Cocteau ha scritto “La mia casa stava bruciando e potevo salvare solo una cosa. Salvai il fuoco”.
È una frase che si attaglia, se proprio si vogliono trovare genealogie, all’ immensa parabola della
combustione che è stata l’opera (al nero) di David Lynch. Un tessuto inestricabile di rimandi, sincronicità e legami, come quello di un’altra figura camaleontica, un’altra icona sospesa come David Bowie (anche lui nato e morto in gennaio); a suggellare una fratellanza spirituale assolutamente evidente, Bowie interpreterà l’agente Philip Jeffries in Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992) con una eco che supera di gran lunga la durata scenica della sua apparizione, vera e propria chiave di volta dell’epopea realizzata con Mark Frost, per la scrittura orfica, e Angelo Badalamenti, per le immortali partiture musicali.
(Si sta scrivendo che Lynch ha reinventato “l’intrattenimento televisivo”: non è vero, perché Lynch ha portato il cinema in televisione, realizzando un materiale filmico all’ennesima potenza, dall’intensità quasi insostenibile, lungo decine di ore, e ciononostante troppo breve).
Ed è stato lo stesso enorme affetto, la stessa profonda gratitudine a circondare la notizia della loro morte (“Something happened on the day he died/ Spirit rose a metre then stepped aside” cantava Bowie in Blackstar (2016), eccezionale corpo-testo della propria fine).
Se David Lynch ha parlato a tutti, al di fuori del magistero di qualsiasi storia del cinema, in cui si
muoveva contemporaneamente da pioniere del futuro e alieno primordiale, è perché più degli altri, più di tutti, ha parlato a quella parte di noi a cui difficilmente riusciamo ad arrivare, alle oscurità ardenti del subconscio, inscrivendo per sempre un perturbante che conosciamo, a cui apparteniamo, ma a cui non parliamo mai, nel modo in cui riusciamo a percepire il reale.
Cineasta su cui “non c’è assolutamente niente da dire”, perché cineasta assolutamente “libero e liberante” (così Enrico Ghezzi, tra gli acquari di ciò che manca: alla deriva di grazia del canto delle sirene dei This Mortal Coil, è lo stesso Lynch a paragonare l’inconscio a un grande oceano-mare infinito); cineasta “che permette a chiunque di giocare il proprio equivoco”.
Mulholland Drive, intricatissimo capolavoro beffardo, fischiatissimo a Cannes, proponeva l’unione di due pilot di serie tv abortite, in qualche modo fuse insieme, fu un fallimento e fu riconosciuto all’uscita nei cinema, solo mesi dopo, come il film del secolo (in anticipo sul secolo: è del 2001), sgretolando tutto ciò che si poteva credere di avere capito fino a quel momento (“No hay banda!” e tutta la scena al celeberrimo Club Silencio); e ancora la bellezza dell’orizzonte in The Straight Story (1999), prodotto da Disney, la storia del contadino dell’Iowa che raggiunge il fratello reduce da un infarto a bordo del suo trattore malandato, che fin dal titolo giocava con la propria eccezionalità di film “normale” all’interno di un’opera sopra le righe, ed è l’ultimo commovente omaggio fordiano alla storia del cinema americano, passando per Lost Highway (Strade perdute,1997) in una corsa sfrenata verso il vuoto, in un’opera che flirta costantemente con la morte, che supera il cinema stesso, e ancora più indietro, verso le nebbie mortali, di un destino già consumato dalla nascita, di Elephant Man (1980), fino al principio, all’inquietudine sulfurea di Eraserhead (1977) così forte ed evidente da influenzare il maestro di un cinema ugualmente inarrivabile ma che sembra abissalmente diverso, Stanley Kubrick (che costringeva la troupe a guardare proprio Eraserhead durante le riprese di Shining, e non cita forse la Loggia Nera di Twin Peaks nel suo ultimo, straordinario commiato Eyes Wide Shut?). Accanto a una brutale, elegantissima messa in scena della ferocia, come in Blue Velvet (Velluto blu, 1986), come nel sopracitato Fire walk with me, opera oscena e catartica in senso greco, senza mai perdere la tenerezza Lynch mostra le crepe di un mondo, le sue contraddizioni inconsce, un umorismo dolcissimo, il taglio di luce freddissimo prima dell’alba.
È, infine, il cinema così consapevole di se stesso che non protegge lo spettatore dall’al di là dell’immagine che viene a visitarlo, come in Inland Empire (2006), in una sceneggiatura che viene realizzata durante la lavorazione, un’opera che è una serie di appunti, un mormorio sul già fatto che deve ancora venire. Un cinema, quello di Lynch, che sceglie deliberatamente di venire meno al suo dovere di proteggere lo spettatore da un’intesità dell’altrove, è l’urlo che incrina lo schermo (l’ultimo frame di Laura Palmer in Twin Peaks 3 ), è l’incendio su ogni sogno.

Due, anzi tre scene.
Tre schegge: la prima proviene da Wild at Heart (Cuore Selvaggio, 1990), violentissima educazione sentimentale, furore ischemico tra due fughe, due inseguimenti, tra un assassino e la sua amante: è il finale, dove Sailor Ripley (Nicholas Cage), malconcio, vede la fatina buona del Mago di Oz, in un trionfo di grottesco. E’ lo sconcerto del bene, è l’apparizione, imprevedibile e sorprendente, apparentemente incongrua, del lieto fine che predispone alla riconciliazione finale con Lula (Laura Dern). Nessuno, come Lynch, ha saputo tratteggiare il bene, in questa e in altre figure. Quasi una parodia di naiveté, tanto è spietata la misura di assoluto candore, l’innocenza.
La seconda proviene dalla seconda stagione di Twin Peaks: Windom Earle ha catturato il maggiore Garland Briggs, il padre di Bobby, personaggio apparentemente minore eppure fra i protagonisti di un tema portante della serie, che è il rapporto, irto di sussulti e contraddizioni, tra padri e figli. È un dialogo brevissimo e di devastante autenticità. Per estorcergli delle informazioni importanti, Windom inietta al militare il siero della verità, per poi chiedergli, quasi fosse una domanda di prova:
“Garland, what do you fear most in the world?”
“The possibility that love is not enough”.
C’è un’altra frase di Cocteau che torna in mente, ed è “Il cinema è la testimonianza della morte in azione.”
L’ultima scena proviene dalla terza stagione di Twin Peaks, amatissima-odiatissima opera testamento, ossessione filologica dei fan della prima e ultimissima ora, gigantesca summa attesa per venticinque anni solo per scoprire che il passato, davvero, non si può rivivere.
(E il Tempo, per Lynch, rimarrà sempre davvero solo un gioco barocco che non degnerà di nessuna considerazione nelle sue storie, e anche in questo disinteresse c’è una forma di assoluta grandezza).
È la scena in cui Margaret, Log lady, la signora Ceppo, in una luce rembrandtiana, trema davanti al ricevitore, parlando con Hawk. Catherine Elizabeth Coulson, l’attrice che la interpreta, ha un cancro all’ultimo stadio. È emaciata, fragilissima, porta un tubo per l’ossigeno, si spegnerà pochi giorni dopo le riprese. Tiene affettuosamente, con un braccio, il ceppo di legno (elemento disturbante e controverso all’inizio della serie, ora lo spettro di un neonato), come altre volte sta ripetendo un messaggio da parte sua:
“Hawk, my log is turning gold. The wind is moaning. I’m dying.”
E’ tangibile la misura esatta di un’assenza.
Le lacrime sono reali.
Di Gabriele Doria
In copertina: David Lynch © Jérôme Bonnet

