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Lessi Ilaria Grando intervallando le sue parole a quelle del diario di Carla Lonzi – Di Annachiara Mezzanini

Lessi Ilaria Grando intervallando le sue parole a quelle del diario di Carla Lonzi.
Lessi Lettere minuscole, l’esordio per gli Sperimentali di Terrarossa Edizioni di Ilaria Grando, e lo finii nei giorni a cavallo tra i miei venticinque e ventisei anni.
Il Diario di una femminista di Carla Lonzi, invece, non l’ho finito; giace ancora con me, ancora per un po’. Ma in entrambe le scritture, sebbene siano ancora fresche e non totalmente compiute nella mia mente, ho rintracciato parti di me, stralci di un passato prossimo, odoroso, doloroso. Sebbene Grando e Lonzi abitino in spazi diversi, i loro scritti sono quasi speculari, si richiamano da lontano, tornando a più riprese sul concetto di donna attraverso una narrazione fluida, ma al tempo stesso interrotta, tipica della pagina di diario.

Cos’è, chi è,  una donna? Lo si può, forse, evincere dalle sue parole confidate ad un taccuino? Siamo le nostre parole? scritte a lettere minuscole su di un tram o con le gambe penzoloni sulla fondamenta? Siamo le nostre parole? urlate su di un foglio, strappate su di una tela? Forse Ilaria Grando e Carla Lonzi, apparentemente non accomunate da molto, lo sanno e hanno provato a confessarsi così, dipingendosi tra le righe strette di diversi font, attraverso diversi media; intrappolando un personaggio – fittizio o reale – tra le pagine sottili di un personale diario – anch’esso fittizio o reale. Lettere minuscole non è un libro semplice, né tantomeno è un romanzo propriamente detto. Esso si ripete, si contorce sulla pagina, si moltiplica, chiede una risposta, pone interrogativi, applica alcune regole, ne smonta altre.
Lettere minuscole è la vita di una donna, dell’autrice e di un’estranea, che cerca di affiorare tra la
mappa dell’esistenza, articolata tra varie direttrici terresti, che portano spesso (se non sempre) alla laguna veneziana. Sbriciolando lungo tutto il testo una sfilza di interlocuzioni pensate e agite,
qualche forma contratta per aferesi (sempre la stessa) e applicando righe o parole sconnesse ed evidenziate alla pagina stampata, come trampolini di lancio per pensieri all’origine non consequenziali, la Grando parla di una donna. È lei, è singola, è plurale.

 

 

In parte, sono io. Ex studentessa di beni culturali e storia dell’arte presso l’ateneo cafoscarino, sceglie di scrivere, di provarci, seguendo quella timida incerta prospettiva che, ad un tratto, diventa sempre più reale, quasi tangibile. Insegue una scuola del libro, conosce persone, impara a poggiare meglio la penna sul foglio. Si perde a Venezia, beve prosecchi seduta difronte alla Giudecca, diventa un tutt’uno con l’acqua salmastra della città, sperimenta la meraviglia nostalgica del “caìgo” e diventa sua amica. Questa, in parte, è forse la Grando, sicuramente sono io.

In un susseguirsi di esperienze e di confessioni, a sé stessa prima ancora che al lettore, l’autrice
sembra voler restituire uno scenario squisitamente intimo, ma, al tempo stesso, collettivo.
Cercandosi tra le immagini che popolano la sua mente, prima fra tutte quella dello specchio e del
suo riflesso – percepito come alieno, spaventoso, fedele – l’autrice sperimenta un nuovo linguaggio, fatto di rime e, per l’appunto, di lettere minuscole: uomini, presenze perturbanti, che hanno impresso sulla sua pelle marcatori indelebili del loro passaggio. Come una litania, le frasi si rincorrono e ripetono, come fossero elementi ausiliatrici della memoria, che richiamano antiche formule di aedo. Impariamo a conoscere la donna che ci viene descritta proprio attraverso queste frasi spezzate e pronunciate più volte e, presto, ci accorgiamo della somiglianza che intercorre tra autrice-protagonista-lettrice. Che cos’è una donna, quindi? Un corpo che occupa uno spazio? Troppo spazio? Una parentesi che racchiude un pensiero inespresso, giustapposto alla narrazione principale?

Simili a fantasmi, sfaccettature della personalità di chi scrive, alcuni nomi femminili si alternano fin dalle prime pagine, in un connubio di luce e buio. Sono le ombre che accompagnano l’atto meccanico e terapeutico dello scrivere, le compagne che seguono le pagine di quello che, a prima vista, può sembrare un arzigogolato e frantumato flusso di coscienza. È donna anche questa presenza. È madre, amica, psicologa, personaggio di un libro, citazione di un vecchio film. In ogni caso, qui, si fa donna il filo conduttore di ogni pensiero, produttivo o distruttivo che sia, e che conduce il lettore lungo una serie interminabile di digressioni e ricordi, briciole espresse da un narratore che conosce bene la realtà dei fatti. Come una tutina da ballerina o un top da yoga striminzito, le parole scivolano aderenti al corpo e all’anima dell’autrice e palesano le forme di un io tumefatto, in cerca di guarigione. Il ritmo incalzante di talune scene – descrizioni di case, di stanze e di vestiti indossati o gettati a terra – non lasciano tregua, né tempo di riflessione. Tutto è invaso dalla storia, tutto è incalzato dall’imminente spezzarsi delle lettere, a tratti, ma non sempre, minuscole.


In copertina: Henri de Toulouse Lautrec, Le due amiche, 1894, olio su cartone, Museo Toulouse Lautrec

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