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Tradurre The Cassandra complex di Holly Smale – Intervista a Giulia Zuddas

A cura di Annachiara Atzei

La letteratura ha il potere di abbattere le barriere della norma, offrendo una nuova prospettiva ai dubbi più profondi, ridisegnando il profilo frastagliato di pensieri intrusivi e spesso invalidanti.

Ma come si possono affrontare tematiche delicate come l’autismo, l’isolamento o l’incapacità di fallire nella società contemporanea attraverso la traduzione di un testo? È possibile sfidare gli stereotipi e permettere al lettore di riconoscersi in un personaggio immaginario, senza tradire il contesto o l’intento dell’autore? Di questo abbiamo parlato con Giulia Zuddas, traduttrice per Mondadori di The Cassandra Complex, romanzo della scrittrice britannica Holly Smale. Autrice della celebre serie per ragazzi Geek Girl, premiata a livello internazionale, Smale ha ricevuto una diagnosi di autismo a trentanove anni e, attraverso i social, celebra e racconta la neurodiversità, dando voce a un tema tanto complesso quanto necessario.

 

The Cassandra complex racconta la storia di una ragazza autistica, vittima di una società che è incastrata nei concetti di normalità e disuguaglianza. Come sono rappresentate le neurodiversità – o, in generale, le unicità – nei libri italiani, e che differenza c’è con la letteratura inglese?

Nel panorama della saggistica, l’Italia offre un’ampia scelta di libri che parlano di neurodivergenza, ma si tratta perlopiù di testi settoriali adoperati in ambito scolastico, universitario e professionale. Ci sono anche dei romanzi, certo, ma sono pochi, e di solito i protagonisti descritti sono bambini. Dalla letteratura inglese arriva molta narrativa, in una buona parte di genere Young Adult, che ha per protagoniste persone neurodivergenti adulte, e che si rivolge a un pubblico che comincia a sentirsi sempre più rappresentato da storie di neurodivergenza che interessano fasce d’età e sociali che fino a poco tempo fa non venivano prese in considerazione.

Cassandra comunica dicendo letteralmente quello che vede con i suoi occhi e che solo dopo sembra “processare” dentro di sé. Come hai lavorato per restituire questa caratteristica? Quali sono state le domande che hai dovuto porti per tradurre il romanzo?

Per tradurre questo libro ho dovuto ripensare il mio approccio alla traduzione delle espressioni che indicano la mimica facciale e gestuale perché Cassandra, che è la voce narrante di questo romanzo, è autistica e ha difficoltà a interpretare le emozioni degli altri. Nella letteratura di genere Young Adult in lingua inglese capita spesso di incappare in un uso massivo – rispetto all’italiano – di espressioni che inquadrano i gesti e le reazioni dei personaggi tramite fotografie istantanee e che lasciano così al lettore la libertà di interpretare l’emozione sotto esame. Di fronte a queste espressioni cerco sempre di alleggerire le ricorrenze e di interpretare il gesto descritto con l’emozione che si vuole trasmettere, per evitare che i personaggi diventino delle macchiette, e, nel complesso, per rendere la lettura più scorrevole, affinché il testo sembri scritto in italiano, e non si avverta – o meglio, si avverta il meno possibile – il passaggio dall’inglese. In questo caso, malgrado le espressioni della mimica siano poche, ho dovuto fare il ragionamento contrario. Quando Cassandra vede che la persona di fronte a sé sta sbattendo le palpebre (to blink) o sta scrollando le spalle (to shrug) ha estrema difficoltà a capire che tipo di emozione sta vivendo. Perciò nel suo racconto in prima persona, e quindi dal suo punto di vista, si limita a descrivere ciò che vede letteralmente, senza uso di metafore o di espressioni figurate. Nel processo di traduzione ho dovuto decostruire l’abitudine – la mia abitudine – di tradurre certe immagini e modi di dire con un linguaggio figurato e stratificato e ho cercato di restituire lo sguardo limpido e a tratti cronachistico di Cassandra, chiedendomi ogni volta se ciò che stavo scrivendo lo stessi filtrando con una mia sovrastruttura che il personaggio di Cassandra magari non ha o se stessi dando voce fedelmente ai suoi pensieri.

 

Nonostante ognuno di noi abbia una propria individualità, una storia, un contesto nel quale vive, spesso, in certa letteratura, si cade nello stereotipo. Da traduttrice, come si fa a dare voce al singolo o, meglio, come si possono rendere le peculiarità e allo stesso tempo fare in modo che il lettore si riconosca in quel personaggio?

Il lavoro di traduzione è una costante ricerca di equilibrio tra la fedeltà al testo originale e l’adattabilità nella lingua d’arrivo. Quando si traduce bisogna sempre avere bene in mente il lettore che riceverà il testo filtrato dal nostro lavoro, perché quando traduciamo stiamo rendendo un servizio a chi leggerà in italiano ma con la consapevolezza che abbiamo il dovere di rispettare l’intento dell’autore o dell’autrice. Ogni libro, ogni capitolo, e non esagero se dico ogni parola, è una continua rinegoziazione del contesto. Dal contesto dipende tutto: talvolta mantenere certi termini in lingua originale è fondamentale per restituire la peculiarità di un personaggio, di un luogo, di una cultura. Il gioco di leve consiste proprio nell’avvicinare chi legge al mondo da cui deriva il testo in originale ma ricorrendo a una sfera semantica e lessicale che renda giustizia all’armonia e alla musicalità dell’italiano. A mio parere, fai un buon servizio di traduzione quando il testo non sembra tradotto ma sembra scritto e pensato direttamente in italiano. È lì che abbatti la barriera linguistica pur salvaguardando le peculiarità della cultura del manoscritto di partenza e l’intento dell’autore o dell’autrice.

Si parla spesso del valore della lingua e dell’importanza di nominare le cose per dar loro esistenza. È possibile trasferire questo discorso in un lavoro di traduzione dove, oltre alla tecnica, conta anche la scelta lessicale?

Arriva sempre un momento nella traduzione di un libro in cui mi ritrovo a pormi la domanda: ma
questo, in italiano, come lo diciamo? E spesso mi capita di rispondermi “non lo diciamo”. O meglio, non usiamo un termine italiano, ma prendiamo in prestito il termine in inglese e lo facciamo nostro. Ci sono termini inglesi che in italiano abbiamo assimilato così come sono, e tradurli significherebbe tradire lo specchio dei tempi. Per fare un esempio, è impossibile negare l’impatto che i social hanno sulla nostra lingua, penso per esempio al termine “ghostare”, che viene usato quando una persona che senti più o meno regolarmente, a un certo punto, sparisce senza spiegazioni. Come puoi tradurlo in italiano? È un termine che esiste in virtù dell’esistenza stessa dei social, e riconoscerlo come tale significa rispettare l’evoluzione nel panorama linguistico e culturale, anche se a volte si ha in un certo modo la sensazione di tradire la lingua italiana.

In un mondo individualista, che non contempla il “diritto al fallimento”, che potere ha la letteratura? Può decretare cosa è dentro la norma e cosa no?

La letteratura aiuta a processare il concetto di normalità. E di conseguenza anche quello di anormalità. La letteratura ti presenta i tuoi simili, e ti dice “Guardati, non sei solo”. Restituisce una nuova dimensione ai tuoi dubbi, ai tuoi pensieri più intrusivi, ti fa salire all’ultimo piano del palazzo dall’altra parte della strada e ti fa vedere la tua quotidianità, il tuo io, da una prospettiva completamente diversa. E così ti rendi conto che non sei solo nella tua “stranezza”, nella tua “diversità” da quello che sul piano socio-relazione ti hanno sempre spiegato essere il canone. Ti rendi conto che fai parte di un villaggio, o di più villaggi, e che anche le etichette possono essere uno strumento per riconoscerti in un gruppo. E allora ascolti la voce di un personaggio e pensi “Ma allora non sono l’unica”, “Ma allora questa cosa non è poi così strana”, e rivaluti il concetto stesso di normalità. Anzi, inizi a mettere in discussione l’importanza che ha per te essere considerato normale, vivere nella norma. E in questo la letteratura abbatte i muri della norma, sì. Anche solo per aprire uno spiraglio tra i mattoni e permetterti di vedere che dall’altra parte c’è qualcuno che sta cercando esattamente come te il proprio posto nel mondo, e che, esattamente come te, non l’ha ancora trovato, e va bene così.

 


In copertina: l’autrice Holly Smale

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