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Matrioska. I soffitti non devono avere crepe – Di Serena Nadal

Da quando abbiamo rinchiuso i nostri sospiri fra le mura di un’urbanizzazione senza freni? Da poche generazioni in realtà: la schiena sempre più curva, gli occhi con le pupille puntate su uno schermo che plasma la realtà, rendendola mobile per noi. Ancora seduti.

Concludiamo il 2024 con questa intensa riflessione di Serena Nadal.


«Il lontano illumina il vicino»
Lévi-Strauss

Sono seduta: le gambe sono fasciate nei jeans, i piedi costretti in scarpe che non ne rispettano la forma, una maglia nera mi avvolge la pelle, solo il viso è scoperto; sono seduta: ho le gambe accavallate, la schiena gobba, i miei occhi guardano un monitor, la luminosità è regolabile ma sempre dannosa; sono seduta e mi sono spostata per alcuni chilometri da seduta, in una macchina rossa dove la musica mi isola dai rumori del traffico; sono seduta: la mattina se alzo gli occhi vedo cemento; il pomeriggio un soffitto colorato; la sera, le travi di legno sono sopra la mia testa; il cielo lo sbircio dalla finestra, Nature Noise è solo nella libreria di Spotify, il verde mi passa veloce accanto quando, seduta, mi muovo da un punto all’altro della città, per passare da una scatola all’altra. Così tutti i giorni, tranne quando si va in vacanza, così tutti i giorni anche quando si muore: non si possono spargere le ceneri, devono restare dentro un’urna. Sono preziose, perché disperderle?.

La natura è diventata un hobby, una vacanza da organizzare, un modo per allontanarci dalla quotidianità; dove quotidianità è sinonimo di sedentarismo, stress e luce artificiale. Organizziamo week-end per guardare il cielo, camminare sul terreno ed esplorare le sfumature di verde. L’occhio umano è abile nel distinguere il colore delle piante – quanti tipi di verde riuscite a vedere quando fissate una chiazza di bosco? –, questo perché è dalle piante stesse che dipende la nostra sopravvivenza. E non è solo per l’ossigeno.
Viviamo da poche generazioni, cinque o sei, in case in cui basta un click per accendere una lampadina ma siamo stati agricoltori per cinquecento, e cacciatori-raccoglitori per ventimila; le piante erano il nostro ecosistema, il sole l’unica fonte di luce. Abbiamo vissuto insieme alle piante e con loro, e grazie a loro, ci siamo evoluti: i primi utensili erano di legno, i primi ripari erano di legno. «La vita animale dipende da quella vegetale. Senza le piante l’intera vita animale sarebbe impossibile»1. Dove per vita animale si intende anche quella dell’uomo. Colui che ha costruito città con proporzioni del proprio corpo, dimenticandosi tutto il resto. L’architettura è da sempre antropocenica. «Da specie in grado di vivere dovunque, ci siamo trasforma ti in esseri specializzati nella vita di città». La città nasce per soddisfare i bisogni dell’essere umano, come quello di ripararsi dagli agenti atmosferici, dagli animali, da tutto ciò che è pericoloso: in pochissimo diventa simbolo di modernità; la natura, invece, viene etichettata come selvaggia (il vocabolario, Treccani, come sinonimo di “selvaggio” scrive barbaro, incivile, zotico), le persone che ci vivono sono visti come subumani. Più ci si allontana dalla natura, più si è esseri evoluti.

L’uomo inventa, costruisce, arriva dove non sarebbe mai potuto arrivare ma dimentica il principio, che non è il sapere degli anziani, dei saggi; è il sapere che ci portiamo dentro: siamo dipendenti dalla natura e l’abbiamo cacciata di casa come farebbero i figli adolescenti con i genitori. «Alcuni hanno nostalgia della foresta, del sole e della luce vera, ma questa nostalgia viene vista come una malattia che bisogna debellare. Se qualcuno non è contento di questa vita tra le pietre si dice: è una persona innaturale»2. Il capo Tuiavii delle Isole Samoa, agli inizi del Novecento, decide di visitare l’Europa, il suo sguardo sul Papalagi, l’uomo bianco, è schietto «alla maniera dei fanciulli»; mette in guardia il suo popolo: state lontani dai popoli illuminati del continente europeo. «Credete di portarci la luce ma volete trascinarci nella vostra oscurità».
L’uomo bianco «vive in mezzo alle pietre, come la scolopendra tra le fessure della lava. Le pietre sono tutte intorno a lui, al suo fianco e sopra di lui. La sua capanna è simile a un vero proprio cassone di pietra. Un cassone con molti ripiani tutto sforacchiato. […] Questi cassoni di pietra a loro volta stanno numerosi l’uno addosso all’altro, non li separa nessun albero, nessun cespuglio, stanno come le persone, gomito a gomito, e in ognuno vivono tanti Papalagi quanti in un villaggio delle Samoa». I condomini in cui viviamo vengono definiti “cassoni di pietra”, il cassone potrebbe benissimo essere chiamato scatola. L’etimologia della parola scatola deriva dal greco, skatos: tesoro. Tutti i tesori si trovano dentro una scatola. L’evoluzione nasce dalla protezione, per proteggersi l’uomo (l’essere più importante del globo) ha iniziato a inscatolare ciò che è prezioso: per primo lui stesso.

Ci sistemiamo, e sistemiamo ogni cosa in qualcos’altro: un giorno lontanissimo, un uomo avrà osservato la sua donna con il ventre gonfio riposare serenamente; lei proteggeva la vita del loro bambino, lui avrebbe protetto loro. Abbiamo trasformato il mondo in matrioske. Il nostro sguardo si è rimpicciolito, abbiamo preso la misura delle scatole in cui ci siamo infilati, non osserviamo più l’orizzonte, scandiamo il tempo in parti che hanno un nome – ore, minuti, secondi – e lo rincorriamo: «Il Papalagi dedica tutte le sue forze e i suoi pensieri a trovare il modo di rendere sempre più pieno il tempo. Costruisce ruote di ferro per i suoi piedi e da ali alle sue parole per avere più tempo. […] Credo che il tempo gli sgusci via come un serpente tra le mani umide, proprio perché lo tiene troppo stretto a sé»3. Fingiamo benessere ma la presa di coscienza della realtà attuale «in cui sembrano raffigurarsi due nemici, la Madre Terra contro gli esseri umani, è a dir poco drammatica»4, ci dimentichiamo di essere parte di ecosistemi legati l’uno all’altro; ci dimentichiamo di respirare e, insieme a noi, il pianeta si indebolisce.

Esiste una giornata dedicata agli alberi, l’ho scoperto quando sono andata a prendere mio figlio a scuola, non perché lui lo sapesse ma perché un bambino di prima elementare è uscito dal cancello con un foglio a forma di cuore con un albero disegnato. Hai mai abbracciato un albero?, gli ho chiesto. No, mi ha risposto. L’ho accompagnato nella piazzetta adiacente dove sei pini hanno sollevato il cemento con le loro radici, i lavori di ristrutturazione del chiosco coprivano le voci. Simone ha abbracciato l’albero, non era confuso, sorrideva. «Va da sé che questa spinta nostalgica è estremamente potente, […]. Secondo me è comprensibile che la gente guardi nostalgicamente al passato, a un tempo in cui il mondo naturale non aveva ancora iniziato a morire, prima che le nostre forme culturali condivise scadessero nel marketing di massa e che le nostre città grandi e piccole diventassero anonimi centri occupazionali»5.

Cerchiamo il contatto con la natura solo a week-end alterni, solleviamo il coperchio delle nostre scatole solo se la stanchezza del lunedìmartedìmercoledìgiovedìvenerdì non ci immobilizza sul divano e la spinta inconscia del nostro corpo ci solleva e ci porta a dare voce alle nuvole, a bagnarci sotto la pioggia – salvare lumache –, trovare un raggio di sole che ci riscaldi, toglierci le scarpe – sporcare i piedi sull’erba –, percepirci come parte di un tutto, un tutto che smette di esistere il lunedì mattina, quando, pieni di energia, torniamo a silenziare il mondo, cercare le crepe nei soffitti e impostare la suoneria al telefono.

Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che guardiamo in tv documentari sulle
foreste fiumi mari e ghiacciai, che prenotiamo alberghi in mezzo ai boschi, che utilizziamo le piante come ornamento; considerate se questo è un uomo che compra cibo inscatolato, che butta pacchetti di sigarette dai finestrini delle macchine, che ha sempre più malattie; considerate se questa è una donna che congela gli ovuli, che relega l’attività fisica, il bere acqua in app con notifiche, che con la sua utilitaria corre per incastrare biologia, società, cultura, umanità nelle dodici ore; meditate che questo è, ma per quanto?

 

Serena Nadal


Note

1 Stefano Mancuso, Fitopolis, la città vivente, Laterza, Bari-Roma 2023.
2 Eric Scheurmann, Papalagi. Discorsi del Capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa, Stampa Alternativa 1998.
3 Op. cit.
4 Maria Bianco, Per una rifioritura degli ecosistemi, «LMDP – La meraviglia del possibile», n. 3, dicembre 2022.
5 Sally Rooney, Dove sei, mondo bello, Einaudi 2022.


In copertina: La strada entra nella casa, Umberto Boccioni

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