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Ungrounding Theatron – Parte: I Ničija zemlja (di Danilo V Paris)

Il racconto che presentiamo oggi appartiene alle categorie impossibili che amiamo accogliere: quel tipo di scrittura ibrida e allucinata che mescola poesia e teatro, sogno e realtà, luce e ombra.

Danilo V Paris ci trascina in scenari teatrali immaginifici, assordando la pagina con voci metafisiche che riecheggiano da epoche lontane. 

I personaggi, più che figure concrete, sono archetipi in continuo mutamento, interpreti di un dramma che si svolge tra le pieghe della coscienza e il palcoscenico dell’esistenza.

Questa è la prima parte.


I Ničija zemlja

 

Quasi tutte le volte le poltrone rosse avevano più pelli, alcune erano direttamente incollate agli spettatori, altre invece lo erano più sotto, all’interno, a qualcosa come uno spettatore universale, il più animalesco e originario, forse, o quello prestabilito dallo specifico teatro in cui venivano installate.

Quando qualcosa che accade in scena diventa particolarmente sanguigno il pubblico sembra reagire con la pelle che sta più sotto e io lo sento come tirare giù e lo sento anche quando accade qualcosa che non è direttamente sulla scena, come quando una delle ballerine, che figurava il dipinto della vergine delle rocce di Leonardo, riesumando stilemi e prospettive di bellezza e raffigurazione senza nessun tipo di riguardo verso circa cinquecento anni di storia e critica della rappresentazione, come quando, dicevo, questa ballerina usciva gridando, sfigurandosi, passando in pochi secondi da Leonardo a Francis Bacon agli strati fotografici di Arnulf Rainer, gridando e prendendo a spallate un figurante che evidentemente stava troppo in mezzo, che non si era posto al lato più estremo della quinta, che sì, forse aveva lasciato poco spazio per passare, a lui gli urlava di togliersi, a quell’idiota, come gli diceva, a lui con una grossa ruota, chino, con la schiena arcuata e il naso adunco e il vestito ridicolo del popolano, le mani che si stringono attorno al ferro laccato di oro finto, poco prima della sua entrata.
E sentivo che il pubblico veniva tirato giù, quando lì dietro, al figurante le nocche gli diventano bianche per la rabbia con cui stringe le dita, e le vene gli pulsano sulle tempie e la pelle sembra rossa, i muscoli delle braccia allenate del maratoneta sembrano ingrossarsi e palpitare e un leggero calore si spande intorno, bruciandomi le narici e instillandomi una paura primordiale. Anche le pupille si sono ingigantite e sono più nere di prima.

Forse quella pelle tira anche me, lo fa scurendomi la voce, credo. Per questo, non appena me ne accorgo, me la devo scrollare via e allora mi invento la prima cosa che mi viene in mente per distrarre quel ragazzo e lui ride, si calma, mi pare, e le pupille rimpiccioliscono, mi mostra un sorriso genuino che è quello che ha quasi sempre e allora lo vedo tornare in sé, molto serio e pronto a entrare in scena, perché è il suo lavoro e lui lo fa in maniera metodica e precisa al millimetro.

Si gira, deciso, e i tratti del suo volto si modificano per la concentrazione del ruolo immaginativo, la musica registrata, tipica delle giocolerie rinascimentali, arriva al punto che indica il suo ingresso e lui parte, preciso al millesimo. Fa girare la ruota fino al centro e poi entro io, con il cesto pieno di roba che serve per la scena, vestito anche peggio di lui , con i vestiti strappati e una corda scarlatta intorno alla testa, come quella dei cuochi di ramen nei manga. La musica è divertente e soprattutto idiota durante questa scena, idiota quasi quanto me che mi sottopongo a questa cura-Ludovico per quattrini, ambientata in una giornata di mercato, è musica medievale di taverna o qualcosa del genere; il mio personaggio deve correre a salutare l’amico e poi giocare a lanciarsi le mele con altri figuranti, mimando una specie di trovatello malandrino, tutto rimbambito e che inciampa, si confonde, ridacchia e sta tutto storto, mentre dalle quinte cominciano a entrare in massa tutti gli altri figuranti, con la frutta, gli ortaggi e i carretti, la musicante, e poi arrivano le ballerine popolane e i giullari. L’inutile allegria rappresentativa messa in scena già almeno venti volte, che però ogni volta è diversa perché non si può ripetere l’istante, solo la differenza, ogni volta estratta dal baratro della follia, es____prit, venuto fuori dalla tomba del corpo. Infatti, ogni volta è un massacro di diverso colore, è uno sfruttamento d’immaginario un tanto al chilo diversificato per le masse rimbambite in modalità diverse: è poco carino che le chiami così, ma queste sono proprio le masse, non c’è niente da fare. Vanno in estasi per gli acuti e i colori sbrilluccicanti, per le dimostrazioni di potenza e l’esibizione anestetizzante delle forme.

Non è lo stesso, comunque, è un nuovo spettacolo nella terra di nessuno.

Perché mentre tutto è colorato e luminoso, il nero profondo che avevo visto prima sulle pareti del teatro balcanico non si esaurisce, un nero cadaverico che mi pare gocciolare dai muri e dietro il boccascena e il pubblico, in penombra, di cui vedo solo i sorrisi, come uno stregatto disparente, come un Papa Innocenzo in via di dissolversi in un nulla in cui il sorriso continua ad insistere come una ferita incancellabile.

In realtà il pubblico io non l’ho mai visto. Quando entro in scena sono e quello che vedo è una specie di nebbia da fiutare, un coro di nebbie che si alza biancastro e famelico. Non vedo i sorrisi, vedo gli occhi, elettrici, che salgono al cielo per creare cortocircuiti, e non per confondersi con le stelle. È un rito di trasmutazione. Mentre si abbandonano nella posizione spossessata dell’osservatore della caverna, lo sguardo si sacrifica a una mistificazione: una microbiologia dell’uniformazione intercellulare del nascere. Sopra i loro occhi vedo i fili che si sollevano per partorire i nascituri della mattanza rappresentativa: sono tutti votati al sacrificio cartesiano degli oggetti rinchiusi nel cubo del boccascena. Io stesso sono uno dei punti che si inserisce tra le ascisse e le ordinate.

Comunque, dopo che la madre entra e la scena è finita io corro via e sono già un po’ atterrito prima che rientri per un’altra scena, con un personaggio diverso, che stavolta – e che orrore – parlerà. Che qui, qualcuno poi parli, ha lo stesso clima di profanazione che dovevano avere i primi film sonori dopo trent’anni anni di perfetto cinema muto in bianco e nero. E nei camerini sono le solite corse, spintonate e sguardi minacciosi tra cantanti d’opera e cantanti di canzoni moderne di serie tv fantasy. Alcuni piangono, altri si accusano di aver nascosto oggetti di scena per sabotaggio, io per poco non finisco ucciso sotto un enorme specchio che per miracolo non mi crolla sulla fronte, incidendomi finalmente la giugulare con un contro-incantesimo di spossessamento dell’Io e ritorno alla fase precedente dello specchio, ma comunque non accade e cerco un angolino per svestirmi e mettermi il costume per il prossimo ruolo e rimango per un attimo soltanto con la camiciola in mutande, perché la calzamaglia è sparita, quindi senza rimettermi nulla comincio a correre nel camerino che sta nella quinta opposta, passo oltre il telo e cammino dietro in punta di piedi, sempre con l’orrore di portarmi via il fondale ed essere costretto a coprirmi avvolgendomici nel caso cadesse, mentre ci sono altre figure ferme in questo frammezzo, donne gigantesche con copricapi del Seicento e le ugole che tremano in attesa delle arie successive e altre figure impercettibili, che stanno per qualche motivo schiacciate contro il muro, senza fare niente.

Mentre passo davanti a loro sento come un’aria gelida provenire da quei corpi, li vedo tremare al freddo, impauriti, i volti scuri e inafferrabili nell’oscurità, che mi fissano, pieni di dolore, e uno di loro mi afferra, mi spinge contro il suo corpo per abbracciarmi e farmi sentire il calore invernale delle sue guance e sussurrarmi alcune cose in una lingua che non conosco. E poi uno, due, tre, cento, mille di loro mi si fanno intorno per attirarmi dietro il velo, una lunga discesa che si apre dietro la strettoia in mezzo ai drappi scuri. E nella discesa la rete di Indra si apre in un’infinità di occhi al centro dei quali ci sono dei gioielli e in ogni gioiello si riflette l’infinità di tutti gli altri gioielli e io stesso mi rifletto in loro, insieme a centinaia di esuli che mi camminano a fianco. Penso che siamo una cosa sola, io e loro, che io sono come loro, nonostante io che vestendomi e svestendomi sono meno di niente, forse con loro sono qualcosa, loro che come me sono niente e vivono nello spazio minuscolo tra il retro del fondale e il muro dell’orchestra. E mentre spingiamo per setacciare il riflesso, mi sembra che insieme siamo il rigonfiamento che il coltello forma nel tessuto. Mentre scendiamo a Colono, la sento che si avvicina e prega, “senza travagli”, dice, senza spasimi e grida lo straniero raggiunga la pianura dei morti che tutto nasconde.
Mi sono tutti intorno e mi aiutano a camminare nel bosco, che è pieno di erbaccia e ostacoli, rovi e spine, mia figlia si avvicina e mi bacia, mi tiene per il braccio, perché sono vecchio e non riesco più a camminare. Perché sono cieco e non vedo. Perché ci hanno segnato la via con lo sterro gessato, per non farci passare.

Poi mi fa entrare in casa, che è più ricca di qualsiasi cosa potessi sognare mentre scappavo nel deserto dalle punizioni di Cadmo, che mi saccheggiava casa a Tebe e cadeva a pezzi e le piante seccavano o crescevano ovunque invadendo il salone e la stanza dove tenevamo l’attrezzeria, la capretta, il carro e poi i copioni, a centinaia di migliaia, I giganti della Montagna, Ancora Tempesta, il Mahabaratha diviso a metà, gli enormi tessuti con appese le conchiglie, i corrimano della grande scalinata che usammo nella prima trilogia. C’è l’edera che ricopre tutto e si sta mangiando la carta. Kranèr si siede vicino a me, dopo aver preso uno dei copioni che leggevamo nel ’93, qui al Sartr, in via Gabelina 16. Il testo non si stacca dalla muffa, le ife a cui sta attaccato si allungano restando infilate alla crepa nel centro delle stanze. Il copione è un frutto bianco come una steppa ungherese, è il punto in cui si fondono tre o quattro miceli. Mia madre si sarebbe di nuovo seduta accanto a me, dice lui. E di nuovo saremmo restati in silenzio nel campo aperto. Infine le ho chiesto: “Hai imparato tutte le lettere a memoria, madre?” E mia figlia legge, So a memoria tutte le lettere di Gregor e anche le due di Benjamin e anche l’ultima lettera di Valentin… Non so, mi rincuora quando li sento leggere Ancora Tempesta di Handke, più di qualsiasi altra cosa. Questo rito della memoria, del leggere e ricordare, anche senza nessuno che ti sta a sentire. Questo per me era teatro, ricordare i fratelli lontani e quelli spariti. Il resto era polvere negli occhi in un’era inebetita, che mi toglie letteralmente ogni speranza.
Il pubblico è diventato aggressivo, pretende che le cose siano stupide come vogliono loro, che sia uno scoppio di colore televisivo tirato come un pugno dritto sui denti.

Ma non è mai stato così, è come se fosse cambiato nel giro di un anno. Ricordo i visi che avevano non molto tempo fa, pieni di meraviglia, come se si fossero riempiti di un mondo magico che è casa loro. Ora invece ti guardano come una cosa immonda che non è casa loro: casa loro è una cosa bella e equilibrata, una cosa di famiglia. Prima sentivo che mi erano vicini, che volevano andare con me in un posto che anche io conoscevo a malapena. Perché, mi chiedo, ora siete così sicuri che questa sia casa vostra? Perché lottate per perimetrare tutto, dico io.

Intanto la stanza si è riempita di farfalle colorate e le stigmate illuminate di Hajdari Gëzim dalla finestra aperta mi ricordano che è passato tanto tempo e devo correre via per rientrare in scena.

Quando mi stacco e riesco a raggiungere l’altro camerino, trovo la calzamaglia, mi vesto, pieno di vergogna, perché mentre lo faccio penso a quanto sia rovinoso spifferare versi come un mercenario. In scena il nibbio è maestoso e si erge contro il ragazzino, lo rincorre ovunque a grandi falcate e poi scappa.

E avanti che nibbio a culla e kraljev Grobdicea catalogo nome e schedario delle vesti s’aprì tra stèccie Vinac 3 la graticcia e mi foggiò il rango e la pelle in marchio registro e coro. Il tendaggio mi grattò l’enigma sulla nuca, mi tirò via la grana dal sorbo e dei canzonieri, mi schiuse il canone dall’abbozzo.

La nebbia che vedevo prima non saliva dagli spalti. Gocciolava dal Neretva. Mentre il nibbio si alzava per beccargli la lingua, la lingua andava più avanti di noi, non c’eravamo più nel gesto. Non ci aveva notato. Gli altri non vedono che al di là dei muri neri si sono rotti gli specchi e le quinte, i colonnati, le bocce di cerone, i lustri e i glissati, i piegati e le cadenze. “Non vedono?”. Lungo i bordi della cornice colano a grandi gocce e il fondale si scuce tutto. E sul confine sfilacciato sgorgano i vari fiumi: la ferita è grande.

“Non vedono”, mi dice Visiju, e a Doboj ammassano le consegne, proprio dietro l’abaca si allumina in soda e zolfo. Viene via il mollusco dal bisso, sgoccia dalle tempie della filotassi scarabocchiata tra le sue dita. La via sul fondo del cubo è un lago, dilaga ed è la diga di Rama in pietrarame che mi sfilaccia i bordi del triangolo occhi naso bocca e nel centro sconfina il muro bianco dopo il muro nero il muro bianco con i buchi neri del ‘93. Tuzla si scioglie via dagli analemmata in lignite, uno ad uno cadono i pezzi di mimesi attaccati sul velo e dalla bocca del boccascena entrano i digiunanti e gli orefici delle città, i sarti di Mostar e i tessitori di Travnik.

Allora capisco che mi sono sempre girato dalla parte sbagliata. Dall’altra parte c’è solo nebbia, mentre da lì dietro, dove c’era tracciata la via prospetticamente perfetta di Firenze, immagino, continuano a entrare. Sono quelli di prima, che stavano tutti ammassati sullo spazio stretto dietro il cornicione, penso io.

Izet mi prende e mi porta via, prima di vedere gli altri finire nella nebbia, uno dopo l’altro. Continuano lì la sarabanda e gli strilli, i corpetti, le organze e i nastri colorati uno attorno all’altro. Da qui i mille colori del rinascimento fiorentino sono diventati macchie scure nella brughiera, si accalcano intorno a un corpo centrale, forse ci si accaniscono, forse facevano lo stesso anche prima, ma il corpo stava rannicchiato o nascosto da qualche parte.

Continuo a remare con gli altri e il Miljacka brilla spento come la grande campana franata sul ponte. Da Jala sono scesi i custodi e camminano a migliaia con Faruk. Io voglio solo tornare a quella stanza, a Doboj o  Foča   Rogatica o Zvornik. Mi stacco dal corso e li seguo, gli altri, che non vanno alla processione. A Prijedor,  Ključ ,  Brčko.

Lungo la breccia crepata, scivoliamo e ci sbucciamo i gomiti contro i minareti crollati.
Sento i muezzin che cantano ancora, sotto le pietre o lontano, sulle colline. La porta sta sotto uno strato di polvere e di sesquiossido di ferro lacero, ribaltata, come la casa, che è sprofondata, rovesciandosi. Il lampadario è schiacciato contro il fondo e tutte le foto svolazzano da una parte all’altra, bruciando.

Qualcuno mi dice che dopo aver inventato le case d’altri dovrei tornare a casa, prima o poi. E vestire con i panni di laggiù. Lascia i panni sporchi a noi, sappiamo noi come mettere a posto.
Gli dico che voglio solo vedere la stanza dove facevamo le prove. Che in quegli anni ci stavo perché eravamo di casa al Sartr e ogni settimana avevamo qualcosa da fare, bastava ci fosse qualcosa da fare.

Allora mi lancia una fune e mi calo giù fino al soffitto. Come vado nell’altra stanza, è troppo in alto, gli chiedo. Lui mi fa vedere che ha scavato un altro buco, ci ha messo delle pietre per nasconderla. Ma a chi devi nasconderla?

Una commedia romantica. Non lo fa più nessuno, di scrivere commedie per amore. E le orchestrine colorate, l’uccello dorato, il cavaliere blu. Teatro con bosco e animali. Un applauso dalla foresta, ovattato, è cerimoniosa la cinciallegra, la volpe e il merlo.
“Sotto devşirme a Viŝegrad lungo il filo si strappò il drappo e dal faldone il ciglio”.
Lo sentii quando aggiunsero l’eco alla voce. Oltre alla mia, tornava indietro quella degli altri. Rimbalzava da una parete nera ad un’altra e poi riveniva indietro, insieme alle altre. Il fondale si sfilacciò al centro, l’immagine che riproduceva l’illusione della realtà della città secentesca, attraverso la tradizione degli sguardi rinascimentali, si lacerò al centro.

Da lì arrivarono tutti insieme dal 5 Luglio 1995. Il colore nel buio luccicò, spalando la cenere ributtata oltre le quinte.

“Non ci sono riuscito”, mi dice il manager, sfinito dalla polvere, accasciandosi sotto le macerie, per aver creduto che quello che aveva visto potesse cancellarsi con un baluginio di drappi e tendini tesi nel gesto immacolato. Allora fa quel che può, come ventotto anni prima, quando ci andò per la prima volta. Non ci crede, che arrivino proprio da lì. Ma arrivano, 8372 nomi, che prima erano innumerevoli e adesso oltrepassano la staccionata, per aver superato la cenere. Io credo che anche ventotto anni fa lui non abbia visto niente, che ha soltanto stretto mani e accordi, firmato contratti di amicizia tra cattolici e ortodossi, fatto fotografie, coperto con una mano gli occhi e con l’altra gestito trasporti di scarpe, vestiti e viveri.
Andiamo insieme, gli dico. La strada, come l’altra volta, è franata sotto gli specchi. Si apre dopo una serie di frammenti a Nezuk e scende trai boschi, dove troviamo la gente di Žepa, che si unisce a noi, e poi quella di Tuzla e di Goražde, portano in mano un blocco dipinto e sbozzato o stuccato e ripassato nel piombo, i remi se li trascinano dietro la schiena e nelle carrette ci sono i chiavistelli cavati.
Dopo qualche giorno, la via digrada a Potocari, sul colle verde con i pennacchi bianchi.
Dall’altra parte, mi calo insieme agli altri, uno alla volta, lungo il crepaccio fumante. Sul fondo c’è la stessa nebbia da fiutare in cui prima immersi voce e occhi e dove salivano gli addormiti, ma la profondità riempie di nero quell’aria fredda o forse non è neanche fredda, non è neanche la profondità, è che qualcosa, in fondo, brucia e sale su.

Mentre noi ci caliamo, gli altri salgono, arrampicandosi sulle sporgenze. “Non vedono”, mi dice Visiju, di nuovo, e a Doboj ammassano le consegne, proprio dietro l’abaca di allumina in soda e zolfo.
Viene via il mollusco dal bisso, sgoccia dalle tempie della fillotassi scarabocchiata tra le sue dita.

È l’interno della diga in pietrarame a Rama, mi spella, mentre scendo, i triangoli occhi-bocca-naso, bocca-naso-orecchio, a me e agli altri, che non siamo più uno a dirsi, ma tutti quelli scavati che hanno risalito la crepa e scucito la trama dell’editto.

Da qui allora capisco. Mi guardo con Kronek e Visiju e capisco. Guardiamo giù e vediamo di nuovo la nebbia. Non ce l’abbiamo più davanti, che ci setaccia e ci deride, che ci umilia e ride, senza vederci. Sta giù, nel fondo. E sorride. Che sciocca. Sorride, beatamente, senza accorgersi di noi. Come prima, che non si accorgeva di noi. Ma prima stavamo davanti. Abbiamo forato la tela e immerso la mano nel fiume per fare tutto il giro e vedere i fili dei loro vivi salire su, fino quasi a toccarci. Da qui i sorrisi si vedono meglio, imbambolati, mentre gli occhi sono goccioline che risalgono la corrente dei camini idorcarburi insufflando la serpentinite batterica a nuova vita. Da lì, proliferano e fanno nuovi seguaci e nuovi morti. Ci caliamo ancora e uno a uno cominciamo ad usare i denti per staccare quelle fumarole dai loro occhi.
Quando cascano, a uno a uno, quelle anime che si dipartono dalla nebbia, sembrano bruciare, cadono come meteore nella platea seccandone le origini. Si alzano, uno ad uno, e corrono via, senza essere riusciti a vedere uno solo di noi.
Guardali, mi dice, sei contento? Hanno l’aureola gli angeli morti e la lingua delle rovine, ora. Guardano la crepa che si è aperta.
No, guarda meglio. Sono ciechi. Dalle cose morsicate sono cascati i frutti di varie stagioni. E le gemme.
Non per diritto, mi dice lui. E, infatti, tutti, dietro di noi, osservano la nebbia diradarsi senza orgoglio. Anche gli altri saranno stati felici, una volta, ma noi no. Quel che è fatto è dietro di noi. Sotto, l’angelo corre all’impazzata. Raccoglie i nascituri cadenti dei nostri ludioni. Abbiamo misurato il fondo di quelle immaginazioni verticali, salite su di noi dalla fiamma della candela. Nella cella, si annidano i cinque del centro orgonico. Da lì, recupero la testimonianza che andò persa. Me la passano in fretta, mentre sono chini a scrivere la sura dei tradimenti.

La via sul fondo del cubo è un lago, dilaga ed è la diga di Rama in pietrarame che mi sfilaccia i bordi del triangolo occhi naso bocca e nel centro sconfina il muro bianco dopo il muro nero il muro bianco con i buchi neri del 93.

Tuzla si scioglie via dagli analemmata in lignite, uno ad uno cadono i pezzi di mimesi attaccati sul velo e dalla bocca del boccascena entrano i digiunanti e gli orefici delle città, i sarti di Mostar e i tessitori di Travnik.
Il monte si aprì in una cavità e l’accolse, e una luce vi traspariva per loro, perché presso di loro c’era un angelo del Signore che li custodiva. Battezzò nel Giordano dove passarono i figli venuti dall’Egitto per detto deserto.
Si trovava con sua madre nel deserto, nella fessura del monte altissimo, e l’angelo di Dio li nutriva. Nel deserto si irrobustiva. Il suo cibo era poi costituito da locuste di campo e miele selvatico; il suo vestito era fatto di peli di cammello, e portava ai fianchi una cintura di pelle.
Tra le rocce nella grotta, gli diceva la madre, la processione ha schiuso la miniera sul fondo. Le braccia rosse si allungano a benedirmi.

Da Jala sono scesi i custodi e camminano a migliaia con Faruk e il lago sulla sua fronte è la casa gelata dei commedianti.

C’è la messa a Ometaljka e i tumuli e il suo nome e tutte le date e i mesi precedenti.

 

Continua…


 

Note

1 Tomba dei Re nei Balcani
2 Pietre tombali croate
3 Villaggio in Bosnia Erzegovina


In copertina: Max Liebermann, Concerto all’Opera House, 1921

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