né sul lavoro né fuori, lui che una terza moglie l’aveva cercata in ogni dove, senza risultato.
Però, se c’era una cosa che i due condividevano, in segreto, era proprio ripensare alla pelle di Luisa, seconda moglie di Cinzio e madre del figlio: Cinzio ci pensava ogni notte per riuscire a prendere sonno, altrimenti gli era del tutto impossibile.
L’inverno era venuto avanti, si era entrati nell’anno nuovo, poi era sbocciata la primavera. Lì le prestazioni del bambino erano migliorate, adesso si tuffava con naturalezza anche a sinistra. Quando si tuffava gli pareva di volare, seppure per un secondo o due appena. In volo, il paradiso gli appariva accessibile: pensava che se avesse continuato a giocare così, miglioramento dopo miglioramento sarebbe stato in grado di tuffarsi sempre più su, arrivando a sfiorare la pelle della madre.
Gli era accaduto qualcosa di simile i primi di maggio, quando la Savignanese era stata interpellata dal Milan per un’amichevole-provino. A quel punto tutti i genitori, non solo Cinzio, si erano riscoperti manager o procuratori dei loro figli. Li allenavano anche a casa, in proprio, prendendo le ferie dal lavoro. Cinzio era andato a comprare dei guantoni nuovi per il figlio, l’aveva portato dal parrucchiere più costoso di Savignano e per una settimana avevano mangiato sempre al Sottomarino giallo: carne, pesce, verdure, tutto per prepararlo anche sotto il profilo dietetico alla sfida con i rossoneri. Ogni sera, in aggiunta, Cinzio e il figlio, su iniziativa di Cinzio, pregavano seduti sul divano, ad alta voce, ringraziando il Signore ma soprattutto chiedendogli che i loro desideri venissero accolti ed esauditi. Cinzio era stato anche in chiesa, una mattina, ad accendere un lumino. Era così teso in quei giorni che l’unico modo per calmare i nervi era fare pipì, non appena la prostata glielo comandava; pisciava a occhi chiusi con grandi espirazioni e brividi lungo la schiena, ma non appena tirava lo sciacquone le angosce ripartivano. A differenza sua, il figlio se la passava benone, sapeva di essere il miglior portiere dell’intero settore giovanile, il più piccolo e perciò il più appetibile per gli osservatori.
Insomma, il giorno dell’amichevole il cielo era soleggiato e la temperatura mite. Il bambino si era scaldato con Olivieri in modo perfetto. Purtroppo, però, fin dai primi minuti  il Milan aveva dettato la sua superiorità nel possesso palla e nel gioco, tanto che il bambino aveva avuto un bel daffarefra dirigere la difesa e parare frequenti tiri da ogni direzione. Giocava da vero campione, con spiccata personalità, sembrava una colonna d’aria, era concentratissimo.
Intorno al ventesimo del primo tempo si era presentata un’occasione ghiotta per il Milan: dopo un veloce contropiede, la prima punta si era trovata a tu per tu col bambino, che era avanzato fino a circa metà dell’area di rigore per chiudere lo specchio della porta all’avversario. La punta aveva calciato a pallonetto; il bambino si era perciò involato in tuffo, e con la mano di richiamo aveva compiuto una parata inverosimile, aliena, un gesto tecnico mai visto da nessuno dei presenti, nemmeno in televisione; nel volare alto era rimasto come sospeso, per una frazione di secondo, con la mano che respingeva il pallone, il cielo azzurro sopra e i raggi del sole tutti su di lui. Piombato a terra, si era subito rialzato fra gli applausi e le urla di sbigottimento del pubblico.
Tempo altri venti minuti ed era finito il primo tempo. Negli spogliatoi Cono Fusco aveva parlato alla squadra, rimproverando il centrocampo che aveva fatto acqua da tutte le parti; solo verso la fine dell’intervallo, appena prima di tornare in campo, aveva riservato un elogio al bambino: «Mi hanno detto che ci sono osservatori di grandi squadre nel pubblico, continua così». Il bambino aveva guardato Cono Fusco e poi Olivieri, che era lì in piedi a braccia conserte e annuiva.
È doveroso, prima di passare al secondo tempo, riportare anche ciò che era successo sugli spalti: Cinzio aveva dato il suo meglio, o peggio, a seconda dei punti di vista; nell’attesa del fischio d’inizio si era accorto di quanto i pensieri gli si accavallassero di continuo, in un turbine di panico e stakanovismo. Rendendosi conto di tale iperattività, le sue mani avevano preso a tremare a ritmo con la sua palpebra sinistra; aveva sentito al Tg4 di una donna abruzzese che dalla sera alla mattina si era riscoperta schizofrenica, e si era autodiagnosticato la stessa patologia. La partita era cominciata, e Cinzio, di colpo, si era come liberato da ogni malattia e cruccio, e aveva urlato, non al figlio o a qualcun altro, ma al cielo, come per invocare l’indefinito. Per tutto il tempo era rimasto in piedi incurante di quelli seduti dietro, finché, alla visione della paratona del figlio, anche lui era saltato in volo, ed era atterrato sui piedi di quelli seduti a fianco, che l’avevano guardato come si guarda un gatto scemo. Nonostante la figuraccia, l’intera tribunetta aveva poi applaudito tantissimo il bambino, e lì Cinzio, nel rimettersi in sesto, annuiva a tutti dicendo: «Grazie, grazie, è mio figlio».
Ma non è ancora tutto. Sfumati gli applausi, nell’istante in cui il pubblico tornava seduto, Cinzio aveva adocchiato un uomo coi capelli ingellati che indossava una giacca con lo stemma della Fiorentina. Scriveva su un block notes marca Moleskine. Si era catapultato da lui saltando i gradoni della tribunetta come un primate, aiutandosi con le braccia, per attaccare bottone: l’ingellato era sì un osservatore, era sì impressionato dal bambino, ma disgustato dall’eloquio di Cinzio si era presto defilato con la scusa di andare in bagno, e non era più tornato.
Veniamo al secondo tempo. Il bambino e la squadra, rientrati in campo rivitalizzati dal discorso grintoso di Cono Fusco, si erano riposizionati nei ruoli con la volontà di vincere. Al Milan, invece, sembrava non fregasse niente del risultato.
La partita si era risolta senza emozioni fino agli ultimi dieci minuti. All’ottantaduesimo il bambino aveva rischiato moltissimo per una parata facile: un tiro smorzato, rasoterra, però alla sua sinistra. Si era buttato calcolando male tempo e spazio, ma comunque era riuscito a deviare la palla in calcio d’angolo; rialzandosi, aveva finto di essere scivolato per colpa di una zolla. Aveva guardato l’erba nei pressi dei suoi piedi con fare esplicito, scuotendo la testa così da convincere del misfatto la tribunetta e la panchina, nella paura di compromettere la sua reputazione.
Cono Fusco gli aveva urlato: «Va bene lo stesso, bravo, resta concentrato!».
Dal calcio d’angolo era partito un cross insidioso, il pallone era piombato sul piede storto del centrale difensivo della Savignanese che, nel tentativo di rinviare, aveva svirgolato. Il bambino aveva così preso il pallone con le mani, ben sapendo che non poteva trattarsi di retropassaggio. Eppure, l’arbitro, forse corrotto o psicologicamente suddito del blasone del Milan, aveva fischiato punizione a due in area. Le proteste della Savignanese non erano servite a niente: il Milan aveva battuto e segnato con un forte tiro che aveva bucato prima la barriera, poi i guantoni del bambino, infine la rete.
Il triplice fischio dell’arbitro, seguito appena dopo, aveva sancito la fine. C’era chi piangeva steso in campo, chi rincorreva l’arbitro per bastonarlo, chi come Cono Fusco provava a calmare gli animi e chi come Cinzio, in tribunetta, lanciava monetine verso i guardalinee e dimenava le braccia per segnalare il più grande illecito sportivo della storia.
La situazione era rientrata nel giro di mezz’ora. Negli spogliatoi si susseguivano ancora i pianti disperati, le urla, le promesse di vendetta, mentre Cono Fusco, Olivieri e il resto dello staff si congratulavano con lo staff del Milan, così da non perdere del tutto la faccia.
Quella sera Cinzio aveva portato il figlio a mangiare carne di cavallo in un ristorantino di nuova apertura, chiamato Zodiaco, gestito da una coppia di Rieti trapiantata a Santarcangelo di Romagna. Avevano ordinato entrambi una bistecca ai ferri con patate e Cinzio si era commosso, poco prima di finirla, dispiaciutissimo per l’esito della partita. Il bambino aveva chiesto al padre se avesse notato la presenza di osservatori in tribunetta, e lui aveva fatto di no con la testa.
L’indomani Cinzio aveva ricevuto una telefonata da Cono Fusco: lo informava che l’Atalanta era pronta ad acquistare il cartellino del bambino offrendo vitto e alloggio a Bergamo ad entrambi. Le cose andarono felicemente per questo verso.
Cinzio e il figlio si erano trasferiti due settimane dopo in un trilocale di nuova costruzione nel centro città: Cinzio lavorava adesso al casello autostradale di Bergamo, e il figlio andava alla scuola privata al mattino e si allenava tutti i pomeriggi. Nelle file dell’Atalanta, però, c’erano portieri molto più prodigi di lui, più alti e già strutturati fisicamente, con mani più grandi, spalle più larghe, sguardi più determinati, personalità molto definite.
Così, nel tempo di un paio di mesi, aveva pian piano smarrito fiducia e volontà, e aveva smesso d’impegnarsi. Era troppo abituato a essere la prima donna della squadra, sembrava che si fosse dimenticato di come s’impiegano voglia e abnegazione. Insomma, non era interessato a migliorarsi, seppure avesse i mezzi per crescere e tornare ad essereil migliore. Parava mogio, senza nervo, scoglionato. Nemmeno gli urli e gli incoraggiamenti di Cinzio funzionavano: si sgolava, ricadeva nelle tonsilliti, spronava il bambino ogni sera, ma niente da fare.  Sei mesi dopo l’Atalanta aveva rescisso il contratto e svincolato il cartellino: Cinzio e il figlio, lasciati a piedi, erano rinculati a Savignano, alle loro vite di prima, però senza più la minima traccia di calcio.
Sono passati quindici anni. Cinzio è prossimo alla pensione e il figlio fa l’impiegato in banca. Ogni tanto cerca su internet i cognomi dei portieri che all’Atalanta lo precedevano, nessuno ha fatto carriera. Certe notti ci ripensa: avrebbe dovuto tenere duro, se l’avesse fatto la profezia di Olivieri, l’unico che davvero capiva di pallone, si sarebbe avverata. Eppure, alla prima seria difficoltà aveva subito desistito. Questo gli ha insegnato che non bisogna mai desistere, che nella vita le cose si ottengono se si passa attraverso gli ostacoli e i periodi brutti, non tutto e subito. Il problema è che adesso non sa più cosa vuole, il suo lavoro d’ufficio è piatto, mediocre e non ha aspirazioni. Ripensa spessissimo anche alla pelle-paradiso della mamma e a volte piange, un po’ per il totale delle cose andate male, un po’ per ognuna nello specifico.
Purtroppo, le vite di molti sono fatte così, e lo si scopre sempre tardi. Lo stesso era capitato a Cinzio da giovane; si può quindi affermare che un destino identico abbia contagiato il figlio, nonostante i grandi sforzi del padre per fare in modo che ciò non accadesse. Non sempre gli sforzi ripagano, va detto anche questo. Non ci resta che sperare il meglio per entrambi, per le loro prossime vite, posto che ce ne saranno: se esiste una sorta di ricompensa,  di sicuro gli spetta.
Negli ultimi quindici anni Olivieri ha scoperto un solo altro talento, finito anche questo fuori dal calcio molto presto per circostanze avverse. A quel punto ha detto basta. Oggi si dedica alla pesca amatoriale nei laghi fuori Cesena.



In copertina: Gaston Vaudou, Una partita a calcio, 1920

Una replica a “Cinzio e suo figlio – Di Luca Tosi”

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