L’alfabeto è un insieme finito di suoni e segni che memorizziamo fin dall’infanzia. Ci dicono che quell’insieme di suoni e segni si chiama alfabeto. Sembra necessario impararlo in un preciso ordine, lettera per lettera. Ci dicono poi che a ogni lettera corrisponde un suono. Ci dicono che ogni suono può essere scritto e quindi fissato nel tempo. Ci presentano la differenza fra consonanti e vocali. Ci presentano le preposizioni, gli articoli, le congiunzioni, i tempi verbali. Ci insegnano la differenza fra maschile e femminile, singolare e plurale. Gli accenti, gli apostrofi. Ci insegnano a usare la punteggiatura, le pause, i silenzi. Ci gettano in un labirinto insomma. Il labirinto del linguaggio. Ci gettano in un labirinto senza fili di lana da seguire, senza avvertirci dei possibili pericoli, le trappole, i minotauri. Ci gettano nel labirinto del linguaggio quando siamo ancora bambini, noi ingenuamente ci fidiamo e ci troviamo soli, di fronte all’analisi logica e grammaticale. Impariamo a sopravvivere all’interno del labirinto, impariamo a rispettare le parole, ascoltiamo le voci delle lettere.
E ogni lettera è un personaggio, con una volontà precisa, desideri e paure, deliri e ossessioni. Come ogni personaggio anche le lettere hanno una loro storia personale, un passato con cui fare i conti e un futuro a cui sono inevitabilmente destinate.
La lettera A e la lettera B aprono lo spettacolo, il sipario si alza su un piccolo appartamento cittadino…
A cerca il Dio nascosto, B aspirante pornoattore
Nel soggiorno di una casa troppo piccola, alle dieci o alle undici di sera, B stava fumando una sigaretta. A beveva una Moretti, direttamente dalla bottiglia. A ha detto che scrivere per lui doveva essere una questione di vita o di morte. B ha detto che non aveva senso ormai parlare di vita o morte, tantomeno di miracoli. La scrittura è solo un lavoro come un altro: sveglia alle sette, timbrare il cartellino, otto ore filate, quando è una buona giornata, e straordinari non pagati. E invece no, ha detto A, invece scrivere è sempre una questione di vita o di morte, diciamo una questione di sangue. B ha fatto no con la testa, io scrivo e spero di essere letto, scrivo e spero di essere distribuito, venduto, recensito anche, non sarebbe male, magari vincere qualche premio. A ha sorriso: scrivi perché non hai il coraggio di darti fuoco in una piazza o in un centro commerciale, scrivi perché sei pigro e impaurito, pensi costantemente all’aldilà, se esiste o meno, se ci sarà punizione o perdono. Scrivi perché non ce l’hai abbastanza grosso da fare il pornoattore. B girava ora un’altra sigaretta, o meglio provava a girarla senza riuscirci, era troppo ubriaco. La scrittura è un lavoro usurante, ha detto. Abbiamo scrittori e scrittrici sporchi di malta e vernice, milioni di scrittori vestiti da operai, milioni di scrittori e miliardi di libri bulloni viti putrelle pali innocenti, miliardi di libri e milioni di alberi abbattuti pale picconi ruspe escavatori. Abbiamo più scrittori che militari, abbiamo più scrittori che personale sanitario, ha detto A. B ha ridacchiato. Ho girato la sigaretta, ha detto. A l’ha guardato. Quella sigaretta non tira. B ha detto scommetti? L’ha accesa, ha fatto un tiro, ha soffiato il fumo verso la faccia di A. Gli scrittori sono la nuova classe proletaria, ha detto B, bisogna puntare su di loro per scatenare la rivoluzione, la rivoluzione e la ghigliottina, la ghigliottina e la critica spietata dei giornali di sinistra. A ha fatto un applauso, poi ha detto: i giornali di sinistra sono come i giornali di destra, ma usano un linguaggio antico e si prendono meno sul serio, si limitano a criticare le scelte della destra, si limitano a opporsi senza mai prendere l’iniziativa, non sanno comunicare alle masse e quindi rimangono a farsi le seghe a vicenda. Ti piacciono i Creedence Clearwater? ha chiesto A. B ha detto cazzo, come dire sì. La letteratura è una carcassa in putrefazione, stesa nel fango, ha detto B, rosa dai topi e dai vermi e dagli avvoltoi, insomma da quel tipo di bestie sudice che non vorresti mai avere attorno. A ha detto: la storia della letteratura è la storia del rapporto incestuoso fra la morte e gli esseri mortali, scriviamo per cancellare il nostro nome, per appropriarci delle morti altrui, per osservare impunemente il Dio nascosto.
Non c’è niente di più osceno dell’arte, niente di più patetico della letteratura, ha detto B. A si è alzato e ha preso dal frigo un’altra Moretti. Vorrei solo trovare qualcuno che crede ancora in qualcosa, ha detto B. Vorrei che ci fosse ancora speranza per noi poveri bastardi chiusi in soffitte scure a fumare sigarette, con le dita gialle e le bocche impastate di versi e rime e negli occhi qualche culo nudo visto di sfuggita alla finestra del palazzo di fronte. A lo guardava, non sapeva se ridere o piangere, nel dubbio ha riempito il bicchiere di B, ha alzato il suo e ha detto: un brindisi compagno. Ai libri scritti per le bestie e a quelli scritti per gli angeli, ha detto B. Hanno bevuto alla goccia, B ha ruttato, poi dopo un po’ di silenzio hanno acceso la tv e hanno guardato un film, su Italia1 davano Il Calice di Fuoco.
Di Francesco Marangi
In copertina: Alfabeto fotografico by Howard Schatz


4 risposte a “Antisillabario – Una rubrica di Francesco Marangi”
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